V.I.Lenin
L'estremismo
malattia infantile del comunismo

(1920)


Riprendiamo i capitoli dal IV al IX dello scritto di Lenin del 1920. Da Vladimir Ilic Lenin, Opere Scelte, Editori Riuniti, Roma 1970, pp. 1390-1440.


IV
Lottando con quali nemici in seno al movimento operaio
il bolsce­vismo è cresciuto, si è rafforzato e temprato?


Anzitutto e principalmente lottando contro l'opportunismo che nel 1914 si trasformò definitivamente in socialsciovinismo e passò definitivamente dalla parte della borghesia contro il proletariato. Quello era naturalmente il principale nemico del bolscevismo in seno al movi­mento operaio. E rimane ancora oggi il principale nemico nel campo internazionale. A questo nemico il bolscevismo rivolse e rivolge ancora la massima attenzione. Questo lato dell'attività dei bolscevichi è oggi abbastanza ben conosciuto anche all'estero.

Non si può dire la stessa cosa circa un altro nemico del bolscevismo in seno al movimento operaio. All'estero non è ancora abbastanza noto che il bolscevismo è cresciuto, si è formato e temprato in una lotta di molti anni contro il rivoluzionarismo piccolo-borghese, che rassomiglia all'anarchismo o ha preso qualcosa da esso e si allontana, in tutte le cose essenziali, dalle condizioni e dai bisogni di una tenace lotta di classe proletaria. In teoria, per i marxisti è cosa del tutto certa - e confermata pienamente dall'esperienza di tutte le rivoluzioni e di tutti i movimenti rivoluzionari europei - che il piccolo proprietario, il piccolo padrone (tipo sociale che in molti paesi europei è rappresentato da una massa molto vasta) subendo sotto il capitalismo una continua oppressione e, molto spesso, un peggioramento della sua vita incredi­bilmente brusco e rapido e la rovina, si abbandona con facilità a un rivoluzionarismo estremo, ma non è capace di dimostrare tenacia, orga­nizzazione, disciplina, fermezza. Il piccolo borghese «inferocito» per gli orrori del capitalismo è un fenomeno sociale caratteristico, come l'anarchismo, di tutti i paesi capitalistici. L'inconsistenza di tale rivo­luzionarismo, la sua sterilità, la sua proprietà di trasformarsi presto in sottomissione, apatia, fantasticheria e persino in «folle» passione per le varie correnti borghesi «di moda», tutto ciò è universalmente noto. Ma il riconoscimento teorico e astratto di queste verità, non libera per nulla i partiti rivoluzionari dai vecchi errori, i quali risorgono sempre per motivi inattesi, in forma alquanto nuova, in una veste e in circo­stanze prima sconosciute, in una situazione originale (più o meno ori­ginale).

L'anarchismo fu non di rado una sorta di castigo per i peccati op­portunisti del movimento operaio. Le due deformità si completavano a vicenda. E se in Russia, quantunque la composizione della popolazione sia più piccolo-borghese che nei paesi europei, l'anarchismo ha esercitato un'influenza relativamente insignificante nel periodo delle due rivolu­zioni (1905-1917) e durante la loro preparazione, ciò, in parte, dev'es­sere senza dubbio ascritto a merito del bolscevismo, che ha sempre condotto contro l'opportunismo la lotta più implacabile e irriducibile. Dico «in parte», perché nell'indebolimento dell'anarchismo in Russia una funzione ancor più importante ha avuto il fatto che questo, nel passato (nel decennio 1870-1880), aveva avuto la possibilità di svilup­parsi con straordinario rigoglio e di rivelare, fino in fondo, la sua erro­neità, la sua inettitudine come teoria capace di dirigere la classe rivo­luzionaria.

Il bolscevismo al suo sorgere, nel 1903, riprese la tradizione della lotta implacabile contro il rivoluzionarismo piccolo-borghese, semianar­chico (o capace di civettare con l'anarchismo), tradizione che era sempre esistita nella socialdemocrazia rivoluzionaria e che presso di noi si era particolarmente rafforzata dal 1900 al 1903, quando in Russia si erano gettate le basi del partito di massa del proletariato rivoluzionario. Il bolscevismo riprese e continuò la lotta contro il partito che esprimeva più di ogni altro le tendenze del rivoluzionarismo piccolo-borghese, cioè contro il partito dei «socialisti-rivoluzionari», intorno a tre punti principali. In primo luogo, quel partito, che negava il marxismo, si ostinava a non voler comprendere (forse è più esatto dire: non poteva com­prendere) la necessità di ponderare, con rigorosa obiettività, le forze di classe e i loro rapporti reciproci, prima di qualsiasi azione politica. In secondo luogo, quel partito ravvisava il suo particolare «rivoluzio­narismo», ossia il «sinistrismo», nel fatto che ammetteva il terrore individuale, gli attentati che noi marxisti respingevamo risolutamente. Noi, si capisce, respingevamo il terrorismo individuale soltanto per mo­tivi pratici, mentre la gente capace di condannare «per principio» il terrorismo della grande Rivoluzione francese o in genere il terrorismo di un partito rivoluzionario che abbia vinto e sia assediato dalla bor­ghesia di tutto il mondo, questa gente era già stata coperta di ridicolo e di vergogna da Plekhanov nel 1900-1903, quando Plekhanov era un marxista e un rivoluzionario. In terzo luogo, i «socialisti-rivoluzio­nari» ritenevano che essere «a sinistra» significasse dileggiare i pec­cati opportunisti relativamente piccoli della socialdemocrazia tedesca, pur imitando gli opportunisti estremi di quel medesimo partito, per esempio, nella questione agraria o nella questione della dittatura del proletariato.

La storia, sia detto di sfuggita, ha ora confermato, su una vastis­sima scala storico-mondiale, l'opinione che abbiamo sempre sostenuto, cioè che la socialdemocrazia rivoluzionaria tedesca (si noti che Plek­hanov sin dal 1900-1903 aveva chiesto l'espulsione di Bernstein dal partito, e i bolscevichi, che si mantennero sempre fedeli a questa tra­dizione, smascherarono nel 1913 tutta la bassezza, la viltà e il tradi­mento di Legien) era la più vicina a quel tipo di partito di cui aveva bisogno il proletariato rivoluzionario per poter vincere. Adesso, nel 1920, dopo i crolli ignominiosi e le crisi del periodo della guerra e dei primi anni del dopoguerra, è chiaro che, di tutti i partiti occiden­tali, proprio la socialdemocrazia rivoluzionaria tedesca ha dato i capi migliori e si è anche riavuta, risanata e rafforzata per prima. Ciò si vede sia nel partito degli spartachiani, sia nell'ala sinistra, proletaria, del «Partito socialdemocratico indipendente della Germania», la quale con­duce una lotta perseverante contro l'opportunismo e la mancanza di carattere dei Kautsky, degli Hilferding, dei Ledebour, dei Crispien. Se ora si getta uno sguardo d'insieme sul periodo storico completamente concluso, che va cioè dalla Comune di Parigi fino alla prima Repubblica socialista sovietica, il rapporto del marxismo con l'anarchismo prende in generale un contorno perfettamente determinato e incontestabile. In ultima analisi, è risultato che il marxismo aveva ragione, e se gli anarchici denunciarono giustamente lo spirito opportunistico delle idee sullo Stato, dominanti nella maggioranza dei partiti socialisti, in primo luogo questo spirito opportunistico era collegato con la deformazione e anzi addirittura con l'occultamento delle teorie di Marx sullo Stato (nel mio libro Stato e Rivoluzione ho rivelato che Bebel, per 36 anni, dal 1875 al 1911, tenne nascosta una lettera di Engels che svelava in modo particolarmente netto, reciso, aperto, chiaro, l'opportunismo delle concezioni socialdemocra­tiche correnti in merito allo Stato); in secondo luogo, la rettifica di queste idee opportuniste, il riconoscimento del po­tere dei Soviet e della sua superiorità sulla democrazia parlamentare borghese, procedettero con maggior rapidità e ampiezza proprio in seno alle correnti più marxiste nei partiti socialisti europei e americani.

In due casi la lotta del bolscevismo contro le deviazioni «di si­nistra» del partito bolscevico stesso prese proporzioni particolarmente ampie: nel 1908, in merito alla questione della partecipazione al «par­lamento» ultrareazionario e alle società operaie legali sottoposte a leggi ultrareazionarie, e nel 1918 (pace di Brest), a proposito della questione dell'ammissibilità di determinati «compromessi».

Nel 1908, i bolscevichi «di sinistra» furono espulsi dal nostro partito perché si rifiutavano ostinatamente di comprendere la necessità di partecipare al «parlamento» ultrareazionario. I «sinistri», molti dei quali erano ottimi rivoluzionari, che in seguito furono (e sono tuttora) con onore membri del partito comunista, si facevano specialmente forti della vittoriosa esperienza del boicottaggio fatto nel 1905. Quando lo zar, nell'agosto 1905, annunciò la convocazione del «parlamento» con­sultivo, i bolscevichi - contro tutti i partiti di opposizione e contro i menscevichi - ne proclamarono il boicottaggio, e realmente la rivolu­zione dell'ottobre 1905 lo spazzò via. Allora, il boicottaggio risultò giu­sto, non perché in generale sia giusto non partecipare ai parlamenti reazionari, ma perché si era giustamente valutata la situazione obiettiva che conduceva alla rapida trasformazione degli scioperi di massa dapprima in sciopero politico e poi rivoluzionario e da ultimo in insurrezione. Inoltre, allora si lottava per decidere se si doveva lasciare allo zar la convocazione della prima istituzione rappresentativa o se si doveva ten­tare di strappare l'iniziativa di questa convocazione dalle mani del vecchio potere. Quando mancò, e non poteva non mancare, la certezza di trovarsi di fronte a una situazione obiettiva analoga o a una tendenza e a un ritmo di sviluppo analogo, il boicottaggio cessò d'essere giusto.

Il boicottaggio bolscevico del «parlamento» nel 1905 arricchì il proletariato rivoluzionario di un'esperienza politica straordinariamente preziosa, dimostrando che nel combinare le forme di lotta legali e ille­gali, parlamentari ed extraparlamen­tari, è talora utile, e perfino necessario, sapere rinunziare a quelle parlamentari. Ma trasportare alla cieca, per pura imitazione, in modo non critico, quest'esperienza in condizioni diverse, in una situazione diversa, è un gravissimo errore. Un errore, sebbene piccolo e facile da correggere [1], fu già il boicottaggio bolscevico della Duma nel 1906. Un errore assai serio e più difficile da correggere fu il boicottaggio del 1907, 1908 e degli anni seguenti, quando da una parte non era prevedibile un'ascesa molto rapida dell'ondata rivoluzio­naria e il suo trasformarsi in una insurrezione, e quando, dall'altra parte, la necessità di combinare il lavoro legale con il lavoro illegale scaturiva da tutta la situazione storica della rinnovata monarchia bor­ghese. Oggi, quando si guarda indietro, a quel periodo storico comple­tamente chiuso, la cui connessione con i periodi successivi si mostra ormai nella sua pienezza, si vede con particolare evidenza che i bol­scevichi non avrebbero potuto mantenere (non dico neppure: consoli­dare, sviluppare, rafforzare) il saldo nucleo del partito rivoluzionario del proletariato negli anni 1908-1914, se, attraverso la lotta più aspra, non avessero affermato l'obbligo di combinare le forme illegali della lotta con le sue forme legali, con la partecipazione obbligatoria al par­lamento ultrareazionario e ad un certo numero di altre istituzioni sotto­poste a leggi reazionarie (casse di assicurazione, ecc.).

Nel 1918 non si è giunti fino alla scissione. I comunisti «di si­nistra» allora hanno formato solo un gruppo a parte o «frazione» nel seno del nostro partito, e d'altronde non per molto tempo. Nello stesso anno, i più noti rappresentanti del «comunismo di sinistra», per esem­pio i compagni Radek e Bukharin, hanno riconosciuto apertamente il loro errore. Essi avevano ritenuto che la pace di Brest fosse inammis­sibile in linea di principio e costituisse un compromesso con gli impe­rialisti, dannoso al partito del proletariato rivoluzionario. E in realtà quello era un compromesso con gli imperialisti, ma un tale compromesso, in tali circostanze, era indispensabile.

Oggi, quando io odo gli attacchi - dei «socialisti-rivoluzionari», per esempio - alla tattica da noi seguita sottoscrivendo il trattato di pace di Brest, o quando odo l'osservazione del compagno Lansbury, che in una conversazione con me disse: «I nostri capi inglesi delle trade unions dicono che i compromessi, se sono ammissibili per i bolscevichi, sono ammissibili anche per loro», io rispondo, di solito, in­nanzi tutto con un paragone semplice e «popolare»:

Immaginate che la vostra automobile sia fermata da banditi armati. Voi date loro il denaro, il passaporto, la rivoltella, l'automobile. In cambio vi siete liberati della piacevole compagnia dei banditi. Il com­promesso esiste, senza dubbio. «Do ut des». (Io «dò» a te il denaro, l'arma, l'automobile, «affinché tu dia» a me la possibilità di andar­mene sano e salvo.) Ma è ben difficile trovare un uomo in possesso delle sue facoltà mentali che dichiari un simile compromesso «inam­missibile in linea di principio», o che proclami la persona che lo ha concluso complice dei banditi (anche se i banditi, installatisi nell'au­tomobile, possono utilizzare la macchina e l'arma per nuove grassa­zioni). Il nostro compromesso con i banditi dell'imperialismo tedesco è stato simile a un tale compromesso.

Ma quando i menscevichi e i socialisti-rivoluzionari in Russia, gli scheidemanniani (e in notevole misura i kautskiani) in Germania, Otto Bauer e Friedrich Adler in Austria (prescindo poi dai signori Renner e compagni), i Renaudel, Longuet e compagni in Francia, i fabiani, gli «indipendenti» e il «Partito del lavoro» («laburisti») in Inghilterra, dal 1914 al 1918 e dal 1918 al 1920, hanno concluso dei compromessi coi banditi della propria borghesia e talvolta anche con quelli della bor­ghesia «alleata», contro il proletariato rivoluzionario del loro paese, allora si che tutti questi signori agivano come complici del banditismo.

La conclusione è chiara: negare «per principio» i compromessi, negare in generale ogni ammissibilità di compromessi, di qualunque ge­nere essi siano, è una puerilità, che è persino difficile prendere sul serio. Un uomo politico, che desideri essere utile al proletariato rivoluzionario, deve saper distinguere i casi concreti appunto di quei compromessi che sono inammissibili, nei quali si esprimono opportunismo e tradimento, e indirizzare tutta la forza della critica, tutta l'acutezza di uno spie­tato smascheramento e di una guerra implacabile contro questi com­promessi concreti, e non permettere agli espertissimi socialisti «affa­risti» e ai gesuiti parlamentari di evitare e sfuggire la responsabilità con disquisizioni sui «compromessi in generale». I signori «capi» inglesi delle trade unions, come quelli della società fabiana e del Partito labu­rista indipendente, eludono proprio in questo modo la responsabilità del tradimento da essi commesso, di un compromesso cosiffatto da essi concluso, compromesso che veramente rappresenta il peggior opportu­nismo, la defezione e il tradimento.

Vi sono compromessi e compromessi. Si deve essere capaci di ana­lizzare le circostanze e le condizioni concrete di ogni compromesso o di ogni diversa specie di compromesso. Si deve imparare a distinguere l'uomo che ha dato denaro e armi ai banditi per ridurre il male che i banditi commettono, e facilitarne l'arresto e la fucilazione, dall'uomo che dà denaro e armi ai banditi per spartire con essi la refurtiva. Nella politica, questo non è sempre così facile come nel piccolo esempio che ho citato e che un bambino può comprendere. Ma chi volesse escogitare una ricetta per gli operai, che offrisse loro decisioni preparate in anti­cipo per tutti i casi della vita, o promettesse loro che nella politica del proletariato rivoluzionario non ci saranno mai difficoltà e situazioni complicate, sarebbe semplicemente un ciarlatano.

Per evitare le false interpretazioni, tenterò di indicare, sia pure nel modo più breve, alcune condizioni fondamentali per l'analisi di com­promessi concreti.

Il partito che, firmando la pace di Brest, ha concluso un compro­messo con l'imperialismo tedesco, aveva di fatto elaborato il suo inter­nazionalismo dalla fine del 1914. Esso non aveva temuto di prender posizione per la sconfitta della monarchia zarista e di stigmatizzare la «difesa della patria» nella guerra tra due predoni imperialisti. I depu­tati al parlamento di questo partito andarono in Siberia, anziché pren­dere la via che conduce ai portafogli ministeriali in un governo bor­ghese. La rivoluzione, che ha abbattuto lo zarismo e creato la repubblica democratica, ha messo il partito a una nuova e grandissima prova: il partito non ha stipulato nessun accordo con i «propri» imperialisti, ma ne ha preparato il rovesciamento e li ha rovesciati. In possesso del potere politico, il partito non ha lasciato pietra su pietra né della pro­prietà fondiaria, né della proprietà capitalistica. Dopo aver pubblicato e annullato i trattati segreti degli imperialisti, questo partito ha pro­posto la pace a tutti i popoli, e si è sottomesso alla soperchieria dei predoni di Brest soltanto dopo che gli imperialisti anglo-francesi avevano mandato all'aria la pace e i bolscevichi avevano fatto tutto ciò che era umanamente possibile per affrettare la rivoluzione in Germania e negli altri paesi. Che un simile compromesso, concluso da un tale par­tito e in tali circostanze, sia stato assolutamente giusto, è cosa che diviene ogni giorno più chiara ed evidente per tutti.

I menscevichi e i socialisti-rivoluzionari in Russia (come pure, nel 1914-1920, i capi della II Internazionale in tutto il mondo) hanno in­cominciato con il tradimento, quando hanno giustificato, direttamente o indirettamente, la «difesa della patria», cioè la difesa della propria rapace borghesia. Essi hanno continuato nel tradimento quando sono entrati in coalizione con la borghesia del proprio paese e hanno lottato, insieme alla propria borghesia, contro il proletariato rivoluzionario del proprio paese. Il blocco che essi formarono in Russia prima con Kerenski e i cadetti, poi con Kolciak e Denikin, come pure il blocco formato all'estero dai loro compagni con le borghesie dei rispettivi paesi, signi­ficava un passaggio nel campo della borghesia contro il proletariato. Dal principio alla fine, il loro compromesso con i banditi dell'imperia­lismo è consistito in questo, che essi si sono resi complici del banditismo imperialista.



V
Il comunismo «di sinistra» in Germania.
I capi, il partito, la classe, le masse


I comunisti tedeschi dei quali ora dobbiamo parlare, non chiamano se stessi comunisti «di sinistra», ma, se non erro, «opposizione di principio». Però, dalla seguente esposizione si vedrà che essi presentano tutti i sintomi della «malattia infantile dell'estremismo».

Un piccolo opuscolo che difende il punto di vista di questa oppo­sizione, intitolato: La scissione nel Partito comunista tedesco (Lega degli spartachisti), edito dal «Gruppo locale di Francoforte sul Meno», espone con grandissimo rilievo, precisione, chiarezza e brevità la so­stanza delle idee di questa opposizione. Alcune citazioni basteranno per far conoscere al lettore questa sostanza:


II partito comunista è il partito della più risoluta lotta di classe...
...Politicamente, questo periodo di transizione [tra il capitalismo e il socialismo] è il periodo della dittatura proletaria...
...Si presenta la questione: chi deve esercitare la dittatura? Il partito comunista o la classe operaia?... Si deve, in linea di principio, aspirare alla dittatura del partito comunista, o a quella della classe proletaria?!!...


(Il corsivo in tutta la citazione è riprodotto dall'opuscolo.)

Più oltre il «Comitato centrale» del Partito comunista della Ger­mania viene accusato dall'autore dell'opuscolo di cercare le vie di una coalizione col Partito socialdemocratico indipendente della Germania, e di porre «la questione del riconoscimento di principio di tutti i mezzi politici» di lotta, compreso il parlamentarismo, soltanto per ma­scherare la sua principale ed effettiva tendenza a una coalizione con gli «indipendenti». E l'opuscolo continua:


L'opposizione ha scelto un'altra strada. Essa sostiene che la questione del dominio del partito comunista e della dittatura del partito è soltanto una questione di tattica. In ogni caso il dominio del partito comunista è l'ultima forma di ogni dominio di partito. Per principio si deve aspirare alla dittatura della classe proletaria. E tutte le decisioni del partito, la sua organizzazione, le sue forme di lotta, la sua strategia e tattica si devono adeguare a ciò. Conformemente a questo, bisogna respingere decisamente qualsiasi compromesso con altri partiti, qualsiasi ritorno alle forme di lotta del parlamentarismo, che sono storicamente e politicamente superate, qual­siasi politica di manovre e di collaborazionismo. I metodi specificamente pro­letari della lotta rivoluzionaria devono essere sottolineati con maggior forza. Ma per attrarre i più larghi circoli e strati proletari, che devono intervenire nella lotta rivoluzionaria sotto la guida del partito comunista, bisogna creare nuove forme di organizzazione sulla base più ampia e nella cornice più vasta. Questo punto di raccolta di tutti gli elementi rivoluzionari è la lega operaia costituita sulla base delle organizzazioni di fabbrica. In essa devono unirsi tutti gli operai che seguono la parola d'ordine: fuori dai sindacati! Qui, il proletariato combattente si schiererà nelle più vaste formazioni di bat­taglia. Il riconoscimento della lotta di classe, del sistema dei Soviet e della dittatura è sufficiente per entrare nella lega operaia. Tutta l'ulteriore edu­cazione politica delle masse combattenti e l'orientamento politico nella lotta è compito del partito comunista, il quale sta fuori della lega operaia...
...In conseguenza, due partiti comunisti si ergono ora uno contro l'altro:
L'uno è un partito di capi, il quale si sforza di organizzare la lotta rivoluzionaria e di dirigerla dall'alto, arrivando ai compromessi e al parla­mentarismo, per creare situazioni tali che permettano ai capi di entrare in un governo di coalizione, nelle mani del quale si troverebbe la dittatura.
L'altro è il partito delle masse, il quale, aspettando l'ascesa della lotta rivoluzionaria dal basso, conosce e adotta per questa lotta soltanto un unico metodo, che conduce dritto allo scopo, e respinge tutti i metodi parlamen­tari e opportunistici. Questo unico metodo è il metodo del rovesciamento senza discussioni della borghesia per istituire quindi la dittatura di classe del proletariato per la realizzazione del socialismo...
...Là, dittatura dei capi; qui, dittatura delle masse! Tale è la nostra parola d'ordine.


Queste sono le tesi essenziali che caratterizzano le idee dell'oppo­sizione del Partito comunista tedesco.

Ogni bolscevico che abbia coscientemente partecipato allo sviluppo del bolscevismo dal 1903 in poi, o l'abbia osservato da vicino, leggendo questi ragionamenti dirà subito: «Che robaccia vecchia e arcinota! Che infantilismo "di sinistra"!».

Ma esaminiamo più da vicino i ragionamenti che abbiamo citato.

Il solo fatto di porre il dilemma «dittatura del partito oppure dittatura della classe? dittatura (partito) dei capi oppure dittatura (partito) delle masse?», attesta una incredibile e irrimediabile confu­sione di idee. Questa gente si sforza di escogitare qualche cosa del tutto speciale, ma diventa ridicola nella sua zelante sofisticheria. Tutti sanno che le masse si dividono in classi; che si possono contrapporre le masse e le classi soltanto quando si contrapponga l'immensa maggioranza generica, non articolata in base al posto occupato nell'ordinamento sociale della produzione, alle categorie che occupano un posto speciale nell'ordinamento sociale della produzione; che le classi sono dirette di solito e nella maggior parte dei casi, almeno nei paesi civili moderni, da partiti politici, che i partiti politici, come regola generale, sono diretti da gruppi più o meno stabili di persone rivestite di maggiore autorità, dotate d'influenza e di esperienza maggiori, elette ai posti di maggior responsabilità, e chiamate capi. Tutto ciò è elementare. Tutto ciò è semplice e chiaro. Che bisogno c'era di sostituirlo con un gergo incomprensibile, con un nuovo volapük? Da un lato, è evidente che costoro si sono confusi quando son venuti a trovarsi in una situazione difficile, nella quale il rapido avvicendarsi di una situazione legale con una illegale del partito turba il rapporto consueto, normale e semplice tra capi, partiti e classi. In Germania, come negli altri paesi europei, ci si è troppo abituati alla legalità, alla libera e regolare ele­zione dei «capi» mediante regolari congressi di partito, al comodo controllo della composizione di classe dei partiti mediante le elezioni al parlamento, le assemblee, la stampa, l'orientamento dei sindacati e di altre leghe, ecc. Quando, da tale consuetudine, per causa del corso tempestoso della rivoluzione e dello sviluppo della guerra civile, si è dovuto rapidamente passare all'avvicendamento della legalità e della illegalità, alla combinazione dell'una e dell'altra, a metodi «incomodi» e «non democratici» di selezione o formazione o conservazione dei «gruppi di capi», essi si sono smarriti e hanno incominciato a tirar fuori sciocchezze madornali. Verosimilmente i «tribunisti» [2] olandesi che ebbero la sventura di nascere in un piccolo paese, con le tradizioni e le condizioni di una posizione legale particolarmente privilegiata e particolarmente stabile, uomini che non avevano mai visto avvicendarsi situazioni legali e illegali, si sono confusi e smarriti loro stessi e hanno contribuito a tali assurde invenzioni.

D'altra parte, si nota un uso assolutamente irriflessivo e incoerente delle parole «massa» e «capi», che sono «di moda» ai nostri giorni. Quella gente ha sentito molte volte e ha tenuto a mente gli attacchi contro i «capi», la contrapposizione dei «capi» alle «masse», ma non ha saputo riflettere e venire in chiaro della cosa.

Il contrasto tra i «capi» e le «masse» si è manifestato in tutti i paesi con particolare chiarezza e acutezza alla fine della guerra imperialista e dopo di essa. Marx ed Engels avevano spiegato molte volte le cause profonde di questo fenomeno, negli anni 1852-1892, con l'esempio dell'Inghilterra. La posizione monopolistica dell'Inghilterra separò dalla «massa» un'«aristocrazia operaia», a metà piccolo-borghese, opportu­nista. I capi di questa aristocrazia operaia passavano continuamente dalla parte della borghesia, erano mantenuti da questa, direttamente o indirettamente. Marx si guadagnò l'onorifico odio di questi farabutti, bollandoli apertamente come traditori. Il più recente imperialismo (del ventesimo secolo) ha creato per alcuni paesi avanzati una situazione privilegiata e monopolistica, e su questo terreno è comparso dapper­tutto, nella II Internazionale, il tipo dei capi traditori, opportunisti, socialsciovinisti, che difendono gli interessi della loro corporazione, del loro strato di aristocrazia operaia. Si è prodotto un distacco dei partiti opportunisti dalle «masse», cioè dagli strati più estesi dei lavoratori, dalla loro maggioranza, dagli operai peggio pagati. La vittoria del pro­letariato rivoluzionario è impossibile senza lottare contro questo male, senza smascherare, svergognare e scacciare i capi opportunisti e social-traditori: questa è la politica fatta dalla III Internazionale.

Giungere, per questo motivo, fino a contrapporre, in linea gene­rale, la dittatura delle masse alla dittatura dei capi, è un'assurda e ridi­cola sciocchezza. È particolarmente buffo vedere che, di fatto, al posto dei vecchi capi, i quali hanno delle idee comuni sulle cose semplici, si mettono avanti (protetti dalla parola d'ordine: «Abbasso i capi») dei nuovi capi, che dicono assurdità e incongruenze inverosimili. Tali sono in Germania: Laufenberg, Wolffheim, Horner [3], Karl Schroder, Friedrich Wendel, Karl Erler [4]. I tentativi di quest'ultimo di «approfondire» la questione e in generale di proclamare l'inutilità e il «carattere bor­ghese» dei partiti politici, sono tali colonne d'Ercole dell'assurdo, da far cadere le braccia. Qui si vede in realtà come, da un piccolo errore, si può sempre arrivare a un errore madornale, se vi si insiste, se lo si vuol motivare profondamente, se lo si «spinge fino in fondo».

La negazione del partito e della disciplina di partito: ecco il risul­tato al quale è giunta l'opposizione. E ciò equivale al completo disarmo del proletariato a favore della borghesia. Ciò equivale appunto a quella dispersione, a quella incostanza, a quella incapacità di star saldi, di essere uniti, di coordinare le azioni, che sono proprie della piccola borghesia e che rovineranno inevitabilmente ogni movimento rivoluzionario del proletariato se vengono trattate con indulgenza. Dal punto di vista del comunismo, negare la necessità del partito, significa voler saltare dalla vigilia del crollo del capitalismo (in Germania), non alla fase più bassa o a quella media, ma alla fase superiore del comunismo. Noi in Russia (nel terzo anno dopo l'abbattimento della borghesia) muoviamo i primi passi sulla via che va dal capitalismo al socialismo, ossia alla fase in­feriore del comunismo. Le classi sono rimaste e rimarranno in vita ancora per anni, dappertutto, anche dopo la conquista del potere da parte del proletariato. Può darsi che questo termine sia più breve in Inghilterra, dove non ci sono i contadini (ma ci sono tuttavia i piccoli padroni!). Sopprimere le classi non significa soltanto cacciare i proprie­tari fondiari e i capitalisti, - ciò che noi abbiamo fatto con relativa facilità - ma vuol dire eliminare i piccoli produttori di merci, che è impossibile cacciare, impossibile schiacciare, con i quali bisogna tro­vare un'intesa, che si possono (e si devono) trasformare, rieducare solo con un lavoro di organizzazione molto lungo, molto lento e molto pru­dente. Essi avvolgono il proletariato da ogni parte, in un ambiente piccolo-borghese, lo penetrano di questo ambiente, lo corrompono con esso, spingono continuamente il proletariato a ricadere nella mancanza di carattere, nella dispersione, nell'individualismo, nelle alternative di entusiasmo e di abbattimento, che sono proprie della piccola borghesia. Occorre la più severa centralizzazione e disciplina in seno al partito politico del proletariato per controbattere questi difetti, perché il pro­letariato adempia giustamente, con buon successo, vittoriosamente, la funzione organizzativa (che è la sua funzione capitale). La dittatura del proletariato è una lotta tenace, cruenta e incruenta, violenta e paci­fica, militare ed economica, pedagogica e amministrativa, contro le forze e le tradizioni della vecchia società. La forza dell'abitudine di milioni e decine di milioni di uomini è la più terribile delle forze. Senza un partito di ferro, temprato nella lotta, senza un partito che goda la fidu­cia di tutto quanto vi è di onesto nella sua classe, senza un partito che sappia interpretare lo stato d'animo delle masse e influire su di esso, è impossibile condurre a buon fine una lotta simile. Vincere la grande borghesia centralizzata è mille volte più facile che «vincere» milioni e milioni di piccoli padroni, i quali, mediante la loro attività quoti­diana, continua, non appariscente, impercettibile, dissolvente, perven­gono a quei medesimi risultati che sono necessari alla borghesia e che portano alla restaurazione della borghesia. Chi indebolisce, sia pur di poco, la disciplina ferrea del partito del proletariato (soprattutto du­rante la dittatura del proletariato), aiuta di fatto la borghesia contro il proletariato.

Accanto al problema dei capi, del partito, della classe, della massa, si deve porre il problema dei sindacati «reazionari». Ma prima mi per­metto ancora un paio di osservazioni conclusive, sulla base delle espe­rienze del nostro partito. Attacchi contro la «dittatura dei capi» ce ne sono stati sempre nel nostro partito: ricordo i primi attacchi nel 1895, quando il partito non esisteva ancora formalmente, ma il gruppo centrale cominciava già a formarsi a Pietroburgo e doveva incaricarsi della direzione dei gruppi distrettuali. Al IX Congresso del nostro par­tito (aprile 1920), ci fu una piccola opposizione [5] che parlò anch'essa contro la «dittatura dei capi», contro l'«oligarchia» ecc. Quindi nella «malattia infantile» del «comunismo di sinistra» fra i tedeschi, non c'è nulla di strano, nulla di nuovo, nulla di terribile. È una malattia che passa senza pericolo, e dopo di essa l'organismo diviene anche più forte. D'altra parte, il rapido avvicendamento del lavoro legale e ille­gale, al quale era connessa la necessità di «nascondere» in modo par­ticolare, di rendere particolarmente introvabili proprio lo stato mag­giore, proprio i capi, ha prodotto talvolta, da noi, fenomeni estrema­mente pericolosi. Il peggiore di questi avvenne nel 1912, quando un provocatore, Malinovski, entrò nel Comitato centrale dei bolscevichi. Egli denunciò decine e decine di compagni fra i migliori e i più devoti, facendo prendere loro la via della galera e affrettando la morte di pa­recchi. Se costui non causò danni ancor maggiori, fu soltanto perché, da noi, la combinazione del lavoro legale e illegale era bene organizzata. Per guadagnarsi la nostra fiducia, Malinovski, come membro del Comi­tato centrale del partito e come deputato alla Duma, doveva aiutarci a pubblicare giornali quotidiani legali, i quali, anche sotto lo zarismo, sapevano condurre la lotta contro l'opportunismo dei menscevichi e propagandare i principi del bolscevismo in forma opportunamente ma­scherata. Mentre con una mano mandava in galera e alla morte decine e decine dei migliori bolscevichi, Malinovski doveva contribuire con l'altra mano a formare, per mezzo della stampa legale, decine e decine di migliaia di nuovi bolscevichi. Su questo fatto non farebbero male a riflettere quei compagni tedeschi (e anche inglesi e americani, francesi e italiani), che ora hanno davanti a sé il compito di imparare a svol­gere un lavoro rivoluzionario nei sindacati reazionari [6].

In molti paesi, compresi anche i paesi più progrediti, la borghesia fa penetrare e farà penetrare indubbiamente molti provocatori nelle file dei partiti comunisti. Uno dei mezzi per lottare contro questo pericolo è una intelligente combinazione del lavoro legale e illegale.



VI
Devono i rivoluzionari
lavorare nei sindacati reazionari?


I «sinistri» tedeschi, da parte loro, considerano pacifica una ri­sposta incondizionatamente negativa a questa domanda. Secondo loro, bastano le declamazioni e le esclamazioni di sdegno contro i sindacati «reazionari» e «controrivoluzionari» (ciò risulta in modo specialmente «solido» e specialmente sciocco in Karl Horner) per «dimostrare» che il lavoro dei rivoluzionari, dei comunisti nei sindacati gialli, social-sciovinisti, collaborazionisti, fautori di Legien, controrivolu­zio­nari, è inutile e anzi inammissibile.

Ma, per quanto i «sinistri» tedeschi siano persuasi che questa tattica è rivoluzionaria, essa in realtà è radicalmente falsa e non è fatta d'altro che di frasi vuote.

Per spiegare questo, voglio incominciare con la nostra esperienza, in conformità col piano generale del presente scritto, che ha lo scopo di applicare all'Europa occidentale ciò che nella storia del bolscevismo e nella sua tattica presente è applicabile, valevole, obbligatorio per tutti i paesi.

I rapporti fra capi, partito, classe, masse e altresì l'atteggiamento della dittatura del proletariato e del partito proletario verso i sindacati, si presentano oggi, da noi, nella seguente forma concreta: la dittatura vie­ne realizzata dal proletariato organizzato nei Soviet e diretto dal par­tito comunista dei bolscevichi che, secondo i dati dell'ultimo congresso del partito (aprile 1920), conta 611 mila iscritti. Il numero degli iscritti oscillò molto fortemente prima della rivoluzione d'Ottobre e dopo di essa; anteriormente - anche nel 1918 e 1919 - era notevolmente mi­nore [7]. Noi temiamo un eccessivo allargamento del partito perché in un partito che è al governo tentano inevitabilmente di insinuarsi arrivisti e avventurieri, che meritano soltanto di essere fucilati. L'ultima volta abbiamo spalancato le porte del partito - soltanto agli operai e ai con­tadini - nei giorni (inverno 1919) in cui Iudenic si trovava a poche verste da Pietrogrado e Denikin si trovava a Oriol (a circa 350 verste da Mosca), cioè quando un pericolo disperato e mortale minacciava la Repubblica sovietica, e quando avventurieri arrivisti e scrocconi e in ge­nerale uomini malsicuri non potevano affatto contare, unendosi ai comu­nisti, su una carriera vantaggiosa (ma potevano piuttosto attendersi la forca e le torture). Il partito, che convoca ogni anno i suoi congressi (all'ultimo partecipò un delegato per ogni mille iscritti), è diretto da un Comitato centrale eletto dal congresso e composto di 19 persone. Il lavoro corrente è sbrigato a Mosca da due collegi ancor più ristretti, cioè dal cosiddetto «Orgburò» (Ufficio di organizzazione) e dal «Politburò» (Ufficio politico) che vengono eletti in seduta plenaria dal Comitato centrale e sono composti ciascuno di cinque membri del Comitato centrale. Ne risulta quindi una vera e propria «oligarchia». Nella nostra repubblica nessuna importante questione politica o di organizzazione viene mai decisa da un'istituzione di Stato senza le direttive del Comitato centrale del partito.

Il partito si appoggia nel suo lavoro direttamente sui sindacati, che oggi, secondo i dati dell'ultimo congresso (aprile 1920), contano più di 4 milioni di iscritti, e formalmente sono apolitici. Di fatto, tutti gli organi direttivi dell'immensa maggioranza dei sindacati, e in prima linea del Centro o Ufficio sindacale panrusso (Consiglio centrale pan-russo dei sindacati), sono composti di comunisti ed applicano sempre le direttive del partito. Si ha in definitiva un apparato formalmente non comunista, flessibile e relativamente ampio, molto potente, prole­tario, mediante il quale il partito è strettamente collegato alla classe e alle masse e attraverso il quale, sotto la direzione del partito, si rea­lizza la dittatura della classe. Senza il più stretto legame con i sinda­cati, senza il loro entusiastico appoggio, senza il loro lavoro pieno di abnegazione per l'organizzazione non soltanto economica, ma anche mili­tare, noi non avremmo certo potuto governare il paese e realizzare la dittatura, non dico durante due anni, ma neppure durante due mesi. S'intende che questo strettissimo contatto implica nella pratica un la­voro molto complicato e vario: propaganda, agitazione, riunioni tempe­stive e frequenti, non soltanto con i dirigenti, ma anche in generale con i membri attivi e influenti dei sindacati, lotta risoluta contro i menscevichi che fino ad ora dispongono di un certo numero, benché molto piccolo, di fautori e li inducono a servirsi di tutte le possibili insidie controrivoluzionarie, a cominciare dalla difesa ideologica della democrazia (borghese) e della propaganda dell'«indipendenza» dei sin­dacati (indipendenza dal potere statale proletario!), per finire con il sabotaggio della disciplina proletaria, ecc.

Noi non riteniamo sufficiente il legame con le «masse» per mezzo dei sindacati. La pratica ha creato presso di noi, nel corso della rivo­luzione, un'altra istituzione, le conferenze di operai e contadini senza partito, che noi ci adoperiamo in tutti i modi ad appoggiare, sviluppare e allargare, per seguire la disposizione d'animo delle masse, avvicinarci ad esse, rispondere ai quesiti che ci pongono, scegliere in mezzo ad esse i migliori lavoratori per i posti governativi, ecc. In uno degli ul­timi decreti, col quale si trasforma il Commissariato del popolo per il controllo statale in «Ispezione operaia e contadina», si è concesso a tali conferenze di senza partito il diritto di eleggere gli incaricati del controllo statale per le ispezioni di varia specie, ecc.

Inoltre, s'intende, tutto il lavoro del partito si svolge attraverso i Soviet, che raggruppano le masse lavoratrici senza distinzione di pro­fessione. I congressi mandamentali dei Soviet sono un'istituzione così democratica che non ha avuto e non ha ancora riscontro nelle migliori fra le repubbliche democratiche del mondo borghese, e per mezzo di questi congressi (che il partito si sforza di seguire con la massima atten­zione), come pure con l'invio continuo di operai coscienti nei villaggi con svariati incarichi, viene realizzata la funzione dirigente del pro­letariato urbano, la lotta sistematica contro i contadini ricchi, borghesi, sfruttatori e speculatori, ecc.

Tale è il meccanismo generale del potere statale proletario, osser­vato «dall'alto», dal lato della realizzazione pratica della dittatura. Si può sperare che il lettore comprenda perché al bolscevismo russo, che conosce questo meccanismo e lo ha visto svilupparsi durante venti­cinque anni dai circoli clandestini, piccoli, illegali, tutte le chiacchiere sul tema: «dall'alto» o «dal basso», dittatura dei capi o dittatura delle masse, ecc., non possono non sembrare scempiaggini ridicole e puerili, simili a una discussione per sapere se all'uomo sia più utile la gamba sinistra o il braccio destro.

Scempiaggini altrettanto ridicole e puerili non possono non sem­brare a noi anche le chiacchiere, estremamente dotte e terribilmente rivoluzionarie, dei «sinistri» tedeschi i quali dicono che i comunisti non possono e non devono lavorare nei sindacati reazionari, che è lecito rinunziare a questo lavoro, che bisogna uscire dai sindacati e creare assolutamente una «lega operaia» del tutto nuova, pura, escogitata da comunisti molto simpatici (e per la maggior parte, verosimilmente, molto giovani), ecc.

Il capitalismo lascia inevitabilmente in eredità al socialismo, da una parte, le vecchie distinzioni professionali e corporative fra gli ope­rai, distinzioni che si sono stabilite attraverso i secoli; e, d'altra parte, i sindacati, che possono svilupparsi e si svilupperanno soltanto con molta lentezza, nel corso di molti anni, in sindacati di produzione più larghi e meno corporativistici (che abbracciano intieri rami di produzione e non soltanto una corporazione, un mestiere, una pro­fessione). In seguito, per mezzo di tali sindacati di produzione, si passerà alla soppressione della divisione del lavoro tra gli uomini, all'educazione, istruzione, preparazione di uomini sviluppati e pre­parati in tutti i sensi, di uomini capaci di far tutto. A ciò tende il comunismo; a questo deve tendere e arriverà, ma soltanto dopo un lungo periodo di anni. Tentare oggi di anticipare praticamente questo futuro risultato del comunismo pienamente sviluppato, pienamente con­solidato e formato, completamente florido e maturo, è come voler inse­gnare la matematica superiore a un bambino di quattro anni.

Noi possiamo (e dobbiamo) incominciare a costruire il socialismo non con un materiale umano fantastico e creato appositamente da noi, ma con il materiale che il capitalismo ci ha lasciato in eredità. Ciò è senza dubbio molto «difficile». Ma ogni altro modo di affrontare il compito è cosi poco serio, che non vale la pena di parlarne.

I sindacati, al principio dello sviluppo del capitalismo, furono un gigantesco progresso per la classe operaia, in quanto rappresentarono il passaggio dalla dispersione e dall'impotenza degli operai ai primi germi dell'unione di classe. Quando incominciò a svilupparsi la forma suprema dell'unione di classe dei proletari, il partito rivoluzionario del proletariato (il quale non sarà degno del suo nome finché non imparerà ad unire i capi con la classe e con le masse, in un sol tutto, in qualche cosa di inscindibile), i sindacati incominciarono inevitabilmente a rivelare alcuni tratti reazionari, un certo angusto spirito corporativo, una certa pro­pensione all'apoliticismo, una certa fossilizzazione, ecc. Ma il proleta­riato, in nessun paese del mondo, non si è sviluppato, né poteva svi­lupparsi altrimenti che per mezzo dei sindacati, per mezzo dell'azione reciproca tra sindacati e partito della classe operaia. La conquista del potere politico da parte del proletariato è un gigantesco passo innanzi che il proletariato, come classe, ha compiuto, e il partito deve ancor più, in una forma nuova e non soltanto come prima, educare i sinda­cati e dirigerli; senza però dimenticare, nel tempo stesso, che essi sono, e per molto ancora resteranno, una necessaria «scuola di comunismo» e una scuola preparatoria per la realizzazione, da parte dei proletari, della loro dittatura, una unione necessaria degli operai per il graduale passaggio dell'amministrazione di tutta l'economia del paese nelle mani della classe operaia (e non di singole professioni), e quindi nelle mani di tutti i lavoratori.

Un certo «carattere reazionario» dei sindacati, nel senso citato, è inevitabile durante la dittatura del proletariato. Non comprendere questo significa non capire niente delle condizioni fondamentali del passaggio dal capitalismo al socialismo. Temere questo «carattere rea­zionario», tentare di cavarsela senza di esso, di saltare oltre, è la mag­giore delle sciocchezze, perché significa temere la funzione dell'avan­guardia proletaria, che consiste, appunto, nell'istruire, nell'illuminare, nell'educare, nell'attrarre gli strati e le masse più arretrate della classe operaia e dei contadini a una nuova vita. D'altra parte, sarebbe un errore ancora più grave differire la realizzazione della dittatura del proletariato, finché non resti più un solo operaio che dimostri grettezza professio­nale, un solo operaio con pregiudizi corporativistici e tradunionisti. L'arte dell'uomo politico (e la giusta concezione del proprio compito da parte di un comunista) consiste appunto nel valutare giustamente le condizioni e il momento in cui l'avanguardia del proletariato può, con buon successo, prendere il potere, in cui essa può ottenere, per la presa del potere e dopo la presa del potere, un sufficiente appoggio di strati abbastanza vasti della classe operaia e delle masse lavoratrici non pro­letarie, in cui, dopo di ciò, essa riuscirà a mantenere il suo dominio, a rafforzarlo, a estenderlo per mezzo dell'educazione, dell'istruzione, della conquista di masse sempre più numerose di lavoratori.

Proseguiamo. Nei paesi più avanzati della Russia, un certo rea­zionarismo dei sindacati si è manifestato, e doveva senza dubbio manifestarsi, molto più fortemente che da noi. Da noi, i menscevichi ebbero un appoggio nei sindacati (e in parte l'hanno ancora oggi in pochissimi sindacati) appunto in conseguenza della grettezza corporativistica, del­l'egoismo e dell'opportunismo professionale. In occidente, i mensce­vichi di colà si sono «annidati» molto più solidamente nei sindacati; là si è formato uno strato, molto più forte che da noi, di «aristo­crazia operaia» corporativistica, gretta, egoista, sordida, interessata, pic­colo-borghese, di mentalità imperialista, asservita e corrotta dall'impe­rialismo. Ciò è incontestabile. La lotta contro i Gompers, contro i si­gnori Jouhaux, Henderson, Merrheim, Legien e compagni nell'Europa occidentale è incomparabilmente più difficile della lotta contro i nostri menscevichi, i quali rappresentano un tipo sociale e politico del tutto simile. Questa lotta deve essere condotta senza pietà e, come noi abbiamo fatto, deve essere necessariamente continuata fino a disonorare comple­tamente e a scacciare dai sindacati tutti i capi incorreggibili dell'oppor­tunismo e del socialsciovinismo. Non si può conquistare il potere poli­tico (e non si deve tentare di prenderlo) fino a quando tale lotta non sia stata portata a un certo grado, e questo «certo grado» non sarà lo stesso nei diversi paesi e in circostanze diverse; e soltanto dei dirigenti politici del proletariato, riflessivi, competenti ed esperti, possono deter­minarlo esattamente in ogni singolo paese. (Come criterio del successo in questa lotta, servirono presso di noi, fra l'altro, le elezioni all'Assem­blea costituente nel novembre 1917, pochi giorni dopo la rivoluzione proletaria del 25 ottobre 1917. In queste elezioni i menscevichi furono sbaragliati, avendo ottenuto 0,7 milioni di voti - 1,4 milioni con la Transcaucasia - contro i 9 milioni di voti raccolti dai bolscevichi; si veda il mio articolo: Le elezioni per l'Assemblea costituente e la dittatura del proletariato, nel n. 7-8 dell'Internazionale comunista [8].)

Ma noi conduciamo la lotta contro l'«aristocrazia operaia» in nome della massa operaia e per attrarre questa massa dalla nostra parte; con­duciamo la lotta contro i capi opportunisti e socialsciovinisti per at­trarre dalla nostra parte la classe operaia. Dimenticare questa verità ele-mentarissima ed evidentissima, sarebbe stolto. E una stoltezza simile commettono appunto i comunisti tedeschi «di sinistra», i quali dal carattere reazionario e controrivoluzionario delle alte sfere dei sindacati traggono la conclusione che... bisogna uscire dai sindacati!! rinunciare al lavoro nel loro seno!! creare forme nuove, bellamente escogitate del­l'organizzazione operaia!! È una sciocchezza imperdonabile, e sarebbe il maggior servizio che i comunisti possano rendere alla borghesia. Giacchè i nostri menscevichi, come pure tutti i capi opportunisti, socialscio-vinisti, kautskiani dei sindacati non sono niente altro che «agenti della borghesia nel movimento operaio» (come noi abbiamo sempre detto contro i menscevichi), ossia «commessi della classe capitalista nel campo operaio» (labor lieutenants of the capitalist class), secondo la bellissima espressione, profondamente giusta, dei seguaci di Daniel de Leon in America. Non lavorare in seno ai sindacati reazionari, significa abbandonare le masse operaie arretrate o non abbastanza sviluppate all'influenza dei capi reazionari, degli agenti della borghesia, dell'ari­stocrazia operaia, ossia degli «operai imborghesiti». (Cfr. Engels, let­tera del 1852 a Marx a proposito degli operai inglesi [9].)

Appunto la balorda «teoria» della non partecipazione dei comu­nisti ai sindacati reazionari denota nel modo più chiaro con quanta leg­gerezza questi comunisti «di sinistra» affrontino la questione dell'in­fluenza sulle «masse» e quale abuso facciano nei loro sproloqui della della parola «masse». Per sapere aiutare le «masse» e guadagnarsi la simpatia, l'adesione e l'appoggio delle «masse», non si devono te­mere le difficoltà, gli intrighi, le offese, le persecuzioni da parte dei «capi» (i quali, come opportunisti e socialsciovinisti, nella maggior parte dei casi sono legati direttamente o indirettamente con la borghesia e con la polizia), e lavorare assolutamente là dove sono le masse. Bi­sogna saper sopportare qualsiasi sacrificio, saper superare i maggiori osta­coli per svolgere una propaganda e un'agitazione sistematiche, tenaci, costanti, pazienti, proprio nelle istituzioni, nelle società, nelle leghe - anche nelle più reazionarie - dovunque si trovino delle masse pro­letarie o semiproletarie. E i sindacati e le cooperative operaie (queste ultime almeno talvolta) sono appunto le organizzazioni nelle quali si trovano le masse. In Inghilterra il numero degli iscritti alle trade unions, secondo i dati del giornale svedese Folkets Dagblad Politiken (del 10 marzo 1920), dalla fine del 1917 alla fine del 1918 è salito da 5,5 a 6,6 milioni, cioè è aumentato del 19 per cento. Alla fine del 1919 si calcola a 7 milioni e mezzo. Non ho sottomano i dati corrispon­denti per la Francia e per la Germania, ma i fatti che attestano il grande aumento del numero degli iscritti ai sindacati in questi paesi, sono assolutamente incontestabili e universalmente noti.

Questi fatti dicono in modo lampante ciò che è confermato da mille altri indizi: lo sviluppo della coscienza di classe e la tendenza all'organizzazione soprattutto nelle masse proletarie, negli strati «infe­riori» e negli strati arretrati. Milioni di operai in Inghilterra, in Francia, in Germania, passano per la prima volta dalla disorganizzazione totale alla forma di organizzazione più elementare, più bassa, più semplice, più accessibile (per coloro che sono ancora imbevuti di pregiudizi demo­cratici borghesi), e cioè ai sindacati - e i comunisti di sinistra, rivo­luzionari ma irragionevoli, se ne stanno in disparte e gridano che vo­gliono le masse e rifiutano di lavorare in seno ai sindacati!! Rifiutano con il pretesto del «reazionarismo» dei sindacati!! Escogitano una nuova «Lega operaia», pura, monda di pregiudizi democratici borghesi, senza pecche corporativistiche e grettezze professionali, una «Lega operaia» che, dicono, sarà (sarà!) larga e per entrare nella quale si porrà come condizione soltanto (soltanto!) il «riconoscimento del sistema dei Soviet e della dittatura» (si veda la citazione più sopra)!!

Non è possibile immaginare un'insensatezza maggiore, un maggiore danno per la rivoluzione di quello che cagionano i rivoluzionari «di sinistra»! Se noi oggi, in Russia, dopo due anni mezzo di vittorie senza precedenti sulla borghesia della Russia e dell'Intesa, ponessimo come condizione di ammissione nei sindacati il «riconoscimento della dittatura», faremmo una sciocchezza, comprometteremmo la nostra influenza sulle masse, faremmo il giuoco dei menscevichi. Il compito dei comunisti consiste infatti tutto nel saper convincere i ritardatari, nel saper lavorare fra loro, nel non separarsi da loro con parole d'ordine «di sinistra» cervellotiche e puerili.

Non c'è dubbio che i signori Gompers, Henderson, Jouhaux, Le-gien sono molto riconoscenti a simili rivoluzionari «di sinistra» i quali, come l'opposizione tedesca «di principio» (ci guardi il cielo da tale «attaccamento ai principi»!), o come alcuni rivoluzionari dei «La­voratori industriali del mondo» americani, predicano l'uscita dai sin­dacati reazionari e il rifiuto di lavorare in essi. Non c'è dubbio che i signori «capi» dell'opportunismo ricorreranno a tutti gli stratagemmi della diplomazia borghese, all'ausilio dei governi borghesi, dei preti, della polizia, dei tribunali, per impedire ai comunisti di entrare nei sindacati, per scacciarli con tutti i mezzi, per rendere il loro lavoro nelle organizzazioni sindacali quanto più è possibile ingrato, per offen­derli, vessarli e perseguitarli. Bisogna saper reagire a tutto questo, affron­tare tutti i sacrifici e - in caso di bisogno - ricorrere anche ad ogni genere di astuzie, di furberie, di metodi illegali, alle reticenze, all'occul­tamento della verità, pur di introdursi nei sindacati, rimanere in essi, compiervi a tutti i costi un lavoro comunista. Sotto lo zarismo, fino al 1905, noi non avevamo nessuna «possibilità legale», ma quando Zubatov, funzionario della polizia segreta, organizzò riunioni operaie e società operaie ispirate dai cento neri per dar la caccia ai rivoluzionari e per lottare contro di essi, noi mandammo in quelle riunioni e in quelle società dei membri del nostro partito (io ricordo personalmente il com­pagno Babusckin, un eminente operaio di Pietroburgo, fucilato nel 1906 dai generali dello zar), i quali stabilirono il collegamento con la massa e riuscirono a svolgere la loro agitazione e strapparono gli operai all'in­fluenza degli agenti di Zubatov*. Naturalmente nell'Europa occidentale, che è particolarmente impregnata di pregiudizi legalitari, costituzio­nali, democratico-borghesi, radicati in modo particolarmente forte, è più diffìcile far questo. Ma ciò può e deve essere fatto e fatto sistemati­camente.

Il Comitato esecutivo della III Internazionale deve, secondo il mio parere personale, condannare decisamente e proporre al prossimo congresso dell'Internazionale comunista di condannare in generale la politica della non partecipazione ai sindacati reazionari (con una moti­vazione particolareggiata dell'irragionevolezza di questa non partecipa­zione, e dell'estrema sua nocività per la causa della rivoluzione prole­taria), e, in particolare, di condannare la linea di condotta di alcuni membri del Partito comunista olandese, i quali, poco importa se diret­tamente o indirettamente, se pubblicamente o di nascosto, se in tutto o in parte, hanno appoggiato questa falsa politica. La III Internazio­nale deve romperla con la tattica della II Internazionale e non eludere, non smorzare le questioni scottanti, ma sollevarle in tutta la loro asprezza. Tutta la verità è stata detta in faccia agli «indipendenti» (Partito so­cialdemocratico indipendente di Germania); tutta la verità bisogna dire in faccia ai comunisti «di sinistra».


VII
Partecipare ai parlamenti borghesi?


I comunisti tedeschi «di sinistra», con il massimo disprezzo e con la massima leggerezza, rispondono negativamente a questa domanda. I loro argomenti? Nella citazione riportata più sopra abbiamo letto:


«Bisogna rifiutare assolutamente qualsiasi ritorno alle forme di lotta del parlamentarismo, che sono storicamente e politicamente su­perate...».


Ciò è detto in tono presuntuoso fino al ridicolo ed è manifesta­mente falso. «Ritorno» al parlamentarismo! Forse esiste già in Ger­mania la repubblica dei Soviet? Non sembra! Come dunque si può parlare di un «ritorno»? Non è questa una frase vuota?

Il parlamentarismo è «storicamente superato». Ciò è esatto dal lato della propaganda. Ma ognuno sa che di qui a un superamento pra­tico c'è ancora molta distanza. Molti decenni fa con piena ragione si poteva già dire che il capitalismo era «storicamente superato», ma ciò non elimina affatto la necessità di una lotta molto lunga e molto tenace sul terreno del capitalismo. Il parlamentarismo è «storicamente supe­rato» nel senso della storia mondiale, cioè è finita l'epoca del parlamen­tarismo borghese, ed è cominciata l'epoca della dittatura del proleta­riato. Questo è incontestabile. Ma su scala storica mondiale l'unità di misura sono i decenni. Dieci o venti anni prima, dieci o venti anni dopo, su scala storica mondiale, non conta; è un'inezia di cui non si può tener conto nemmeno in modo approssimativo. Ma appunto perciò è un gravissimo errore teorico valersi della scala storica mondiale nei problemi della politica pratica.

Il parlamentarismo è «politicamente superato»? Questa è un'altra questione. Se fosse così, la posizione dei «sinistri» sarebbe salda. Ma ciò deve essere dimostrato per mezzo di un'analisi accuratissima, e i «sinistri» non sanno nemmeno da che parte incominciare. Anche nelle Tesi sul parlamentarismo che sono state pubblicate nel n. 1 del Bollet­tino dell'Ufficio provvisorio di Amsterdam dell'Internazionale comunista (Bulletin of the Provisional Bureau in Amsterdam of the Communist International, February, 1920) e che evidentemente esprimono le idee della corrente olandese di sinistra, o della sinistra olandese, l'analisi, come vedremo, non vale un bel niente.

Anzitutto, i tedeschi della «sinistra», come è noto, fin dal gen­naio 1919, ritenevano il parlamentarismo «politicamente superato», nonostante l'opinione di capi politici eminenti come Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht. È noto che i «sinistri» hanno sbagliato. Basta que­sto per colpire alle radici la tesi secondo la quale il parlamentarismo sarebbe «politicamente superato». I «sinistri» hanno l'obbligo di di­mostrare perché mai il loro incontestabile errore di allora abbia cessato oggi di essere un errore. Essi non portano e non possono portare nep­pure l'ombra di una prova. L'atteggiamento di un partito politico verso i suoi errori è uno dei criteri più importanti e più sicuri per giudicare se esso è un partito serio, se adempie di fatto i suoi doveri verso la propria classe e verso le masse lavoratrici. Riconoscere apertamente un errore, scoprirne le cause, analizzare la situazione che lo ha generato, studiare attentamente i mezzi per correggerlo: questo è indizio della serietà di un partito; questo si chiama fare il proprio dovere, educare ed istruire la classe e, quindi, le masse. Quando i «sinistri» in Germania (e in Olanda) non compiono questo loro dovere, quando non procedono con estrema attenzione, diligenza, prudenza allo studio dei loro errori evidenti, essi dimostrano, precisamente con ciò, di non essere il partito della classe, ma un circolo; non il partito delle masse, ma un gruppo di intellettuali e di operai poco numerosi che imitano i peggiori aspetti dell'intellettualismo.

In secondo luogo, nello stesso opuscolo del gruppo dei «sinistri» di Francoforte, dal quale abbiamo tolto le precedenti citazioni, leggiamo:


...Milioni di operai che seguono la politica del centro [cioè del partito cattolico del «centro»] sono controrivoluzionari: i proletari rurali forni­scono le legioni delle truppe controrivoluzionarie (p. 3 dell'opuscolo sopra citato).


Si vede da ogni frase che ciò è detto in modo troppo enfatico ed esagerato. Ma il fatto fondamentale qui esposto è incontestabile e, rico­noscendolo, i «sinistri» danno una prova particolarmente evidente del loro errore. Come dunque si può dire che «il parlamentarismo è poli­ticamente superato», se «milioni» e «legioni» di proletari non sol­tanto sono per il parlamentarismo in genere, ma sono addirittura «con­trorivoluzionari»! ? È chiaro che in Germania il parlamentarismo non è ancora politicamente superato. È chiaro che i «sinistri» in Germania hanno scambiato il loro desiderio, la loro posizione ideologica e poli­tica, per una realtà obiettiva. Questo è l'errore più pericoloso per dei rivoluzionari. In Russia, dove il giogo oltremodo barbaro e feroce dello zarismo ha prodotto per un periodo particolarmente lungo, e nelle for­me più svariate, dei rivoluzionari di diverse tendenze, dei rivoluzionari ammirevoli per abnegazione, entusiasmo, eroismo, forza di volontà, in Russia abbiamo osservato molto da vicino questo errore dei rivoluzio­nari, lo abbiamo studiato con particolare attenzione, lo conosciamo molto bene, e quindi esso è per noi particolarmente visibile anche negli altri. Per i comunisti, in Germania, il parlamentarismo, s'intende, è «politicamente superato»; ma si tratta precisamente di non ritenere ciò che è superato per noi, come superato per la classe, per le masse. E ap­punto qui vediamo di nuovo che i «sinistri» non sanno ragionare, non sanno comportarsi come partito della classe, come partito delle masse. Voi siete in dovere di non scendere al livello delle masse, al livello degli strati arretrati della classe. Questo è incontestabile. Voi avete il dovere di dir loro l'amara verità. Voi avete il dovere di chiamare pregiudizi i loro pregiudizi democratici borghesi e parlamentari. Ma nello stesso tempo avete il dovere di considerare ponderatamente lo stato effettivo della coscienza e della maturità della classe tutta intiera (e non soltanto della sua avanguardia comunista), di tutte quante le masse lavoratrici (e non soltanto dei suoi uomini avanzati).

Anche se non «milioni» e «legioni», ma semplicemente una mi­noranza abbastanza importante degli operai industriali segue i preti cattolici, e una maggioranza importante degli operai della campagna se­gue i proprietari terrieri e i contadini ricchi (Grossbauern), ne con­segue già in modo indubitabile che il parlamentarismo in Germania non è ancora superato politicamente, che la partecipazione alle elezioni parlamentari e alla lotta dalla tribuna parlamentare è obbligatoria per il partito del proletariato rivoluzionario, precisamente al fine di educare gli strati arretrati della propria classe; precisamente al fine di risve­gliare e di illuminare le masse rurali, non evolute, oppresse, ignoranti. Finché voi non siete in grado di sciogliere il parlamento borghese e tutte le altre istituzioni reazionarie d'altro tipo, voi avete l'obbligo di lavorare nel seno di tali istituzioni appunto perché là vi sono ancora degli operai ingannati dai preti e dall'ambiente dei piccoli centri sper­duti; altrimenti rischiate di essere soltanto dei chiacchieroni.

In terzo luogo, i comunisti «di sinistra» dicono un gran bene di noialtri bolscevichi. Talvolta vien voglia di dire: lodateci di meno, pe­netrate di più la tattica dei bolscevichi, studiatela di più! Noi abbiamo partecipato alle elezioni del parlamento borghese della Russia, dell'As­semblea costituente nel settembre-novembre 1917. È stata giusta o non è stata giusta la nostra tattica? Se non è stata giusta, bisogna dirlo chiaramente e bisogna provarlo; ciò è necessario affinché il comunismo internazionale elabori una tattica giusta. Se è stata giusta, bisogna trarne certe conclusioni. S'intende che non si può neanche parlare di un parago­ne tra le condizioni della Russia e quelle dell'Europa occidentale. Ma nella questione specifica del significato dell'espressione «il parlamentarismo è politicamente superato», è necessario tenere esatto conto della nostra esperienza, perché concetti come questi si trasformano troppo facilmente in frasi vuote se non si tien conto delle esperienze concrete. Non ave­vamo noi, bolscevichi russi, nel settembre-novembre 1917, più di tutti i comunisti d'occidente, il diritto di ritenere il parlamentarismo poli­ticamente superato in Russia? Naturalmente l'avevamo, poiché ciò che conta non è se i parlamenti borghesi esistono da poco o da molto tempo, ma se e fino a qual punto le grandi masse lavoratrici sono pronte, ideo­logicamente, politicamente, praticamente, ad accettare il regime dei Soviet e a sciogliere con la forza il parlamento democratico borghese (o a tollerarne lo scioglimento). Che in Russia, nel settembre-novem­bre 1917, la classe operaia delle città, i soldati e i contadini, in seguito a una serie di condizioni speciali, fossero straordinariamente preparati ad accogliere il regime sovietico e a sciogliere il più democratico dei parlamenti borghesi, è un fatto storico assolutamente incontestabile e pienamente accertato. E tuttavia, i bolscevichi non hanno boicottato l'Assemblea costituente, ma hanno partecipato alle elezioni e prima e dopo la conquista del potere politico da parte del proletariato. Che queste elezioni abbiano dato risultati politici quanto mai preziosi (e di grande utilità per il proletariato), è un fatto che io oso sperare aver dimostrato nell'articolo succitato, analizzando particolareggiatamente i dati sulle elezioni all'Assemblea costituente in Russia.

Da ciò sgorga una conclusione assolutamente incontestabile: è dimo­strato che persino alcune settimane prima della vittoria della Repubblica dei Soviet, e persino dopo questa vittoria, la partecipazione a un parla­mento democratico borghese, non solo non nuoce al proletariato rivo­luzionario, ma gli rende più facile dimostrare alle masse arretrate per­ché tali parlamenti meritano di essere sciolti, facilita la riuscita del loro scioglimento, facilita il «superamento politico» del parlamentarismo borghese. Non tener conto di questa esperienza e pretendere al tempo stesso di appartenere all'Internazionale comunista, la quale deve elabo­rare su scala internazionale la propria tattica (non come tattica stret­tamente e unilateralmente nazionale, ma appunto come tattica interna­zionale), significa commettere un gravissimo errore e precisamente ne­gare di fatto l'internazionalismo, pur riconoscendolo a parole.

Consideriamo ora gli argomenti degli «olandesi di sinistra» in favore della non partecipazione al parlamento. Citiamo la traduzione (dall'inglese) della più importante tra le sovrammenzionate tesi «olan­desi», la quarta tesi:


Quando il sistema capitalistico di produzione è sconquassato e la società si trova in stato di rivoluzione, l'attività parlamentare perde gradatamente di importanza di fronte alle azioni delle masse stesse. Quando, in tali cir­costanze, il parlamento diventa organo e centro della controrivoluzione e, d'altra parte, la classe operaia forgia lo strumento del suo potere in forma di Soviet, può anche diventare necessario rifiutare ogni e qualsiasi parte­cipazione all'attività parlamentare.


La prima proposizione è manifestamente falsa, perché l'azione delle masse - come per esempio un grande sciopero - è sempre e non sol­tanto durante la rivoluzione o in una situazione rivoluzionaria, più im­portante dell'attività parlamentare. Questo argomento, evidentemente privo di consistenza, falso storicamente e politicamente, dimostra soltanto, con particolare chiarezza, che i suoi autori non tengono in nes­sun conto l'esperienza di tutta l'Europa (quella francese negli anni pre­cedenti le rivoluzioni del 1848 e del 1870, quella tedesca negli anni 1878-90, ecc.) né l'esperienza russa (si veda sopra) relativamente all'im­portanza della combinazione della lotta legale con la lotta illegale. Que­sto problema ha un'immensa importanza sia generale che speciale, giac­ché in tutti i paesi civili e progrediti si avvicina rapidamente il tempo in cui tale combinazione diverrà, - e in parte è già divenuta - sempre più impegnativa per il partito del proletariato rivoluzionario, in seguito al maturare e all'avvicinarsi della guerra civile del proletariato contro la borghesia, in seguito alle furiose persecuzioni contro i comunisti da parte dei governi repubblicani e in genere dei governi borghesi, i quali violano la legalità in tutti i modi (l'esempio dell'America vale per tutti), ecc. Questa importantissima questione non è affatto compresa dagli olandesi e dai «sinistri» in genere.

La seconda proposizione è, anzitutto, storicamente falsa. Noi bol­scevichi abbiamo partecipato ai parlamenti più controrivoluzionari, e l'esperienza ha dimostrato che questa partecipazione è stata non soltanto utile ma anche necessaria al partito del proletariato rivoluzionario, ap­punto dopo la prima rivoluzione borghese in Russia (1905), per la preparazione della seconda rivoluzione borghese (febbraio 1917), e poi della rivoluzione socialista (ottobre 1917). In secondo luogo, questa frase è stupefacentemente illogica. Dalla premessa che il parlamento diventa organo e «centro» della controrivoluzione (in realtà, esso non fu mai e non può essere il «centro», ma andiamo avanti), e che gli operai creano lo strumento del loro potere in forma di Soviet, consegue che gli operai devono prepararsi - prepararsi ideologicamente, politi­camente e tecnicamente - alla lotta dei Soviet contro il parlamento, allo scioglimento del parlamento per opera dei Soviet. Ma da ciò non deriva affatto che tale scioglimento venga reso più difficile oppure non venga facilitato dalla esistenza di una opposizione sovietica in seno al parlamento controrivoluzio­nario. Durante la nostra lotta vittoriosa con­tro Denikin e Kolciak, non abbiamo mai notato che l'esistenza di un'op­posizione sovietica, proletaria, nei territori da loro occupati, fosse inu­tile per la nostra vittoria. Sappiamo benissimo che lo scioglimento del­l'Assemblea costituente da noi operato il 5 gennaio 1918 non venne reso più difficile, ma anzi facilitato dal fatto che in seno a quella Co­stituente controrivoluzionaria esisteva un'opposizione sovietica conse­guente, quella dei bolscevichi, e un'opposizione sovietica inconseguente, quella dei socialisti-rivoluzionari di sinistra. Gli autori delle tesi hanno perduto la bussola, e hanno dimenticato l'esperienza di parecchie, se non di tutte le rivoluzioni, la quale attesta che è particolarmente utile com­binare, in tempo di rivoluzione, l'azione delle masse fuori del parla­mento reazionario e l'opposizione simpatizzante con la rivoluzione (o meglio ancora, l'opposizione che appoggia direttamente la rivoluzione) in seno a questo parlamento. Gli olandesi e i «sinistri» in generale ragionano qui come dei dottrinari della rivoluzione che non abbiano mai partecipato a una vera rivoluzione, non abbiano mai meditato sulla storia delle rivoluzioni, o scambino ingenuamente la «nega­zione» soggettiva di una determinata istituzione reazionaria con la reale distruzione di quella per opera delle forze congiunte di tutto un complesso di fattori obiettivi. Il mezzo più sicuro per discreditare una nuova idea politica (e non soltanto politica) e per sabotarla, con­siste nello spingerla fino all'assurdo col pretesto di difenderla. Perché tutte le verità, se spinte «all'eccesso» (come diceva Dietzgen pa­dre), se esagerate, se estese oltre i limiti della loro effettiva applica­bilità, possono essere portate all'assurdo, anzi, in tali condizioni, diven­tano inevitabilmente assurde. I «sinistri» olandesi e tedeschi rendono appunto questo cattivo servizio alla nuova verità e alla superiorità del potere sovietico sui parlamenti democratici borghesi. Si intende che avrebbe torto chi dicesse alla vecchia maniera e generica­mente che ri­nunciare alla partecipazione ai parlamenti borghesi è inammissibile in qualsiasi circostanza. Io non posso tentare di formulare qui le circo­stanze in cui il boicottaggio sarebbe utile, perché il compito di questo scritto è molto modesto: tener conto della esperienza russa in relazione con alcuni scottanti problemi attuali della tattica internazionale comu­nista. L'esperienza russa ci ha offerto un'applicazione giusta e ben riu­scita (1905) e un'applicazione errata (nel 1906) del boicottaggio da parte dei bolscevichi. Se analizziamo il primo caso, vediamo che si riuscì a non permettere la convocazione, per opera di un potere reazionario, di un parlamento reazionario, e ciò in una situazione nella quale l'azio­ne rivoluzionaria extraparlamentare delle masse (specialmente gli scio­peri) maturava con straordinaria rapidità, nella quale nessuno strato del proletariato e dei contadini poteva dare un appoggio al potere rea­zionario, nella quale il proletariato rivoluzionario assicurava la propria influenza sulle grandi masse arretrate grazie agli scioperi e al movimen­to agrario. È ben chiaro che questa esperienza non è applicabile alle condizioni odierne dell'Europa. È inoltre ben chiaro, sulla base degli argomenti esposti sopra, che difendere, sia pure sotto condizione come fanno gli olandesi e i «sinistri», il rifiuto di partecipare al parlamento, è cosa fondamentalmente sbagliata e dannosa alla causa del proletariato rivoluzionario.

Nell'Europa occidentale e in America il parlamento è diventato particolarmente odioso ai rivoluzionari avanzati della classe operaia. Questo è incontestabile. Ed è ben comprensibile, poiché è difficile immaginare cosa più ignobile, vile, perfida del contegno della schiac­ciante maggioranza dei deputati socialisti e socialdemocratici nel par­lamento durante e dopo la guerra. Tuttavia sarebbe non tanto irragio­nevole, ma addirittura criminale cedere a un simile sentimento nel deci­dere come si deve lottare contro questo male riconosciuto da tutti. In molti paesi dell'Europa occidentale, lo spirito rivoluzionario è oggi, si può dire, una «novità» o una «rarità» aspettata troppo a lungo, in­vano e con impazienza, ed è forse per questo motivo che si cede così facilmente al sentimento. Certo, senza uno spirito rivoluzionario nelle masse, senza le condizioni che favoriscono lo sviluppo di tale spirito, la tattica rivoluzionaria non può trasformarsi in azione; ma in Russia un'esperienza troppo lunga, difficile, sanguinosa, ci ha convinti di questa verità, che la tattica rivoluzionaria non può essere fondata unicamente sullo spirito rivoluzionario. La tattica deve esser fondata sul calcolo ponderato e rigorosamente obiettivo di tutte le forze di classe dello Stato in questione (e degli Stati che lo circondano, e di tutti gli Stati, su scala mondiale), come pure sulla valutazione dell'esperienza dei mo­vimenti rivoluzionari. Manifestare il proprio «spirito rivoluzionario» unicamente vituperando l'opportunismo parlamentare, unicamente re­spingendo la partecipazione al parlamento, è molto facile; ma appunto perché è troppo facile, non è una soluzione del difficile e difficilissimo compito. Creare un gruppo parlamentare effettivamente rivoluzionario nei parlamenti europei è molto più difficile che in Russia. È ovvio. Ma questa è soltanto una manifestazione parziale di quella verità generale per cui in Russia, nella situazione concreta e storicamente originalissima del 1917, fu facile iniziare la rivoluzione socialista, mentre continuarla e condurla a termine sarà per la Russia più difficile che per i paesi europei. Già al principio del 1918 avevo avuto occasione di rilevare questa circostanza, e la successiva esperienza di due anni ha pienamente confermato l'esattezza di questa considerazione. Condizioni specifiche come: 1. la possibilità di legare la rivoluzione sovietica con la fine (grazie alla rivoluzione stessa) della guerra imperialista che infliggeva indescrivibili sofferenze agli operai e ai contadini; 2. la possibilità di sfruttare, per un certo tempo, la lotta mortale fra due gruppi di pre­doni imperialisti di potenza mondiale, i quali non potevano unirsi con­tro il nemico sovietico; 3. la possibilità di sostenere una guerra civile relativamente lunga, in parte grazie all'enorme estensione del paese e agli scarsi mezzi di comunicazione; 4. l'esistenza fra i contadini di un movimento rivoluzionario democratico borghese così profondo, che il partito del proletariato potè far proprie le rivendicazioni rivoluzionarie del partito dei contadini (il partito socialista-rivoluzionario nettamente ostile, in maggioranza, al bolscevismo) e attuarle immediatamente grazie alla conquista del potere politico da parte del proletariato; tali condi­zioni specifiche non esistono ora nell'Europa occidentale, né è troppo facile che esse, o altre simili, si presentino un'altra volta. Ecco perché fra l'altro, e prescindendo da una serie di altre cause, iniziare la rivo­luzione socialista è più difficile per l'Europa occidentale di quanto non fu per noi. Tentare di «aggirare» tale difficoltà «saltando» il duro compito dell'utilizzazione dei parlamenti reazionari a scopi rivoluzio­nari è semplicemente puerile. Voi volete creare una nuova società? E avete paura delle difficoltà che presenta la creazione di un buon gruppo parlamentare in un parlamento reazionario, di un gruppo composto di comunisti convinti, devoti, eroici! Non è puerile? Se Karl Liebknecht in Germania e Z. Hoglund in Svezia seppero dare, anche senza avere dal basso l'appoggio delle masse, l'esempio di una utilizzazione vera­mente rivoluzionaria di parlamenti reazionari, perché mai un partito rivoluzionario di massa in rapido sviluppo, tra la delusione e l'esaspera­zione postbellica delle masse, non sarebbe in grado di forgiarsi un gruppo comunista nei peggiori parlamenti?! Appunto perché nell'Eu­ropa occidentale le masse arretrate dei lavoratori, e ancor più le masse dei piccoli contadini, sono molto più fortemente che in Russia imbe­vute di pregiudizi democratici borghesi e parlamentari, appunto per questo, soltanto dall'interno di istituzioni come i parlamenti borghesi i comunisti possono (e devono) condurre una lotta lunga, tenace, che non si arresti davanti a nessuna difficoltà per smascherare, disperdere, superare tali pregiudizi.

I «sinistri» tedeschi si lagnano dei cattivi «capi» del loro par­tito, si danno alla disperazione e giungono alla ridicola «negazione» dei «capi». Ma in circostanze nelle quali bisogna di frequente nascon­dere i «capi» nell'illegalità, la formazione di «capi» buoni, fidati, provati, autorevoli è cosa particolarmente difficile, e non è possibile superare con buon esito queste difficoltà senza combinare il lavoro legale con il lavoro illegale, senza provare i «capi», tra l'altro, anche nell'agone parlamentare. La critica - la più aspra, spietata, implacabile delle critiche - non dev'esser diretta contro il parlamentarismo o con­tro l'attività parlamentare, ma contro quei capi che non sanno - e ancor più contro quelli che non vogliono - sfruttare in modo rivoluzionario, comunista, le elezioni parlamentari e la tribuna del parlamento. Soltanto una critica simile, che naturalmente deve andar congiunta con l'espulsione dei capi inetti e con la loro sostituzione con capi idonei, sarà un lavoro rivoluzionario utile e fecondo, che in pari tempo educherà i «capi» ad essere degni della classe operaia e delle masse lavoratrici, e le masse a imparare a ben orientarsi nella situazione politica e a comprendere i compiti spesso assai complicati e intricati che da questa situazione scaturiscono [11].


VIII
«Nessun compromesso»?


Nella citazione tolta dall'opuscolo di Francoforte abbiamo visto con quale risolutezza i «sinistri» avanzano questa parola d'ordine. È triste vedere come degli uomini, i quali indubbiamente si considerano marxisti e vogliono essere marxisti, abbiano dimenticato le verità fon­damentali del marxismo. Ecco che cosa scriveva, nel 1874, contro il manifesto dei 33 comunardi blanquisti, Engels, il quale appartiene come Marx a quei rari e rarissimi scrittori nei quali ogni frase di ognuna delle opere maggiori ha un contenuto di ammirevole profondità:


...«Noi siamo comunisti (hanno scritto i comunardi blanquisti nel loro manifesto) perché vogliamo raggiungere il nostro scopo senza fermarci nelle stazioni intermedie, senza addivenire a compromessi, i quali altro non fanno che allontanare il giorno della vittoria e prolungare il periodo della schia­vitù».
I comunisti tedeschi sono comunisti perché attraverso tutte le stazioni intermedie e tutti i compromessi, che non sono stati creati da loro, ma dal corso dello sviluppo storico, vedono chiaramente e perseguono costantemente lo scopo finale: l'abolizione delle classi e la creazione di un ordine sociale in cui non ci sia più posto per la proprietà privata della terra e di tutti i mezzi di produzione. I 33 blanquisti sono comunisti, perché immaginano che, dal momento che essi vogliono saltare le stazioni intermedie e i compro­messi, la cosa sia bell'e fatta, e che se (come essi credono fermamente) l'affare «incomincerà» a giorni e il potere verrà a trovarsi nelle loro mani, il giorno dopo «sarà instaurato il comunismo». In conseguenza, se la cosa non si può far subito, essi non sono comunisti.
Quale puerile ingenuità portare come argomento teorico la propria im­pazienza! (Friedrich Engels: Il programma dei comunardi blanquisti, dal giornale socialdemocratico tedesco Der Volksstaat, 1874, n. 73, nella raccolta Articoli del 1871-1875, Pietrogrado, 1919, pp. 52-53, trad. russa.)


Engels esprime in questo stesso articolo la sua profonda stima per Vaillant e parla dell'«incontestabile merito» di Vaillant (che fu, come Guesde, un capo eminentissimo del socialismo internazionale fino a quando entrambi non tradirono il socialismo nell'agosto 1914). Ma Engels non lascia passare senza un'analisi minuziosa un errore evidente. Naturalmente a rivoluzionari molto giovani e inesperti, come pure a rivo­luzionari piccolo-borghesi, anche se di età veneranda e molto esperti, sem­bra straordinariamente «pericoloso», incomprensibile, sbagliato «per­mettere i compromessi». E molti sofisti (che sono politicanti «super-esperti» o troppo «esperti») ragionano proprio come i capi inglesi del­l'opportunismo ricordati dal compagno Lansbury: «Se ai bolscevichi si permette questo compromesso, perché non si permette a noi qualsiasi compromesso?». Ma i proletari che si sono educati attraverso ripetuti scioperi (per prendere questa sola manifestazione della lotta di classe), assimilano di solito mirabilmente la profondissima verità (filosofica, sto­rica, politica, psicologica) esposta da Engels. Ogni proletario ha parte­cipato a qualche sciopero, ha sperimentato qualche «compromesso» con gli odiati oppressori e sfruttatori quando gli operai dovevano ri­prendere il lavoro o senza aver ottenuto nulla o accettando un par­ziale soddisfacimento delle loro rivendicazioni. Ogni proletario, grazie alla situazione della lotta delle masse e al forte inasprimento dei con­trasti di classe in cui egli vive, osserva la differenza fra il compromesso imposto dalle condizioni obiettive (la cassa degli scioperanti è povera, essi non ricevono aiuti, hanno sofferto la fame e sono estenuati fino all'impossibile), cioè fra il compromesso che non pregiudica affatto, negli operai che lo concludono, la devozione rivoluzionaria e la volontà di continuare la lotta, e il compromesso dei traditori, che scaricano sulle cause obiettive il loro panciafichismo (anche i crumiri concludono dei «compromessi»!), la loro vigliaccheria, il loro desiderio di ingraziarsi i capitalisti, la loro arrendevolezza di fronte alle intimidazioni, talvolta di fronte alle lusinghe, talvolta di fronte alle elemosine e talvolta di fronte all'adulazione dei capitalisti. (Tali compromessi di traditori sono particolarmente numerosi nella storia del movimento operaio inglese, ad opera dei capi delle trade unions inglesi, ma quasi tutti gli operai hanno osservato in tutti i paesi, in una forma o nell'altra, fenomeni analoghi.)

S'intende che ci sono casi singoli, straordinariamente difficili e intricati, nei quali soltanto con grandissimi sforzi si riesce a determi­nare giustamente il carattere reale di questo o di quel «compromesso», come ci sono casi di omicidio nei quali non è facile decidere se si tratti di un omicidio giustificato o magari necessario (ad esempio per le­gittima difesa), o di una imperdonabile negligenza, o magari di un piano astuto sottilmente messo in opera. S'intende che in politica, dove si tratta talvolta di rapporti reciproci estremamente compli­cati - nazionali e internazionali - tra classi e partiti, ci saranno molti casi di gran lunga più difficili del «compromesso» legittimo in caso di sciopero o del «compromesso» proditorio del crumiro, del capo traditore, ecc. Fabbricare una ricetta o una regola generale («nessun com­promesso»!) che serva per tutti i casi, è una scempiaggine. Bisogna che ognuno abbia la testa sulle spalle, per sapersi orientare in ogni singolo caso. L'importanza dell'organizzazione di partito e dei capi di partito, che meritano questo appellativo, consiste per l'appunto, tra l'altro, nell'ela­borare - mediante un lavoro lungo, tenace, vario, multiforme di tutti i rappresentanti pensanti di una data classe [12] - le cognizioni necessarie, la necessaria esperienza e, oltre le cognizioni e l'esperienza, il fiuto poli­tico necessario per risolvere rapidamente e giustamente le questioni politiche complicate.

Persone ingenue e affatto inesperte immaginano che basti riconosce­re l'ammissibilità dei compromessi in genere per cancellare ogni barriera fra l'opportunismo, contro il quale conduciamo e dobbiamo condurre una lotta implacabile, e il marxismo rivoluzionario o comunismo. Ma tali persone, se ancora non sanno che tutti i limiti, nella natura, come nella società, sono mobili, e fino a un certo punto convenzionali, non possono trarre nessun giovamento, se non da una lunga opera di istru­zione, educazione, studio, esperienza politica ed esperienza della vita. Nelle questioni pratiche della politica che si pongono in ogni singolo momento o in un momento storico specifico, è importante saper discer­nere le questioni nelle quali si manifesta la forma principale di com­promessi inammissibili, proditori, che incarnano l'opportunismo esiziale alla classe rivoluzionaria, e far convergere tutta le forze a smascherarli, a combatterli. Durante la guerra imperialista del 1914-1918 tra due gruppi di paesi ugualmente rapaci e predoni, il socialsciovinismo, cioè l'appoggio alla «difesa della patria», che equivaleva di fatto in quella guerra alla difesa degli interessi briganteschi della «propria» borghe­sia, fu appunto la forma capitale, fondamentale dell'opportunismo. Dopo la guerra, la difesa della rapace «Società delle Nazioni», la difesa delle alleanze dirette o indirette con la borghesia del proprio paese contro il proletariato rivoluzionario e il movimento «sovietico»; la difesa del­la democrazia borghese e del parlamentarismo borghese contro il «potere dei Soviet», furono le più importanti manifestazioni di compromessi inammissibili e proditori, i quali, nel loro complesso, rappresentavano un opportunismo esiziale per il proletariato rivoluzionario e per la sua causa.


...Bisogna respingere nel modo più energico qualsiasi compromesso con altri partiti... ogni politica di destreggiamento e di accordi...


scrivono i «sinistri» tedeschi nell'opuscolo di Francoforte.

C'è da stupirsi che questi «sinistri», con queste opinioni, non pronuncino una recisa condanna del bolscevismo! Non è infatti possi­bile che i «sinistri» tedeschi non sappiano che tutta la storia del bol­scevismo, prima e dopo la rivoluzione di Ottobre, è piena di casi di destreggiamenti, di accordi, di compromessi con altri partiti, compresi i partiti borghesi!

Condurre la guerra per il rovesciamento della borghesia interna­zionale, guerra cento volte più difficile, più lunga e più complicata della più accanita delle guerre abituali fra gli Stati, e rinunziare in anticipo a destreggiarsi, a sfruttare i contrasti di interessi (sia pure temporanei) tra i propri nemici, rinunziare agli accordi e ai compromessi con even­tuali alleati (sia pure temporanei, poco sicuri, esitanti, condizionati), non è cosa infinitamente ridicola? Non è come se nell'ardua scalata di un monte ancora inesplorato e inaccessibile, si rinunciasse preventivamente a far talora degli zigzag, a ritornare qualche volta sui propri passi, a lasciare la direzione presa all'inizio per tentare direzioni diverse? E al­cuni membri del Partito comunista olandese hanno potuto appoggiare - poco importa se direttamente o indirettamente, se apertamente o di nascosto, in tutto o in parte - degli uomini così poco coscienti e a tal segno inesperti!! (E meno male se ciò si spiega con la loro gio­ventù: ai giovani Dio stesso comanda che, per un certo tempo, dicano simili sciocchezze!)

Dopo la prima rivoluzione socialista del proletariato, dopo l'ab­battimento della borghesia in un paese, il proletariato di questo paese resta per molto tempo più debole della borghesia, anche semplice­mente a causa dei formidabili legami internazionali della borghesia, e inoltre a causa della spontanea e continua ricostituzione e rinascita del capitalismo e della borghesia ad opera dei piccoli produttori di merci nel paese stesso che ha abbattuto il dominio borghese. Si può vincere un nemico più potente soltanto con la massima tensione delle forze e alla condizione necessaria dell'utilizzazione più diligente, accu­rata, attenta, abile di ogni benché minima «incrinatura» tra i nemici, di ogni contrasto di interessi tra la borghesia dei diversi paesi, tra i vari gruppi e le varie specie di borghesia nell'interno di ogni singolo paese, e anche di ogni minima possibilità di guadagnarsi un alleato numerica­mente forte, sia pure temporaneo, incerto, incostante, infido, non in­condizionato. Chi non ha capito questo, non ha capito un'acca né del marxismo, né del moderno socialismo scientifico in generale. Chi non ha praticamente dimostrato, durante un periodo di tempo abbastanza lungo e in situazioni politiche abbastanza varie, di essere capace di applicare nel­la pratica questa verità, non ha ancora imparato ad aiutare la classe rivo­luzionaria nella sua lotta per liberare tutta l'umanità lavoratrice dagli sfruttatori. E ciò che si è detto si riferisce egualmente al periodo ante­riore e al periodo successivo alla conquista del potere politico da parte del proletariato.

La nostra teoria non è un dogma, ma una guida per l'azione, dice­vano Marx e Engels, e il massimo errore e il massimo delitto dei mar­xisti «patentati» come Karl Kautsky, Otto Bauer, ecc., è di non aver compreso, di non aver saputo applicare questo nei più importanti mo­menti della rivoluzione del proletariato. «L'attività politica non è il mar­ciapiede della Prospettiva della Neva» (il marciapiede pulito, largo, piano della via principale di Pietroburgo, assolutamente rettilinea), aveva già detto N. G. Cernyscevski, il grande socialista russo del periodo pre­marxista. I rivoluzionari russi, fin dal tempo di Cernyscevski, hanno scontato con innumerevoli sacrifici l'aver ignorato o dimenticato questa verità. Bisogna ottenere ad ogni costo che i comunisti di sinistra e i rivoluzionari dell'Europa occidentale e dell'America devoti alla classe ope­raia, non abbiano da pagare tanto cara l'assimilazione di questa verità quanto gli abitanti della Russia arretrata.

I socialdemocratici rivoluzionari russi, fino alla caduta dello zarismo, hanno ripetutamente utilizzato i servizi dei liberali borghesi, cioè hanno concluso con i liberali un gran numero di compromessi pratici: e nel 1901-1902, ancor prima del sorgere del bolscevismo, la vecchia direzione dell'Iskra (della quale facevano parte Plekhanov, Axelrod, Zasulic, Martov, Potresov ed io) concluse (non per molto tempo, è vero) una formale alleanza politica con Struve, capo politico del libe­ralismo borghese, pur sapendo condurre in pari tempo, senza interru­zione, la lotta ideologica politica più spietata contro il liberalismo bor­ghese e contro le minime manifestazioni della sua influenza in seno al movimento operaio. I bolscevichi hanno sempre continuato quella poli­tica. Dal 1905 in poi hanno propugnato sistematicamente l'alleanza della classe operaia con i contadini, contro la borghesia liberale e lo zarismo, senza mai rinunciare tuttavia ad appoggiare la borghesia contro lo zarismo (per esempio nelle elezioni di secondo grado e nei ballottaggi) e senza cessare la lotta ideologica e politica più intransigente contro il partito contadino rivoluzionario borghese, i «socialisti-rivoluzionari», smascherandoli come democratici piccolo-borghesi che si annoveravano falsamente tra i socialisti. Nel 1907, i bolscevichi conclusero, per breve tempo, un blocco politico formale con i «socialisti-rivoluzionari» per le elezioni alla Duma. Con i menscevichi, nel periodo dal 1903 al 1912, fummo formalmente uniti per alcuni anni in un unico partito so­cialdemocratico, senza mai cessare la lotta ideologica e politica contro di essi, come veicoli dell'influenza borghese nel proletariato e come opportunisti. Durante la guerra, concludemmo una specie di com­promesso con i «kautskiani», con i menscevichi di sinistra (Martov) e con una parte di «socialisti-rivoluzionari» (Cernov, Nathanson), sedendo insieme con essi a Zimmerwald e a Kienthal e pubblicando manifesti comuni, ma senza interrompere né indebolire mai la lotta ideo­logica e politica contro i «kautskiani», contro Martov e Cernov (Na­thanson mori nel 1919 quando era «comunista-rivoluzionario» popu­lista vicinissimo a noi, quasi solidale con noi). Al momento stesso della rivoluzione di Ottobre concludemmo con i contadini piccolo-borghesi un blocco politico non formale, ma assai importante (e fruttuosissimo), accettando integralmente, senza nessun mutamento, il programma agrario socialista-rivoluzionario; ossia accedemmo indubbiamente a un compro­messo per dimostrare ai contadini che non volevamo imporre loro un nostro diritto di primogenitura, ma che volevamo intenderci con loro. In pari tempo, proponemmo (e poco tempo dopo realizzammo) un bloc­co politico formale - che implicava la partecipazione al governo - ai «socialisti-rivoluzionari di sinistra», i quali, dopo aver concluso con noi la pace di Brest, denunciarono questo blocco; e in seguito, nel luglio 1918, arrivarono fino all'insurrezione armata contro di noi e infine alla lotta armata contro di noi.

È quindi comprensibile che gli attacchi dei «sinistri» tedeschi contro il Comitato centrale del Partito comunista di Germania, per aver esso accettato l'idea di un blocco con gli «indipendenti» (Partito socialdemocratico indipendente della Germania, kautskiani), non ci sembrino affatto seri e ci sembrino una dimostrazione evidente dell'er­rore dei «sinistri». Anche da noi, in Russia, c'erano dei menscevichi di destra (che facevano parte del governo di Kerenski) corrispondenti agli Scheidemann tedeschi, e dei menscevichi di sinistra (Martov), in opposizione ai menscevichi di destra, e corrispondenti ai kautskiani te­deschi. Nell'anno 1917 abbiamo notato chiaramente il graduale passaggio delle masse operaie dai menscevichi ai bolscevichi: al primo Congresso dei Soviet di tutta la Russia, nel giugno 1917, avevamo in tutto il 13 per cento dei voti. I socialisti-rivoluzionari e i menscevichi avevano la maggioranza. Al II Congresso dei Soviet (25.X.1917, vecchio calendario) avevamo il 51 per cento dei voti. Perché in Germania lo stesso sposta­mento degli operai, del tutto analogo, da destra a sinistra, non ha con­dotto al rafforzamento immediato dei comunisti ma, dapprima, al raffor­zamento del partito intermedio degli «indipendenti», benché questo partito non avesse nessuna idea politica propria, né una politica indi­pendente, ma oscillasse soltanto fra gli Scheidemann e i comunisti?

È chiaro che una delle cause fu la tattica sbagliata dei comunisti tedeschi, i quali devono riconoscere coraggiosamente e onestamente que­sto errore e imparare a correggerlo. L'errore consistette nel rifiuto di partecipare al parlamento borghese reazionario e ai sindacati reazionari, l'errore consistette in numerose manifestazioni di quella malattia infan­tile «di sinistra» che ora si è manifestata e che perciò potrà essere curata tanto meglio, tanto più rapidamente e con tanto maggior van­taggio per l'organismo.

Il «Partito socialdemocratico indipendente» della Germania è, in sé, evidentemente eterogeneo: accanto ai vecchi capi opportunisti (Kautsky, Hilferding, e, in buona misura, pare anche Crispien, Ledebour e altri), che hanno dimostrato la loro incapacità di comprendere l'im­portanza del potere sovietico e della dittatura del proletariato, la loro incapacità di dirigere la lotta rivoluzionaria del proletariato, si è for­mata in questo partito un'ala sinistra proletaria che cresce con rapidità sorprendente. Centinaia di migliaia di iscritti a questo partito (il quale, credo, conta 750 mila membri) sono proletari che vanno allontanandosi da Scheidemann e si avvicinano rapidamente al comunismo. Già al Congresso degli «indipendenti» tenutosi a Lipsia (1919), quest'ala pro­letaria reclamava l'adesione immediata e incondizionata alla III Inter­nazionale. Aver paura di un «compromesso» con quest'ala del partito è addirittura ridicolo. Al contrario, i comunisti devono assolutamente cercare e trovare una forma adeguata di compromesso con essa, un com­promesso che da una parte faciliti e affretti la necessaria fusione com­pleta con quest'ala, e, dall'altra, non intralci in nessun modo i comu­nisti nella loro lotta ideologica e politica contro l'ala destra opportu­nista degli «indipendenti». Verosimilmente non sarà facile elaborare una forma adatta di compromesso; ma soltanto un ciarlatano potrebbe promettere agli operai e ai comunisti tedeschi una via «facile» per la vittoria.

Il capitalismo non sarebbe capitalismo se il proletariato «puro» non fosse circondato da una folla straordinariamente variopinta di tipi intermedi tra il proletario e il semiproletario (colui che si procura di che vivere solo a metà mediante la vendita della propria forza-lavoro), tra il semiproletario e il piccolo contadino (e il piccolo artigiano, il piccolo padrone in generale), tra il piccolo contadino e il contadino medio, ecc.; e se in seno al proletariato stesso, non vi fossero divi­sioni per regione, per mestiere, talvolta per religione, ecc. E da tutto ciò deriva la necessità, la necessità incondizionata, assoluta per l'avanguardia del proletariato, per la parte cosciente di esso, per il partito comunista, di destreggiarsi, di stringere accordi, compromessi con i diversi gruppi di proletari, con i diversi partiti di operai e di piccoli padroni. Tutto sta nel saper impiegare questa tattica allo scopo di elevare, e non di abbassare il livello generale della coscienza proletaria, dello spirito rivo­luzionario del proletariato, della sua capacità di lottare e di vincere. Bisogna notare fra l'altro che la vittoria dei bolscevichi sui menscevichi richiese, non soltanto prima della rivoluzione dell'ottobre 1917, ma anche dopo di. essa, l'uso di una tattica di destreggiamenti, di accordi, di compromessi, naturalmente tali da facilitare, accelerare, consolidare e rafforzare i bolscevichi a spese dei menscevichi. I democratici piccolo-borghesi (compresi i menscevichi) oscillano inevitabilmente tra la bor­ghesia e il proletariato, tra la democrazia borghese e il regime dei So­viet, tra il riformismo e lo spirito rivoluzionario, tra la simpatia per gli operai e la paura della dittatura proletaria, ecc. La giusta tattica dei comunisti deve consistere nell'utilizzare queste oscillazioni e non nell'ignorarle, e la loro utilizzazione esige che si facciano delle concessioni a quegli elementi che si orientano verso il proletariato nel momento e nella misura in cui si orientano verso di esso, lottando in pari tempo contro gli elementi che si orientano invece verso la borghesia. In seguito all'applicazione di una tattica giusta, il menscevismo, da noi, andò e va tuttora sempre più disgregandosi; vengono isolati i capi ostinata­mente opportunisti e passano nel nostro campo i migliori operai, i mi­gliori elementi della democrazia piccolo-borghese. È questo un processo di lunga durata, e la frettolosa «risoluzione»: «Nessun compromesso, nessun destreggia­mento», può soltanto recar danno al rafforzamento dell'influenza e all'accrescimento delle forze del proletariato rivoluzio­nario.

Da ultimo, un errore incontestabile dei «sinistri» in Germania, è la rigida insistenza con la quale negano ogni riconoscimento della pace di Versailles. Quanto più «solida» e «grave» quanto più «recisa» e inappellabile è la formulazione che viene data di quest'opinione, per esempio, da K. Horner, tanto meno ciò si dimostra intelligente. Non basta rinnegare le madornali assurdità del «bolscevismo nazionale» (Laufenberg e altri), che nell'attuale situazione della rivoluzione pro­letaria internazionale si è spinto fino al blocco con la borghesia tedesca per una guerra contro l'Intesa. Bisogna comprendere che una tattica la quale non ammette la necessità in cui verrebbe a trovarsi la Germania sovietica (se fra breve sorgesse una repubblica sovietica tedesca) di riconoscere, per un certo tempo, la pace di Versailles e sottomettersi ad essa, è radicalmente sbagliata. Da ciò non consegue che gli «indi­pendenti» abbiano avuto ragione - mentre al governo si trovavano degli Scheidemann, mentre il potere sovietico in Ungheria non era ancora caduto, mentre non era ancora esclusa la possibilità di un intervento della rivoluzione sovietica di Vienna in aiuto dei Soviet del­l'Ungheria - di esigere in quelle circostanze la firma della pace di Ver­sailles. In quel momento, gli «indipendenti» si destreggiarono e mano­vrarono molto male, perché si addossarono una responsabilità più o meno grande per conto dei traditori Scheidemann, e sdrucciolarono più o meno dalla concezione di una lotta di classe quanto mai spietata (e ponde­rata) contro gli Scheidemann a una concezione «al di fuori delle classi» e «al di sopra delle classi».

Ma oggi la situazione è evidentemente tale, che i comunisti di Ger­mania non devono legarsi le mani e non devono impegnarsi a un rifiuto immancabile e obbligatorio della pace di Versailles in caso di vittoria del comunismo. Ciò sarebbe sciocco. Bisogna dire: gli Scheidemann e i kautskiani hanno commesso una serie di tradimenti che hanno reso dif­ficile (e in parte hanno addirittura rovinato) la causa dell'alleanza con la Russia sovietica e con l'Ungheria sovietica. Noi comunisti favori­remo e prepareremo quest'alleanza con tutti i mezzi, ma con questo non siamo affatto obbligati a denunciare immancabilmente e, per giunta, a denunciare subito la pace di Versailles. La possibilità di respingerla con successo non dipende soltanto dal progresso del movimento sovietico tedesco, ma anche da quello internazionale. Gli Scheidemann e i kaut­skiani hanno ostacolato questo movimento: noi lo aiutiamo. Questa è la sostanza della questione, questa è la differenza radicale. E se i nostri nemici di classe, gli sfruttatori, i loro servitori, gli Scheidemann e i kaut­skiani, hanno lasciato passare numerose occasioni di rafforzare il movi­mento sovietico tedesco e internazionale, di rafforzare la rivoluzione so­vietica tedesca e internazionale, la colpa ricade su di loro. La rivolu­zione sovietica in Germania rafforzerà il movimento sovietico interna­zionale, che è il più forte baluardo (e l'unico baluardo sicuro, invincibile, la cui potenza è universale) contro la pace di Versailles, contro l'impe­rialismo internazionale in genere. Voler dare obbligatoriamente, imman­cabilmente e immediatamente, al problema di liberarsi dalla pace di Versailles la precedenza sul problema di liberare dal giogo dell'impe­rialismo gli altri paesi oppressi, è nazionalismo piccolo-borghese (degno dei Kautsky, degli Hilferding, degli Otto Bauer e compagni), e non internazionalismo rivoluzionario. L'abbattimento della borghesia in uno qualunque dei grandi paesi europei, quindi anche in Germania, è un tale vantaggio per la rivoluzione internazionale, che per ottenerlo si può e si deve accettare - se ciò sarà necessario - una più lunga esistenza della pace di Versailles. Se la Russia, da sola, fu in grado di soppor­tare per alcuni mesi la pace di Brest con vantaggio per la rivoluzione, non è per nulla impossibile che la Germania sovietica, in alleanza con la Russia sovietica, sopporti con vantaggio della rivoluzione una più lunga esistenza della pace di Versailles.

Gli imperialisti di Francia, Inghilterra, ecc. provocano i comunisti tedeschi, tendono loro una trappola: «Dite che non firmerete la pace di Versailles». E i comunisti di sinistra cadono come bambini in quella trappola predisposta per essi, invece di manovrare abilmente contro il nemico insidioso e in questo momento più forte, invece di rispondere: «Oggi, noi firmeremo la pace di Versailles». Legarsi anticipatamente le mani, dire apertamente al nemico, oggi meglio armato di noi, se e quando combatteremo con lui, è stupidità e non spirito rivoluzionario. Accettare la battaglia quando ciò è manifestamente vantaggioso per il nemico e non per noi, è un delitto; e quei politici della classe rivolu­zionaria che non sanno «destreggiarsi, stringere accordi e compromessi» per evitare una battaglia manifestamente svantaggiosa, non valgono un bel niente.



IX
Il comunismo «di sinistra» in Inghilterra


In Inghilterra non esiste ancora un partito comunista, ma esiste tra gli operai un movimento comunista nuovo, vasto, potente, che si sviluppa con rapidità e giustifica le migliori speranze; esistono alcuni partiti e alcune organizzazioni politiche (il «Partito socialista britan­nico», il «Partito socialista operaio», la «Lega socialista del Galles del sud», la «Federazione operaia socialista») che desiderano creare un partito comunista e che, a tale scopo, sono già in trattative fra loro. Nel giornale The Worker's Dreadnought (vol. VI, n. 48, 21 febbraio 1920), organo settimanale dell'ultima fra le organizzazioni citate, si trova un articolo della sua direttrice, la compagna Sylvia Pankhurst, intitolato: Verso il partito comunista. L'articolo espone l'andamento delle trattative fra le quattro organizzazioni sopra menzionate, per la formazione di un partito comunista unico sulla base dell'adesione alla III Internazionale, del riconoscimento del sistema sovietico in luogo del parlamentarismo, e della dittatura del proletariato. Risulta che uno dei principali ostacoli all'immediata creazione di un partito comunista unico è costituito dai dissensi sul problema della partecipazione al par­lamento e dell'adesione del nuovo partito comunista al vecchio partito laburista, corporativista, composto prevalentemente da trade unions, op­portunista e socialsciovinista. La «Federazione operaia socialista» e il «Partito socialista operaio» [13] si pronunziano contro la partecipazione alle elezioni parlamentari e al parlamento, contro l'adesione al partito laburista, dissentendo in merito dalla totalità o dalla maggioranza dei membri del «Partito socialista britannico», che ai loro occhi rappre­senta «l'ala destra dei partiti comunisti» in Inghilterra (p. 5 dell'ar­ticolo citato di Sylvia Pankhurst).

Quindi, la divisione fondamentale è la stessa che in Germania, nonostante le grandissime differenze della forma in cui si manifestano i dissensi (in Germania tale forma è notevolmente più vicina alla forma «russa», che non in Inghilterra) e di tutto un complesso di altre cir­costanze. Esaminiamo dunque gli argomenti dei «sinistri».

In merito alla partecipazione al parlamento, la compagna Sylvia Pankhurst si richiama a un articolo, pubblicato nello stesso numero, del compagno W. Gallacher, il quale, in nome del «Consiglio operaio della Scozia» di Glasgow, scrive:


Questo Consiglio è nettamente antiparlamentare e ha con sé l'ala si­nistra di varie organizzazioni politiche. Noi rappresentiamo il movimento rivoluzionario in Scozia, il quale tende alla creazione di una organizzazione rivoluzionaria sui luoghi di produzione (nei diversi rami della produzione) e di un partito comunista che si fondi su dei comitati sociali in tutto il paese. Per molto tempo abbiamo polemizzato con i parlamentari ufficiali. Non abbiamo ritenuto necessario di dichiarare loro una guerra aperta ed essi temono di passare all'attacco contro di noi.
Ma una situazione simile non può durare a lungo. Noi vinciamo su tutta la linea.
In Scozia, le masse degli iscritti al Partito laburista indipendente hanno sempre più in disgusto l'idea del parlamento, e quasi tutti i gruppi locali sono per i Soviet [è adoperata la parola russa nella trascrizione inglese] o consigli operai. S'intende che ciò ha una grandissima importanza per quei signori che considerano la politica come un mezzo di guadagno (come una professione), e costoro ricorrono a tutti i mezzi per persuadere i loro ade­renti a ritornare indietro, in seno al parlamentarismo. I compagni rivoluzio­nari non devono [il corsivo è dappertutto dell'autore] appoggiare questa banda. Qui la nostra lotta sarà molto dura. Uno dei suoi peggiori aspetti sarà il tradimento di coloro per i quali gli interessi personali sono uno stimolante più forte che non il loro interesse per la rivoluzione. Ogni ap­poggio al parlamentarismo contribuisce semplicemente a far cadere il potere nelle mani dei nostri Scheidemann e Noske inglesi. Henderson, Clynes e compagni sono irrimediabilmente reazionari. Il Partito laburista indipen­dente ufficiale cade sempre più sotto il dominio dei liberali borghesi, che hanno trovato un rifugio spirituale nel campo dei signori MacDonald, Snowden e compagni. Il Partito laburista indipendente ufficiale è dura­mente ostile alla III Internazionale; la massa è invece favorevole ad essa. Appoggiare in un modo qualsiasi i parlamentari opportunisti, significa sem­plicemente fare il giuoco dei signori sopra citati. Il Partito socialista britan­nico non ha qui alcuna importanza... Qui occorrono una sana organizzazione rivoluzionaria sui luoghi della produzione (industriale) e un partito comu­nista che fondi la sua attività su basi scientifiche, chiare, esattamente deter­minate. Se i nostri compagni possono aiutarci nella creazione dell'una e dell'altro, accetteremo volentieri il loro aiuto; se non possono aiutarci, al­meno, per amor del cielo, non se ne immischino affatto, se non vogliono tradire la rivoluzione accordando il loro appoggio ai reazionari che si ado­perano con tanto zelo a conseguire il titolo «onorevole»(?) [il punto in­terrogativo è dell'autore] di deputati, e che ardono dal desiderio di dimo­strare che essi possono governare con non minor successo degli stessi poli­tici della classe dominante.


Questa lettera alla redazione, secondo me, esprime perfettamente lo stato d'animo e l'opinione di giovani comunisti o di operai appartenenti alla massa, che incominciano appena a venire al comunismo. Tale stato d'animo è confortante e prezioso al massimo grado; bisogna saperlo apprezzare e sostenere perché senza di esso, la rivoluzione proletaria in Inghilterra, come in qualsiasi altro paese, non avrebbe speranza di vit­toria. Le persone che sanno esprimere questo stato d'animo delle masse, che sanno suscitare nelle masse un simile stato d'animo (spesso assopito, non cosciente, non ancora risvegliato), devono essere trattate con ri­guardo e aiutate con sollecitudine in tutti i modi. Ma nello stesso tempo bisogna dir loro francamente, apertamente, che lo stato d'animo delle masse da solo non basta per dirigere le masse nella immane lotta rivo­luzionaria, e che certi errori che le persone più devote alla rivoluzione sono in procinto di commettere o commettono, possono danneggiare la causa della rivoluzione. Nella lettera del compagno Gallacher alla reda­zione si vedono, senza alcun dubbio, i germi di tutti gli errori che com­mettono i comunisti tedeschi di «sinistra» e che furono commessi dai bolscevichi russi «di sinistra» negli anni 1908 e 1918.

L'autore della lettera è animato da un nobile odio proletario (odio che però è comprensibile e familiare non soltanto ai proletari, ma a tutti i lavoratori, a tutta la «gente minuta», per adoperare un'espres­sione tedesca) contro i «politici di classe» borghesi. Quest'odio di un rappresentante delle masse oppresse e sfruttate è in verità il «prin­cipio di ogni saggezza», il fondamento di ogni movimento socialista e comunista e delle sue vittorie. Ma l'autore, evidentemente, non tiene conto del fatto che la politica è una scienza e un'arte che non cade dal cielo ma richiede uno sforzo, e che il proletariato, se vuol vincere la borghesia, deve formare da sé i propri «politici di classe», prole­tari, che non siano peggiori dei politici borghesi.

L'autore della lettera ha ottimamente compreso che non il parla­mento, ma soltanto i Soviet operai possono essere lo strumento atto a raggiungere gli scopi del proletariato, e coloro che non hanno ancora capito questo sono certo i peggiori reazionari, anche se fossero le per­sone più dotte, i politici più esperti, i socialisti più sinceri, i marxisti più eruditi, i cittadini e i padri di famiglia più onesti. Ma l'autore della lettera non pone neppure, non comprende la necessità di porre la que­stione se sia possibile condurre i Soviet alla vittoria sul parlamento, senza introdurre in seno al parlamento degli uomini politici «sovie­tici», senza disgregare il parlamentarismo dall'interno, senza preparare dall'interno del parlamento il successo dei Soviet nel compito che hanno di sciogliere il parlamento. Eppure l'autore della lettera enuncia l'idea del tutto giusta, che il partito comunista in Inghilterra deve agire su basi scientifiche. La scienza esige in primo luogo che si consideri l'espe­rienza degli altri paesi, soprattutto se questi altri paesi, anch'essi capi­talistici, stanno compiendo o da poco hanno compiuto un'esperienza molto simile; e, in secondo luogo, che si considerino tutte le forze, tutti i gruppi, partiti, classi, tutte le masse che agiscono in un dato paese, e che non si determini mai la politica soltanto in base ai desi­deri e alle opinioni, in base al livello raggiunto dalla coscienza e dalla preparazione alla lotta di un solo gruppo o partito.

Che gli Henderson, i Clynes, i MacDonald, gli Snowden siano irrimediabilmente reazionari, è vero. Altrettanto vero è che essi vogliono prendere il potere nelle loro mani (pur preferendo, del resto, una coa­lizione con la borghesia), che essi vogliono «governare» secondo le vecchie norme borghesi, e che, una volta giunti al potere, si comporte­rebbero inevitabilmente come gli Scheidemann e i Noske. Tutto ciò è esatto; ma da questo non consegue affatto che l'appoggiarli sia un tradi­mento verso la rivoluzione; ne consegue invece che i rivoluzionari della classe operaia, nell'interesse della rivoluzione, devono accordare a questi signori un certo appoggio parlamentare. Per chiarire questo concetto, prendo due recenti documenti politici inglesi: 1. il discorso del primo ministro Lloyd George del 18 marzo 1920 (secondo il testo pubbli­cato dal Manchester Guardian del 19 marzo 1920) e 2. le consi­derazioni della comunista «di sinistra», compagna Sylvia Pankhurst, nel suo articolo succitato.

Lloyd George, nel suo discorso, ha polemizzato con Asquith (che era stato espressamente invitato alla riunione, ma aveva rifiutato di an­darvi) e con quei liberali che non vogliono la coalizione con i conser­vatori, ma un avvicinamento al Partito laburista. (Nella lettera del compagno Gallacher alla redazione abbiamo pure visto che si accenna al passaggio di alcuni liberali al Partito laburista indipendente). Lloyd George ha dimostrato che è invece necessaria una coalizione dei liberali con i conservatori, e anzi una stretta coalizione, perché altrimenti po­trebbe vincere il Partito laburista che Lloyd George preferisce chia­mare «socialista» e che tende alla «proprietà collettiva» dei mezzi di produzione. «In Francia ciò si chiamava comunismo» - ha spiegato in forma popolare il capo della borghesia inglese ai suoi uditori, mem­bri del partito parlamentare liberale, che verosimilmente fino allora non lo sapevano -; «in Germania si chiamava socialismo; in Russia si chiama bolscevismo». E i liberali, per principio, non possono accettare questo - ha spiegato Lloyd George - poiché i liberali sostengono, per principio, la proprietà privata. «La civiltà è in pericolo» - ha affermato l'oratore - e perciò i liberali e i conservatori devono unirsi...


...Se vi recate nei collegi agricoli - ha detto Lloyd George - con­vengo che vi troverete le vecchie divisioni dei partiti che si sono conservate come erano prima. Là il pericolo è lontano. Là non ci sono pericoli. Ma quando il movimento arriverà fino ai collegi agricoli, il pericolo sarà tanto grande quanto lo è oggi in alcuni collegi industriali. I quattro quinti del nostro paese lavorano nell'industria e nel commercio; appena un quinto nel­l'agricoltura. Questa è una delle circostanze ch'io ho sempre presente quando rifletto sui pericoli che l'avvenire ci riserba. In Francia la popolazione è dedita all'agricoltura, e si ha una solida base di opinioni ben definite, che non si sposta così rapidamente e che non è molto facile smuovere con un movimento rivoluzionario. Nel nostro paese le cose stanno diversamente. Il nostro paese può essere sconvolto più facilmente di qualsiasi altro paese del mondo, e se esso comincia a vacillare, il crollo, per i motivi sopra indi­cati, sarà più grave che negli altri paesi.


Come il lettore vede, Lloyd George non è soltanto un uomo molto intelligente, ma anche un uomo che ha molto imparato dai marxisti. Non sarà male che anche noi impariamo da Lloyd George.

E interessante notare anche il seguente episodio della discussione che si è svolta dopo il discorso di Lloyd George:


Signor Wallace: Vorrei chiedere come il primo ministro giudica i risul­tati della sua politica nei collegi industriali verso gli operai dell'industria, molti dei quali sono ora liberali e dai quali riceviamo un appoggio così forte. Non è possibile che essa abbia come risultato un formidabile aumento delle forze del Partito laburista, grazie all'afflusso di operai che sono ora nostri sinceri sostenitori?
Il primo ministro: La mia opinione è tutt'altra. Il fatto che i liberali si combattono fra loro, spinge indubbiamente un numero assai rilevante di liberali a entrare per disperazione nel Partito laburista, dove trovate già un buon numero di liberali, uomini molto capaci, che oggi lavorano a screditare il governo. Il risultato è, senza dubbio, che nell'opinione pub­blica si rafforza notevolmente il favore per il Partito laburista. L'opinione pubblica non si sposta verso i liberali, che stanno fuori del Partito labu­rista, ma verso il Partito laburista, come dimostrano le elezioni parziali.


Notiamo di sfuggita che questo ragionamento dimostra, in parti­colare, come gli uomini più intelligenti della borghesia cadano in errore e non possano non fare sciocchezze irreparabili. E questo perderà la bor­ghesia. I nostri uomini, invece, possono anche fare delle sciocchezze (a condizione, è vero, che non siano molto grandi, e che siano corrette a tempo), e ciò nonostante in fin dei conti saranno vincitori.

L'altro documento politico consiste nelle seguenti considerazioni della comunista «di sinistra», compagna Sylvia Pankhurst:


...Il compagno Inkpin (segretario del Partito socialista britannico) chia­ma il Partito laburista «la principale organizzazione del movimento della classe operaia». Un altro compagno del Partito socialista britannico, in una conferenza della III Internazionale, ha espresso con rilievo ancor maggiore l'opinione del Partito socialista britannico: egli ha detto: «Noi consideriamo il Partito laburista come la classe operaia organizzata».
Noi non condividiamo questa opinione in merito al Partito laburista. Il Partito laburista è numericamente molto grande, benché i suoi membri, in gran parte, siano inerti e apatici; sono operai e operaie entrati nelle trade unions, perché i loro compagni di fabbrica sono tradunionisti e perché vogliono ricevere dei sussidi.
Ma riconosciamo che la forza numerica del Partito laburista è anche dovuta al fatto che esso è una creazione di quella scuola del pensiero dai cui limiti la maggioranza della classe operaia britannica non è ancora uscita, benché si preparino grandi mutamenti nello spirito del popolo, il quale cambierà ben presto questa situazione...
...Il Partito laburista britannico, come le organizzazioni socialpatriottiche degli altri paesi, nel corso della evoluzione naturale della società, giun­gerà inevitabilmente al potere. È compito dei comunisti predisporre le forze che abbatteranno i socialpatrioti e, nel nostro paese, noi non dobbiamo né indugiare, né tentennare in questa attività.
Noi non dobbiamo disperdere la nostra energia accrescendo le forze del Partito laburista: la sua ascesa al potere è inevitabile. Noi dobbiamo concentrare le nostre forze per creare un movimento comunista che lo vinca. Il Partito laburista costituirà tra breve il governo; l'opposizione rivoluzio­naria deve essere pronta a sferrare l'attacco contro di esso...


Dunque la borghesia liberale rinuncia al sistema storico dei «due partiti» (di sfruttatori), consacrato da una esperienza secolare e straor­dinariamente vantaggioso per gli sfruttatori, ritenendo necessaria l'uni­ficazione delle forze per la lotta contro il Partito laburista. Una parte dei liberali scappano, come topi da una nave che affonda, nel Partito laburista. I comunisti di sinistra ritengono inevitabile il passaggio del potere al Partito laburista e riconoscono che questo partito ha dietro di sé la maggioranza degli operai. Da ciò essi traggono la strana conclu­sione che la compagna Sylvia Pankhurst formula come segue:


Il partito comunista non deve stringere compromessi... Esso deve man­tenere pura la sua dottrina e immacolata la sua indipendenza dal riformismo; la sua missione è di andare avanti, senza fermarsi e senza deviare dal cam­mino, di seguire la via diritta verso la rivoluzione comunista.


Al contrario, dal fatto che la maggioranza degli operai in Inghil­terra segue ancora i Kerenski e gli Scheidemann inglesi, e non ha ancora sperimentato un governo costituito da quella gente - esperienza che s'è dimostrata indispensabile in Germania e in Russia, per il passaggio in massa degli operai al comunismo, - da questo fatto risulta sicura­mente che i comunisti inglesi devono partecipare all'attività parlamen­tare, e che dall'interno del parlamento devono aiutare le masse operaie a vedere in pratica i risultati del governo di Henderson e di Snowden, che essi devono aiutare gli Henderson e gli Snowden a vincere i Lloyd George e i Churchill coalizzati. Agire in modo diverso, significa intralciare la causa della rivoluzione; perché senza un cambiamento delle opi­nioni della maggioranza della classe operaia la rivoluzione è impossibile, e questo cambiamento è un prodotto dell'esperienza politica delle masse e mai della sola propaganda. «Avanti, senza compromessi, senza de­viare dal cammino»: quando è una minoranza della classe operaia, ma­nifestamente impotente, che dice questo - una minoranza la quale sa (o in ogni caso dovrebbe sapere) che la maggioranza, entro breve tempo, a condizione che Henderson e Snowden riportino la vittoria su Lloyd George e Churchill, rimarrà delusa dei suoi capi e verrà ad appoggiare il comunismo (o in ogni caso passerà alla neutralità e in gran parte a una neutralità benevola verso i comunisti), una simile parola d'ordine è evidentemente sbagliata. È proprio come se 10.000 soldati si gettas­sero nella battaglia contro un nemico di 50.000 uomini, mentre occorre «fermarsi», «deviare dal cammino» e magari concludere un «com­promesso», anche solo per attendere i 100.000 uomini di rinforzo che devono giungere ma che non sono in grado di entrare subito in campo. Questa è una puerilità da intellettuali, ma non una tattica ponderata, da classe rivoluzionaria.

La legge fondamentale della rivoluzione, confermata da tutte le rivoluzioni e particolarmente da tutte e tre le rivoluzioni russe del secolo ventesimo, consiste in questo: per la rivoluzione non è sufficiente che le masse sfruttate e oppresse siano coscienti dell'impossibilità di vivere come per il passato ed esigano dei cambiamenti; per la rivolu­zione è necessario che gli sfruttatori non possano più vivere e governare come per il passato. Soltanto quando gli «strati inferiori» non vogliono più il passato e gli «strati superiori» non possono fare come per il pas­sato, soltanto allora la rivoluzione può vincere. In altri termini, questa verità si esprime così: la rivoluzione non è possibile senza una crisi di tutta la nazione (che coinvolga cioè sfruttati e sfruttatori). Per la rivo­luzione bisogna, dunque, in primo luogo, che la maggioranza degli ope­rai (o per lo meno la maggioranza degli operai coscienti, pensanti, poli­ticamente attivi) comprenda pienamente la necessità del rivolgimento e sia pronta ad affrontare la morte per esso; in secondo luogo, che le classi dirigenti attraversino una crisi di governo che trascini nella poli­tica anche le masse più arretrate (l'inizio di ogni vera rivoluzione sta in questo, che tra le masse lavoratrici e sfruttate, apatiche fino a quel momento, il numero degli uomini atti alla lotta politica aumenta rapi­damente di dieci o persino di cento volte), indebolisca il governo e renda possibile ai rivoluzionari il rapido rovesciamento di esso.

In Inghilterra, come si vede, tra l'altro, proprio dal discorso di Lloyd George, maturano manifestamente entrambe le condizioni di una rivoluzione proletaria vittoriosa. E gli errori da parte dei comunisti di sinistra sono ora doppiamente pericolosi, appunto perché si nota in al­cuni rivoluzionari un atteggiamento non abbastanza meditato, non abba­stanza attento, non abbastanza cosciente, non abbastanza ponderato verso ognuna di queste condizioni. Se noi non siamo un gruppo rivoluzionario, ma il partito della classe rivoluzionaria, se vogliamo attrarre al nostro seguito le masse (e senza di ciò rischiamo di restare semplicemente dei chiacchieroni), dobbiamo anzitutto aiutare Henderson e Snowden a bat­tere Lloyd George e Churchill (anzi, più esattamente: costringere i primi a battere i secondi, perché i primi hanno paura della propria vittoria); in secondo luogo, dobbiamo aiutare la maggioranza della classe operaia a convincersi, per esperienza propria, che noi abbiamo ragione, ossia a convincersi che Henderson e Snowden non servono a nulla, che sono per natura dei piccoli borghesi e dei traditori e che il loro falli­mento è inevitabile; in terzo luogo, dobbiamo affrettare il momento in cui, sulla base della delusione cagionata alla maggioranza degli ope­rai dagli Henderson, divenga possibile, con seria probabilità di vittoria, buttar giù di colpo il governo degli Henderson che si agiterà ancor più sconcertato se persino Lloyd George, intelligentissimo e ponderatissimo, non piccolo-borghese, ma grande borghese, si dimostra del tutto sconcertato e indebolisce sempre più se stesso (e tutta la borghesia), ieri mediante i suoi «attriti» con Churchill, oggi mediante i suoi «attriti» con Asquith.

Parlerò in modo più concreto. I comunisti inglesi, secondo me, devono unificare tutti i loro quattro partiti e gruppi (tutti molto deboli e alcuni deboli oltre ogni dire), in un solo partito comunista, sul ter­reno dei principi della III Internazionale e della partecipazione obbli­gatoria al parlamento. Il partito comunista propone agli Henderson e agli Snowden un «compromesso», un accordo elettorale: marciamo in­sieme contro il blocco di Lloyd George e dei conservatori; dividiamo i seggi parlamentari proporzionalmente al numero dei voti dati dagli operai al Partito laburista o ai comunisti (non nelle elezioni, ma in una votazione particolare); riserbiamoci la più completa libertà di agita­zione, di propaganda, di attività politica. Senza quest'ultima condizione, s'intende, non si deve entrare nel blocco, perché sarebbe un tradimento: i comunisti inglesi devono assolutamente reclamare e conservare la piena libertà di smascherare gli Henderson e gli Snowden, così come l'hanno reclamata e conservata i bolscevichi russi (per quindici anni, dal 1903 al 1917) rispetto agli Henderson e agli Snowden russi, cioè ai menscevichi.

Se gli Henderson e gli Snowden accetteranno il blocco a queste condizioni, noi avremo guadagnato, perché il numero dei seggi in parlamento non è per noi affatto importante, perché noi non diamo la caccia ai seggi parlamentari e su questo punto saremo arrendevoli (men­tre gli Henderson e specialmente i loro nuovi amici - o i loro nuovi padroni -, i liberali, che sono passati al Partito laburista indipendente, danno soprattutto la caccia ai seggi). Noi avremo guadagnato perché porteremo la nostra agitazione fra le masse nel momento in cui lo stesso Lloyd George le ha «messe in effervescenza», e non soltanto aiuteremo il Partito laburista a formare più presto un proprio governo, ma aiuteremo anche le masse a comprendere più rapidamente tutta la nostra propaganda comunista, che condurremo contro gli Henderson, senza limitazioni e senza reticenze.

Se gli Henderson e gli Snowden respingeranno il blocco con noi a queste condizioni, noi avremo guadagnato ancora di più, perché avremo mostrato senz'altro alle masse (si noti che persino nel Partito laburista indipendente, schiettamente menscevico, del tutto opportunista, le masse sono per i Soviet) che gli Henderson preferiscono i propri buoni rap­porti con i capitalisti alla unione di tutti gli operai. Avremo senz'altro guadagnato agli occhi delle masse, le quali, specialmente dopo le bril­lanti spiegazioni di Lloyd George, molto giuste e molto utili (per il comunismo), simpatizzeranno per l'unione di tutti gli operai contro il blocco di Lloyd George con i conservatori. Avremo senz'altro guada­gnato perché avremo dimostrato davanti alle masse che gli Henderson e gli Snowden hanno paura di vincere Lloyd George, hanno paura di prendere da soli il potere e mirano in segreto a ottenere l'appoggio di Lloyd George, il quale porge apertamente la mano ai conservatori contro il Partito laburista. Bisogna notare che da noi, in Russia, la propa­ganda dei bolscevichi contro i menscevichi e i socialisti-rivoluzionari (cioè contro gli Henderson e gli Snowden russi) dopo la rivoluzione del 27 febbraio 1917 (vecchio calendario) ebbe partita vinta appunto in seguito a un simile concorso di circostanze. Noi dicevamo ai men­scevichi e ai socialisti-rivoluzionari: prendete tutto il potere senza la borghesia, perché voi avete la maggioranza nei Soviet (al primo Con­gresso dei Soviet di tutta la Russia del giugno 1917 i bolscevichi ave­vano soltanto il 13 per cento dei voti). Ma gli Henderson e gli Snow­den russi avevano paura di prendere il potere senza la borghesia; e quando la borghesia rinviava le elezioni per la Costituente perché sa­peva benissimo che le elezioni avrebbero dato la maggioranza ai men­scevichi e ai socialisti-rivoluzionari [14] (gli uni e gli altri si erano uniti in un blocco politico strettissimo, e in realtà rappresentavano un'unica democrazia piccolo-borghese), i menscevichi e i socialisti-rivoluzionari non furono in grado di lottare energicamente e a fondo contro questi rinvii.

Se gli Henderson e gli Snowden rifiutassero il blocco coi comunisti, i comunisti si avvantaggerebbero senz'altro conquistando la simpatia delle masse e screditando gli Henderson e gli Snowden; e se, in seguito a questo rifiuto, perdessimo qualche seggio in parlamento, ciò non avrebbe per noi nessuna importanza. Noi ci limiteremmo a presentare i nostri candidati soltanto in un numero piccolissimo di collegi asso­lutamente sicuri, nei quali cioè la presentazione di candidature nostre non potrebbe portare alla vittoria del liberale contro il candidato labu­rista. Noi condurremmo l'agitazione elettorale, diffonderemmo dei ma­nifestini in favore del comunismo e, in tutti i collegi dove non vi fos­sero candidati nostri, inviteremmo a votare per il candidato laburista contro il borghese. I compagni Sylvia Pankhurst e Gallacher sbagliano quando vedono in questa linea di condotta un tradimento del comunismo o una rinuncia alla lotta contro i socialtraditori. Al contrario, la causa della rivoluzione comunista se ne avvantaggerebbe senza dubbio.

Oggi, per i comunisti inglesi, è spesso molto difficile persino acco­stare le masse, persino indurre le masse ad ascoltarli. Se io mi presento come comunista e dichiaro che invito a votare per Henderson contro Lloyd George, certamente mi si ascolterà. E potrò non soltanto spie­gare in forma popolare perché i Soviet sono migliori del parlamento e la dittatura del proletariato è migliore della dittatura di Churchill (ma­scherata dall'insegna della «democrazia» borghese), ma potrò anche spiegare che io vorrei sostenere Henderson col mio voto, proprio come la corda sostiene l'impiccato; che l'avvicinarsi del momento in cui gli Henderson formeranno un governo loro proprio, dimostrerà che io ho ragione, avrà per effetto di attirare le masse dalla mia parte, affretterà la morte politica degli Henderson e degli Snowden, proprio come è avvenuto con i loro simili in Russia e in Germania.

E se mi si obietta: questa è una tattica troppo «astuta» e troppo complicata, le masse non la comprenderanno, essa disperderà e spezzet­terà le nostre forze, ci impedirà di concentrarle per la rivoluzione so­vietica, ecc., io risponderò a questi contraddittori «di sinistra»: non riversate sulle masse il vostro dottrinarismo! In Russia le masse sono certamente meno colte o non più colte che in Inghilterra. E ciò non­dimeno le masse hanno capito i bolscevichi; e se i bolscevichi alla vi­gilia della rivoluzione sovietica, nel settembre 1917, hanno preparato le liste dei loro candidati al parlamento borghese (Assemblea costi­tuente) e il giorno dopo la rivoluzione sovietica, nel novembre 1917, hanno fatto le elezioni per quella stessa Assemblea costituente, che poi essi avrebbero disperso il 5 gennaio 1918, questa circostanza non è stata di ostacolo ma di aiuto ai bolscevichi.

Non posso indugiarmi qui sul secondo dissenso che esiste fra i co­munisti inglesi e che consiste nel dilemma: aderire o no al Partito labu­rista. Troppo scarsa è la documentazione di cui dispongo riguardo a questo problema, che è particolarmente complicato in conseguenza della straordinaria originalità del «Partito laburista» britannico, troppo dis­simile per la sua stessa struttura dai partiti politici abituali del conti­nente europeo. Ma è certo, in primo luogo, che anche in questa que­stione sbaglia inevitabilmente chiunque si metta in testa di dedurre la tattica del proletariato rivoluzionario da principi come questi: «Il par­tito comunista deve mantenere pura la sua dottrina e immacolata la sua indipendenza dal riformismo; la sua missione è di andare avanti, senza fermarsi e senza deviare dal cammino, di seguire la via diritta verso la rivoluzione comunista». Giacché tali principi non fanno che ripetere l'errore dei comunardi blanquisti francesi, i quali, nel 1874, proclama­rono la «negazione» di qualsiasi compromesso e di qualsiasi «stazione intermedia». In secondo luogo, è certo che il compito consiste, in que­sto caso, come sempre, nel saper applicare i principi generali e fonda­mentali del comunismo a quella peculiarità dei rapporti fra le classi e i partiti, a quella peculiarità nello sviluppo obiettivo verso il comu­nismo, che è propria di ogni singolo paese e che bisogna saper studiare, trovare, indovinare.

Ma di ciò conviene parlare non soltanto in rapporto col comunismo inglese, ma in rapporto con le conclusioni generali concernenti lo svi­luppo del comunismo in tutti i paesi capitalistici. E passiamo a questo argomento.



Note

[1] [nota di Lenin] Si può applicare alla politica e ai partiti, con le necessarie modificazioni, ciò che si riferisce alle singole persone. Saggio non è colui che non fa errori: di tali uomini non ce ne sono e non ce ne possono essere. Saggio è colui che non commette degli errori troppo sostanziali, colui che sa correggerli rapidamente e facilmente.
[2] I «tribunisti», così detti dal loro giornale De Tribune, formavano il partito socialdemocratico olandese, costituito nel 1909. [NdR]
[3] Pseudonimo di Anton Pannekoek. [NdR]
[4] [nota di Lenin] Cfr. la Gazzetta operaia comunista (Amburgo, 7 febbraio 1920, n. 32: ar­ticolo di Karl Erler, Scioglimento del partito): «La classe operaia non può de­molire lo Stato borghese senza annientare la democrazia borghese e non può an­nientare la democrazia borghese senza distruggere i partiti».
Le teste più confuse tra i sindacalisti e gli anarchici latini possono essere «soddisfatte»: dei solidi tedeschi, che si ritengono evidentemente marxisti (Karl Erler e Karl Horner, con particolare serietà, dimostrano, nei loro articoli del citato giornale, di reputarsi solidi marxisti e nello stesso tempo dicono, in modo particolarmente comico, un'incredibile scempiaggine, dimostrando di non capire l'abbicci del marxismo), arrivano a dire cose assolutamente fuori luogo. Il rico­noscimento del marxismo, da solo, non basta ad evitare gli errori. E noi russi lo sappiamo particolarmente bene, perché, da noi, il marxismo fu molto spesso «di moda».
[5] Era il gruppo del «centralismo democratico», i cui esponenti principali furo­no N. Osinski, T. Sapronov, V. Smirnov. [NdR]
[6] [nota di Lenin] Malinovski fu prigioniero di guerra in Germania. Quando tornò in Russia, durante il governo del bolscevichi, fu subito consegnato al tribunale e fucilato dai nostri operai. I menscevichi ci avevano attaccato con grande malignità per il nostro errore, in seguito al quale un provocatore aveva fatto parte del Comitato centrale del partito. Ma quando noi, sotto Kerenski, esigemmo l'arresto del pre­sidente della Duma, Rodzianko, e un processo contro di lui perché già prima della guerra sapeva dell'attività provocatrice di Malinovski e non aveva comunicato ciò ai trudovichi e agli operai membri della Duma, né i menscevichi, né i socialisti-rivoluzionari, che partecipavano al governo con Kerenski, appoggiarono la nostra richiesta e Rodzianko, rimasto in libertà, riuscì facilmente a raggiungere Denikin.
[7] Ecco le cifre degli iscritti dalla rivoluzione di febbraio del 1917 fino al 1919: 80.000 al tempo della Conferenza panrussa del POSDR (b) del 1917 (Conferenza d'aprile); circa 240.000 al tempo del VI Congresso, luglio-agosto 1917; almeno 270.000 al tempo del VII Congresso del PC(b), marzo 1918; 313.000 alla data dell'VIII Congresso, marzo 1919. [NdR]
[8] Cfr. Lenin, La rivoluzione d'Ottobre, Roma, Edizioni Rinascita, 1947, p. 429. [NdR]
[9] K. Marx-F. Engels, Carteggio, Roma, Edizioni Rinascita, vol. II, 1950, p. 122. [NdR]
[10] [nota di Lenin] I Gompers, gli Henderson, i Jouhaux, i Legien sono anch'essi degli Zubatov che si distinguono dal nostro Zubatov unicamente per l'abito europeo e la vernice europea, per i metodi civili, raffinati, rivestiti di democrazia, con cui svolgono la loro vergognosa politica.
[11] [nota di Lenin] Ho avuto troppo scarse possibilità di conoscere il comunismo «di sinistra» in Italia. Indubbiamente il compagno Bordiga e la sua frazione dei «comunisti boicottisti» (comunista astensionista) [in italiano nel testo n.d.r.] sono dalla parte del torto, quando sostengono la non partecipazione al parlamento. Ma in un punto mi sembra che Bordiga abbia ragione, per quanto è possibile giudicare da due numeri del suo giornale Il Soviet (nn. 3 e 4 del 18 gennaio e del 1° febbraio 1920), da quattro fascicoli dell'ottimo periodico del compagno Serrati, Comunismo (nn. 1-4, 1 ottobre-30 novembre 1919) e da singoli numeri di giornali borghesi italiani che ho potuto vedere. Cioè Bordiga e la sua frazione hanno ragione nei loro attacchi a Turati e a coloro che la pensano come lui, i quali rimangono in un partito che ha riconosciuto il potere dei Soviet e la dittatura del proletariato, restano membri del parlamento e proseguono la loro vecchia e dannosissima po­litica opportunista. Col tollerare ciò il compagno Serrati e tutto il Partito socialista italiano commettono un errore, che minaccia lo stesso grave danno e lo stesso pericolo che in Ungheria, dove i signori Turati ungheresi sabotarono dall'interno il partito e il potere sovietico. Un tale atteggiamento errato, inconseguente e privo di carattere verso i deputati opportunisti genera da una parte il comunismo «di sinistra» e dall'altra parte ne giustifica, fino a un certo punto, l'esistenza. Il compagno Serrati ha evidentemente torto quando (Comunismo, n. 3) accusa il deputato Turati di «incoerenza», mentre è incoerente proprio il Partito socialista italiano che tollera dei parlamentari opportunisti come Turati e soci.
[12] [nota di Lenin] In ogni classe, anche se è la più progredita e se le circostanze del mo­mento hanno suscitato in essa un prodigioso slancio di tutte le forze intellettuali e anche se si tratta del paese più colto, ci sono sempre - e finché esisteranno le classi, finché la società senza classi non si sarà pienamente rafforzata, conso­lidata e sviluppata sulla sua propria base ci saranno inevitabilmente - dei rap­presentanti della classe stessa che non pensano e non sono capaci di pensare. Se non fosse cosi, il capitalismo non sarebbe un capitalismo oppressore delle masse.
[13] [nota di Lenin] Pare che questo partito sia contro l'adesione al Partito laburista, ma non sia tutto contro la partecipazione al parlamento.
[14] [nota di Lenin] Le elezioni per l'Assemblea costituente in Russia nel novembre 1917, se­condo cifre che si riferiscono a circa 36 milioni di elettori, diedero infatti il 25 percento dei voti ai bolscevichi, il 13 per cento ai vari partiti dei proprietari fon­diari e della borghesia, e il 62 per cento alla democrazia piccolo-borghese, cioè ai socialisti-rivoluzionari, ai menscevichi e ad altri piccoli gruppi ad essi affini.