Palmiro Togliatti

Alcuni problemi della storia
dell'Internazionale comunista

Da Togliatti, Opere scelte, Editori Riuniti, Roma 1974, pp. 954-982. Il testo è ripreso da Rinascita, anno XVI, n. 7-8, luglio-agosto 1959, pp. 467-481.


I

Si è compiuto in quest'anno un quarantennio dalla fondazione del­l'Internazionale comunista (III Internazionale), il suo congresso di fon­dazione, infatti, ebbe luogo all'inizio di marzo del 1919. Il lavoro po­litico e di organizzazione che doveva portare a questo congresso si era però svolto, prima di quella data, per quattro o cinque anni, e cioè quasi dall'inizio della prima guerra mondiale. Esso comprese non solo alcune storiche conferenze internazionali (Zimmerwald, Kienthal), ma comprese soprattutto la tenace azione che Lenin svolse, dalla Svizzera e dalla Russia, prima e dopo la conquista del potere, per denunciare il tradimento del socialismo compiuto da quasi tutti i partiti della II Internazionale, per restaurare nella coscienza delle avanguardie operaie dei paesi in guerra o neutrali i principi del marxismo rivoluzionario e dell'internazionalismo proletario, per dimostrare la necessità che le forze d'avanguardia della classe operaia d'Europa e del mondo intiero si unissero e dessero vita a una nuova organizzazione internazionale dei lavoratori. L'azione di Lenin fu non soltanto decisiva per la crea­zione dell'Internazionale comunista, ma per darle sin dai primi passi una base di principio nelle restaurate verità e nello sviluppo della dottri­na marxista, ricollegandola, in pari tempo, alla grande tradizione di pensiero e di lotta del partito dei bolscevichi russi, che nella II Interna­zionale sempre aveva rappresentato la continuità e la difesa intransi­gente del marxismo rivoluzionario e nella vittoria dell'Ottobre 1917, nella conquista del potere, e nella fondazione del primo Stato socialista doveva trovare il coronamento di un'azione rivoluzionaria durata più di trent'anni.

Sorta, così, dal fuoco della prima guerra mondiale e della prima vittoriosa rivoluzione proletaria, l'Internazionale comunista venne sciol­ta, per decisione dei suoi regolari organi dirigenti e col consenso di tutte le sue sezioni nazionali, il 15 maggio del 1943, nel fuoco della seconda guerra mondiale, in un momento in cui già erasi compiuta la storica svolta che, segnata dalla vittoria di Stalingrado, aveva cam­biato il corso degli eventi bellici e doveva portare, dopo altri due anni di combattimento, al trionfo della coalizione anti-hitleriana sugli aggres­sori fascisti. L'attività dell'Internazionale comunista si stende dunque per circa venticinque anni, che furono tra i più convulsi e tragici della storia d'Europa e del mondo intiero. È difficile trovare un periodo storico che, in cosi relativa brevità, possa essere paragonato a questo per l'asprezza delle lotte che in esso furono combattute, tra gli Stati e tra le classi; per l'incredibile ampiezza e profondità delle trasformazio­ni che in così pochi decenni ebbe a subire la struttura stessa del mondo e, oltre a questo, per la sorprendente omogeneità dei processi politici e sociali che durante questo periodo si compirono nei paesi più diversi e più lontani, per l'omogeneità dei temi e degli obiettivi che emergono dalla lotta delle classi, dei popoli e degli Stati.

La metà, per lo meno, dei venticinque anni cui si può ridurre l'esistenza dell'Internazionale comunista, furono anni di guerra guerreg­giata. Si parte dall'intervento armato dei grandi Stati imperialistici con­tro la repubblica dei soviet, che si può dire terminato solo nel 1921, per giungere, attraverso i conflitti del Medio Oriente e altri incidenti bellici locali, alla invasione armata della Cina da parte del Giappone, all'aggressione italiana contro l'Etiopia, alla guerra di Spagna, alle im­prese di Hitler contro l'Austria e la Cecoslovacchia e alla seconda guerra mondiale. Dei paesi europei, quasi tutti (ad eccezione di alcuni Stati nordici) sono scossi, in questo periodo, da potenti movimenti, che han­no la loro base nella classe operaia e nei contadini e da violenti attacchi della reazione borghese che ne scuotono l'ordinamento politico e lace­rano profondamente il tessuto sociale. Lo stesso avviene, con intensità anche più grande, in una grande parte dei paesi coloniali, particolar­mente dell'Asia. Se poi si confronta il punto di partenza, che vede tutto il mondo capitalistico impegnato per accerchiare, isolare e abbat­tere la repubblica russa dei soviet, a cui nessuno, né tra i borghesi né tra i socialdemocratici, si degna di riconoscere un avvenire, con il punto di arrivo, quando è la forza militare, politica e morale della grande Unione Sovietica, dove già è stata edificata una società socialista, che salva tutto il mondo dal soccombere al flagello hitleriano, si ha la precisa visione non di un progresso lineare, ma di un radicale capovolgimento di posizioni e di valori. Alla fine dei venticinque anni esiste ed è fattore decisivo della politica mondiale, ciò che, all'inizio, soltanto le scarse e audaci avanguardie comuniste erano sicure che si sarebbe creato. Esiste un paese socialista, e questo paese è diventato una delle più grandi potenze. Quel regime capitalistico e quell'imperialismo, in­vece, che subito dopo la prima guerra mondiale ancora ardivano pre­sentarsi come il solo possibile ordinamento sociale, come inespugnabile baluardo di una civiltà «democratica» e padroni di tutto il mondo, sono, allo scadere della seconda, allo stremo delle forze. Hanno generato il fascismo, e il fascismo li ha spinti verso l'abisso; hanno perduto il prestigio, la fiducia in se stessi e la stima dei popoli; hanno lottato per salvare il loro diritto al dominio mondiale e un popolo dopo l'altro contesterà loro questo diritto e spezzerà le vecchie catene. Verso la fine della guerra mondiale, in sostanza, quando si scioglie l'Interna­zionale comunista, chi esamini la struttura del mondo, lo stato della coscienza nuova maturata nei popoli e abbia una percezione oggettiva dei movimenti che si preparano o sono in corso, non può non avvedersi che già sono in germe quelle nuove radicali trasformazioni da cui è uscito l'attuale stato del mondo, con l'Unione Sovietica e gli altri paesi socialisti lanciati alla sicura conquista del comunismo, il sistema dell'op­pressione coloniale crollato quasi per intiero e il capitalismo che ha davanti a sé la prospettiva di non più poter far fronte alla sfida che gli viene lanciata sul terreno della pace e del progresso civile, e se vaneggiando carezza nuovi mostruosi sogni di guerra, sente che anche questa può soltanto più essere, per lui, la via della disperazione e della fine.

È questa visione reale delle cose che ci induce ad affermare che in nessun altro periodo la storia delle società umane si è sviluppata con un ritmo così intenso come nei pochi decenni di esistenza e di attività dell'Internazionale comunista. Si deve aggiungere poi, che il movimento rivoluzionario che parte dalla rivoluzione d'ottobre e dalla fine della guerra mondiale, a differenza di ciò che avvenne in altri momenti storici, non interessa un gruppo limitato di paesi, ma si esten­de, in forme diverse e con maggiore o minore intensità, a tutti i paesi della terra. Il legame tra ciò che avviene in una parte del mondo e nelle altre diventa uno stretto legame di interdipendenza, mentre i mo­tivi dei contrasti sociali e politici e gli obiettivi di lotta delle diverse parti acquistano, in tutto il mondo, un'impressionante analogia. Attra­verso le situazioni più diverse e le più diverse condizioni dell'economia, degli ordinamenti politici, dei rapporti tra le classi, degli interessi e delle tradizioni nazionali, affiorano pochi temi fondamentali, che stanno all'ordine del giorno dell'attività di tutti i popoli: la liberazione defini­tiva dallo sfruttamento capitalistico, la fine dei regimi di tirannide e del colonialismo, la libertà di tutti i popoli, la marcia verso il socialismo e la pace. La conquista del potere, la costruzione di un primo Stato socialista e i suoi progressi vittoriosi hanno reso il mondo più unito, hanno avvicinato uomini e popoli, nella lotta, per ora, in attesa del giorno che l'unità del mondo potrà poggiare sopra una unica base reale e su universali rapporti di fraterna collaborazione.

L'importanza della storia dell'Internazionale comunista sta nel fat­to che essa fu, dall'inizio alla fine, al centro di questo grande processo di rinnovamento del mondo intiero. Anzi, essa ne fu uno dei principali elementi propulsori e di guida. Lo fu, prima di tutto, orientando il pensiero delle avanguardie proletarie e rivoluzionarie di tutti i paesi, con le analisi attente delle situazioni oggettive e del loro sviluppo, le quali sempre concludevano con la indicazione dei compiti storici del momento e di ciò che era necessario fare per attuarli. Lo fu con l'appello continuo, instancabile, alla organizzazione e all'azione, con la dimostra­zione della necessità che i partiti comunisti, avanguardia della classe operaia e del popolo, sorgessero in ogni paese, si dessero una solida base organica, si rafforzassero e attraverso l'azione riuscissero a conqui­stare una influenza decisiva sulle grandi masse popolari. Lo fu per aver fatto rivivere la dottrina rivoluzionaria del marxismo, liberandola dalle incrostazioni opportuniste e per avere fatto penetrare profondamente, nei partiti comunisti e operai e in tutti i movimenti progressivi, la conoscenza degli sviluppi rivoluzionari che Lenin e il partito dei comuni­sti russi hanno dato al marxismo, attraverso l'esperienza di tre rivolu­zioni e della costruzione, poi, di una società socialista. Non vi è stato, nel periodo che ci interessa, avvenimento storico di rilievo sul quale gli organi dirigenti dell'Internazionale non abbiano preso posizione, o non abbiamo preso posizione le sue sezioni nazionali, e non con l'indiffe­rente freddezza del falso scienziato, ma con l'acutezza dello studioso marxista e con la passione del politico e del combattente il quale sa che il suo giudizio, che è sempre stimolo all'azione, può contribuire a modificare il corso degli avvenimenti. La causa della democrazia, la causa del socialismo, la causa dell'unità della classe operaia e delle forze progressive ebbero nell'Internazionale comunista e nelle sue sezioni i combattenti più tenaci e migliori.

Si comprende, poiché cosi stanno le cose, che l'Internazionale co­munista sia stata oggetto, da parte delle classi dirigenti capitalistiche, in tutte le loro frazioni, e da parte di chi sta al loro servizio, di odio inestinguibile. Tutti gli strumenti, anche i più abietti e vergognosi, vennero considerati buoni per combatterla: dalla violazione aperta delle norme della democrazia e del vivere civile sino al colpo di mano e all'assassinio. La menzogna, la calunnia, la diffamazione e l'insulto stu­pido sono l'arsenale cui hanno attinto coloro che si proposero di combat­terla: capi di governo e di partiti borghesi, capi socialdemocratici e rinnegati delle nostre stesse file. Quando si costituì una lega di briganti sanguinari che si proponevano di mettere a sacco il mondo intiero e cancellare ogni traccia di libertà e di civiltà, questa lega di briganti volle chiamarsi «patto antikomintern». E spettò all'Internazionale co­munista tracciare le linee, nell'ultimo dei suoi congressi, della grande strategia politica che dovette essere seguita per distruggere quella lega di briganti e riaprire all'umanità le prospettive di un nuovo progresso politico e sociale.

Forse, però, la eccezionale importanza storica di ciò che l'Interna­zionale comunista è stata e di ciò che ha fatto, ha anche una conseguenza negativa, perché rende molto difficili e quindi molto scarsi, i seri lavori storici dedicati a questo tema. Alcuni lavori esistono, e sono buoni; tendono però tutti, mi pare, o a tracciare unicamente una linea di svi­luppo indicata in termini molto generali e prescindendo dai particolari, oppure a descrivere la formazione ed evoluzione del movimento comuni­sta in paesi singoli o in singole situazioni rivoluzionarie acute. Nel com­plesso, un certo contributo all'esame storico che noi auguriamo già esi­ste, ma ancora inadeguato allo scopo. È in realtà compito assai arduo l'abbracciare assieme e tessere in unico contesto quelle che furono le vicende dell'Internazionale, e in particolare le sue posizioni politiche, i suoi indirizzi di strategia e di tattica, con gli sviluppi tempestosi delle situazioni oggettive, l'azione rivoluzionaria che ad essi corrispose, l'at­tività e l'esperienza ricchissima dei singoli partiti. Una storia, infatti, che si limitasse alla considerazione e analisi delle posizioni e decisioni successivamente prese dagli organi dirigenti dell'Internazionale comuni­sta nelle successive loro riunioni, non potrebbe soddisfare. Mancherebbe ad essa la base reale dei fatti e la critica delle cose, quale si è attuata attraverso i combattimenti aspri e le dure esperienze. Occorre inoltre riconoscere che le fonti per responsabili studi di storia su questi argo­menti sono oggi di difficile accesso, disperse in luoghi diversi, in pubbli­cazioni quasi introvabili nei paesi d'Occidente. Anche nell'Unione So­vietica, del resto, la riedizione dei documenti indispensabili per un serio esame storico è appena agli inizi. E perché non aggiungere, infine, che a queste difficoltà materiali se ne aggiungono altre, attinenti alla sostan­za dei temi che una storia dell'Internazionale comunista dovrebbe trat­tare? Non ci si può nascondere, infatti, che in non tutti i momenti dell'attività dell'Internazionale si può affermare che tutte le sue po­sizioni fossero totalmente giuste e corrispondenti alle situazioni. Sulla grande linea di una esatta analisi e definizione marxista degli sviluppi della crisi del capitalismo apertasi con la prima guerra mondiale e di una giusta azione rivoluzionaria per la formazione e il rafforzamento dei partiti comunisti in condizioni spesso molto difficili, non si può negare che vi siano state oscillazioni che richiedono un giudizio critico, posizioni che poi dovettero essere abbandonate perché non rispondenti a tutti gli elementi della realtà sociale e politica, ritardi e talora anche esagerazioni propagandistiche. Infine, ci sia consentito aggiungere che le critiche fatte al XX Congresso all'azione di Stalin, per quanto egli non sia mai stato il responsabile diretto dell'attività dell'Internazionale comunista, richiedono senza dubbio, per quanto riguarda sia il giudizio su determinate persone e sui gruppi dirigenti di determinati partiti, sia la giustezza e opportunità di determinate decisioni e campagne, che venga compiuta un'attenta opera di riconsiderazione, allo scopo di ri­mettere gli uomini e le cose nella loro giusta luce.

II

Mi pare sia necessario sottolineare con particolare energia che la necessità di dare vita a una nuova associazione internazionale dei lavo­ratori, rompendo senza esitazione il legame politico e di organizzazione con i partiti socialdemocratici della II Internazionale, venne proclamata da Lenin prima e non dopo la vittoria della rivoluzione d'ottobre e la conquista del potere da parte della classe operaia russa e del partito dei bolscevichi. E si tratta di un punto di eccezionale importanza, non tanto per dare un colpo agli sciagurati per cui l'Internazionale comunista non fu mai altro che uno «strumento» dello Stato dei soviet, ma per determinare quale fu precisamente la concezione storica e politica da cui Lenin parti per rivendicare la creazione del nuovo organismo inter­nazionale.

La lotta contro l'opportunismo dei capi dei vecchi partiti social­democratici era stata condotta da Lenin in modo chiaro e intransigente, già prima della guerra. Ad essa aveva partecipato tutta un'ala del movi­mento operaio, anche se non sempre in modo conseguente e partendo da sicure posizioni marxiste. Con lo scoppio della guerra, tutti i limiti erano stati oltrepassati in modo vergognoso dagli opportunisti che sta­vano alla testa dei grandi partiti della II Internazionale. Le risoluzioni e gli appelli che richiedevano che i partiti socialisti rispondessero alla guerra con l'appello all'azione rivoluzionaria erano stati posti sotto i piedi. I crediti di guerra erano stati approvati. Gli operai erano stati invitati ad andare al massacro per gli interessi della loro borghesia. L'opportunismo era diventato socialsciovinismo. «I più importanti par­titi socialisti d'Europa avevano tradito tutte le loro idee e i loro compi­ti.» (Lenin) Questo fatto già giustificava il distacco definitivo dagli opportunisti e la creazione di una nuova organizzazione internazionale rivoluzionaria. Ma Lenin non si accontenta del richiamo a questo fatto. Egli pone, prima di tutto, la questione del motivo per cui ha potuto realizzarsi il tradimento, e risponde con una analisi delle origini dell'op­portunismo nel movimento operaio, da ricercarsi nella struttura stessa della società capitalistica, nelle trasformazioni che in essa sono avvenute, nella formazione di una aristocrazia operaia e in una particolare solida­rietà che si stabilisce tra questa aristocrazia e la classe dominante, ai danni della grande massa dei lavoratori e dei principi del socialismo. «L'opportunismo non è, dunque, un fatto casuale, non è un peccato, non è un errore o un tradimento di singole persone, ma il prodotto sociale di tutto un periodo storico.» (Lenin, Il fallimento della II Inter­nazionale, del giugno 1915.) Gli opportunisti, diventati socialsciovinisti e traditori, sono l'espressione di un processo oggettivo, proprio della fase di sviluppo cui è arrivato lo stesso regime capitalistico. Vi è già in questa caratterizzazione leninista dell'opportunismo una profonda giustificazione storica dei nuovi e necessari sviluppi del movimento ope­raio, pur tuttavia non è ancora qui, mi sembra, il momento più im­portante dell'analisi di Lenin. Il momento più importante, decisivo per tutti gli sviluppi del pensiero e dell'azione leninista, sta nella costata­zione oggettiva che la guerra mondiale apre una nuova fase della storia e che in questa fase nuova del tutto nuovi sono i compiti che si presen­tano alla classe operaia e ai suoi partiti.

Vi è qualcosa che sembra profetico in ciò che Lenin afferma nei primi anni della guerra, ma è una capacità profetica che fa tutt'uno con la piena padronanza e con lo sviluppo originale dalla dottrina del marxismo. Il primo manifesto contro la guerra venne scritto da Lenin l'11 ottobre 1914 e in esso apertamente si dice che «in tutti i paesi più progrediti, la guerra rende attuale la parola d'ordine della rivolu­zione socialista». Nell'opuscolo famoso sul Fallimento della II Interna­zionale, che è di alcuni mesi dopo, il legame tra questa affermazione e la necessità della creazione di una nuova Internazionale è dimostrata nel modo più preciso: «Il socialismo europeo è uscito dallo stadio relativamente pacifico e dagli angusti confini nazionali. Con la guerra del 1914-1915, esso è giunto allo stadio dell'azione rivoluzionaria, e la completa rottura con l'opportunismo e la sua esclusione dai partiti operai sono assolutamente mature... La guerra del 1914-15 è una così grande svolta nella storia, che i rapporti con l'opportunismo non pos­sono rimanere quali erano nel passato». L'indicazione del compito e la sua giustificazione storica assumono, in questo modo, la massima evidenza e una precisione assoluta.

Ad esse non corrisponde però affatto, in Lenin, la semplice gene­rica affermazione che la guerra sarebbe stata seguita da un regolamento dei conti tra governanti e governati, cosa che veniva ripetuta, in quegli anni, da molte parti. La previsione leninista è solidamente fondata sul risultato delle analisi che Lenin esporrà, nel 1916, nel «Saggio popo­lare» sull'Imperialismo, fase suprema del capitalismo. È quindi una previsione organica e scientifica. «Il capitale è divenuto internazionale e monopolistico. Il mondo è diviso fra un piccolo numero di grandi potenze, vale a dire fra le potenze che sono meglio riuscite a spogliare e ad asservire su grande scala altre nazioni. Quattro grandi potenze europee: Inghilterra, Francia, Russia e Germania, con una popolazione fra i 250 e 300 milioni di abitanti e con una superficie di circa 7 milioni di chilometri quadrati, posseggono delle colonie con circa mezzo miliardo (494,5 milioni) di abitanti e una superficie di 64,6 milioni di chilometri quadrati, cioè circa la metà del globo terrestre (133 mi­lioni di chilometri quadrati, senza le regioni polari). Aggiungete a que­sto i tre Stati asiatici: la Cina, la Persia e la Turchia, i quali sono ora fatti a pezzi dai briganti che conducono la guerra liberatrice. Quei tre Stati asiatici... hanno una popolazione di 360 milioni e una superfi­cie di 14,5 milioni di chilometri quadrati...» (Lenin, Sulla parola d'or­dine degli Stati Uniti d'Europa, dell'agosto 1915). Così è organizzato il mondo capitalistico «e nessun'altra forma di organizzazione è possi­bile». Ma questa organizzazione, mentre genera da un lato violente crisi interne (guerre imperialiste) per la ineguaglianza di sviluppo che impone di continuo la ricerca di nuove spartizioni del fantastico bottino, dall'altro lato genera uno squilibrio crescente tra le forze oppresse e gli oppressori, e in questo squilibrio sono le premesse della inevitabile rottura rivoluzionaria. Questa però sarà tale, per le stesse condizioni oggettive da cui esce, che porrà all'ordine del giorno non più soltanto singole questioni dell'assetto economico e politico, ma i problemi «del­la esistenza stessa della società capitalistica», cioè i problemi di una rivoluzione socialista. Lenin afferma, in uno scritto che è del settembre 1915, che la rottura avrà luogo nella Russia, ma dalla Russia dovrà pro­pagarsi agli altri paesi europei. «La vita, - egli scrive, - attraverso la sconfitta della Russia, procede verso la rivoluzione in Russia e, in legame con essa, verso la guerra civile in Europa.» (La sconfitta della Russia e la crisi rivoluzionaria, del settembre 1915).

Ci siamo soffermati alquanto su queste posizioni leniniste perché da esse scaturisce quello che fu il grande orientamento di principio, storico e politico, dell'Internazionale comunista, che determinò la sua formazione e ispirò tutta la sua attività. Si parte dalla nozione, scientifi­camente dimostrata, che il capitalismo è giunto all'ultima fase del suo sviluppo e che il periodo storico che attraversiamo è quello del crollo dell'imperialismo e della vittoria rivoluzionaria del socialismo. Di qui si deduce, come conseguenza, la necessaria lotta intransigente per la cacciata dell'opportunismo dalle file del movimento operaio, la rottura definitiva con i vecchi partiti della II Internazionale e la creazione in ogni paese di un partito rivoluzionario di avanguardia della classe operaia, armato della dottrina marxista e dell'insegnamento di Lenin. Di qui si deducono, secondo i principi del marxismo, una strategia e una tattica adeguate al carattere generale del periodo storico e alle singole situazioni concrete. Di qui, infine, poiché la rottura rivoluziona­ria effettivamente avviene nella Russia ed è coronata dalla vittoria della classe operaia, si deduce che l'asse di tutto il movimento operaio rivolu­zionario necessariamente si sposta dai paesi dell'Europa occidentale ver­so il paese dove la rivoluzione proletaria ha vinto, verso il partito che ha saputo portarla alla vittoria e che deve affrontare e risolvere il nuovo ingente compito di costruire una economia e una società socialiste.

Costituita l'Internazionale, Lenin svilupperà e approfondirà, sulla base dell'esperienza della rivoluzione d'ottobre, le tesi che abbiamo indi­cato e queste saranno accolte dalla parte più attiva e migliore della classe operaia, diverranno patrimonio di migliaia e migliaia di combat­tenti per il socialismo, di milioni e milioni di uomini che al socialismo guardano come al necessario avvenire dell'umanità.

Dopo il I Congresso, lo stesso Lenin fissa il posto che alla nuova Internazionale spetta nella storia:

«La I Internazionale gettò le fondamenta della lotta proletaria, internazionale, per il socialismo.

«La II Internazionale è stata l'epoca della preparazione del terreno per una diffusione larga, di massa, del movimento in un buon numero di paesi.

«La III Internazionale ha assimilato i frutti dell'attività della II Internazionale, ne ha spazzato via il sudiciume opportunista, socialscio-vinista, borghese e piccolo-borghese, e ha incominciato ad attuare la dittatura del proletariato» (La III Internazionale e il suo posto nella storia, dell'aprile 1919).

Al II Congresso, egli ribadisce che il fondamento di tutta la situa­zione «sta nei rapporti economici dell'imperialismo». «Da questi rap­porti è sorta la guerra e la guerra ha rotto il vecchio equilibrio. Un miliardo e duecentocinquanta milioni di uomini sono sottoposti all'op­pressione coloniale, allo sfruttamento di un capitalismo feroce, mentre non più di duecentocinquanta milioni vivono nei paesi dominanti. Il meccanismo dell'economia capitalistica è completamente sconquassato... La miseria e la rovina delle masse sono immensamente aumentate... Gli operai sono venuti a trovarsi in una situazione intollerabile... La guerra ha condotto a un inaudito inasprimento di tutte le contraddizioni del capitalismo e in questo fatto va ricercata l'origine del profondissimo fermento rivoluzionario...» (Rapporto sulla situazione internazionale e sui compiti fondamentali dell'IC, del luglio 1920).

Le determinazioni fondamentali di strategia e di tattica, in partico­lare la necessità della lotta per il potere nei paesi di capitalismo svilup­pato, la indicazione dei possibili alleati del proletariato in questa lotta e la dimostrazione del confluire contro l'imperialismo dello sforzo delle masse proletarie d'Occidente con quello dei popoli coloniali oppressi e in rivolta, sono tutte collegate, dunque, a posizioni di principio de­dotte dalla dottrina marxista e confermate dall'esperienza della storia.

Queste posizioni erano vere e rimangono vere. Il corso degli avve­nimenti non soltanto le ha confermate, ma ha fornito nuove prove in­confutabili della loro verità. Per cui se oggi confrontiamo la esperienza del movimento comunista, quale venne ispirato e diretto dalla Interna­zionale, con la esperienza di altri movimenti e in particolare dei partiti socialdemocratici, il confronto si conclude, in ogni caso, a favore di ciò che noi, seguendo il grande insegnamento di Lenin, abbiamo soste­nuto. Nessuno più può negare, oggi, che dalla prima guerra mondiale in poi viviamo nel periodo dell'avvento del socialismo e della decadenza e fine del capitalismo. La dittatura del proletariato, il potere della classe operaia e dei contadini ad essa alleati, si è affermato come forza storica decisiva, ha esteso la sfera della sua esistenza, ha risolto e risolve con sicurezza i suoi problemi. La crisi generale del capitalismo, attraverso gli alti e bassi ciclici e le cicliche catastrofi, si è fatta sempre più profon­da. È crollato il regime coloniale in quasi tutto il mondo; la sfera di dominio dell'imperialismo si è ristretta e si restringe di continuo. E in questo mondo che sta cambiando il suo volto, non vi è uno dei vecchi partiti socialdemocratici che sia riuscito neanche ad avvicinare la classe operaia del suo paese, a diventare classe dirigente, a conquistare il potere. Si sono invece impegnati tutti, o quasi tutti, a salvare gli ordinamenti borghesi dal pericolo di una rivoluzione proletaria. Dissero di doverlo fare per salvare gli ordinamenti democratici, ma le classi borghesi, passato il pericolo rivoluzionario, mandarono al potere il fa­scismo e questo gettò il mondo in una nuova guerra sterminatrice. Oggi, in forme diverse, qualcosa di simile sta ripetendosi, mentre i partiti socialdemocratici non cessano di essere sostegno attivo dell'ordine bor­ghese e nemici, prima di tutto, di ogni movimento rivoluzionario e del socialismo, - del socialismo così come oggi si presenta nel mondo, occupando la terza parte del globo e procedendo sicuro verso le sue mete.

Non vi può quindi essere dubbio di sorta su questo punto: la rottura radicale con l'opportunismo, la creazione di nuovi partiti rivo­luzionari della classe operaia, la fondazione e l'attività dell'Internazionale comunista risultano, alla prova della storia, pienamente giustificati. Seguendo l'appello e l'insegnamento di Lenin, si è fatto ciò che doveva essere fatto, per essere all'altezza della situazione storica e dare al proletariato internazionale e ai popoli quella guida di cui essi in questa situazione avevano bisogno. Giuste sono state le grandi prospettive con le quali l'Internazionale ha lavorato, giusti i principi cui essa si è ispira­ta, dai quali ha ricavato una strategia rivoluzionaria di portata mondiale, secondo i quali si è sforzata di muoversi e chiamare alla lotta nelle situazioni più diverse.

III

La situazione rivoluzionaria acuta creata dalla prima guerra mon­diale si estese a quasi tutti i paesi dell'Europa continentale. Il proleta­riato riuscì a prendere il potere in Ungheria; altrove, in Germania, si giunse ripetutamente a rivolte armate e alla formazione di soviet degli operai e dei soldati; anche là dove non vi furono azioni insur­rezionali e gravi scontri armati, la crisi economica e politica ebbe mani­festazioni drammatiche e le classi borghesi furono vicine a perdere il potere. La vittoria rivoluzionaria però non si ebbe, nonostante l'ampiez­za del movimento delle masse e il coraggio col quale si batterono le minoranze organizzate nei partiti comunisti o raccolte attorno ad essi. L'obiettivo della conquista del potere da parte della classe operaia, che era posto dalla storia, di cui esistevano, cioè, le condizioni oggettive, non potè essere raggiunto. Se fosse stato raggiunto, almeno in uno o due grandi paesi capitalistici, vi sarebbero stati senza dubbio, successi­vamente, altri periodi di dura lotta, ma tanto la grave crisi del 1929, quanto il fascismo e la seconda guerra mondiale sarebbero stati rispar­miati all'umanità.

Vi è chi dice, oggi, che i comunisti commisero l'errore di porre l'obiettivo della conquista del potere, che essi, ciò facendo, separarono una parte delle masse, le più avanzate, da quelle che rimasero al seguito dei vecchi partiti socialdemocratici e che, di conseguenza, venne reso impossibile a questi partiti di accedere dappertutto alla direzione dello Stato e di attuare un programma di profonde riforme. Nulla è storica­mente più falso di questa rappresentazione delle cose. Prima di tutto, i capi socialdemocratici, appartenenti all'ala riformista del movimento, non avanzarono siffatti programmi di rinnovamento democratico in nes­suno dei paesi europei. Gli ordinamenti più reazionari furono abbattuti in modo diretto dal primo impeto del movimento delle masse e sotto l'impeto di questo movimento furono strappate le più importanti rifor­me democratiche. Quando i capi socialdemocratici, poi, ebbero accesso al potere e lo esercitarono anche da soli, senza scrupolo alcuno essi si servirono del potere per impedire che il movimento delle masse si sviluppasse e per restaurare i vecchi ordinamenti borghesi. Dove il mo­vimento non si fermò, ma proseguì con obiettivi radicali, i capi social­democratici fecero alleanza con la parte più reazionaria della borghesia per schiacciarlo con le armi. La socialdemocrazia nel suo complesso, si può quindi affermare che nei primi anni dopo la guerra, e particolar­mente in Germania, dove la crisi fu più profonda, abbia agito essen­zialmente come strumento per la salvezza e restaurazione del regime capitalistico. Si ebbe in questo modo ancora una prova che la trasforma­zione, durante la guerra, del riformismo in socialsciovinismo era l'espressione di un profondo processo di degenerazione del movimento socialdemocratico. Ciò sia detto senza dimenticare che vi furono paesi (come l'Italia, per esempio) dove i capi riformisti dettero prova di un totale disorientamento che li rese incapaci di impostare e condurre qualsiasi politica, che non fosse quella di fare ostacolo agli sviluppi di un vero movimento rivoluzionario.

Chi dimostrò, invece, di possedere una grande capacità di resisten­za e di manovra, nonostante i crolli provocati dalla guerra e le contrad­dizioni da questa aperte furono le classi dirigenti capitalistiche, capaci di far ricorso e all'aiuto dei capi socialdemocratici e alla violenza di­retta, e alla vergognosa combinazione di questi due mezzi, pur di salvare o riconquistare le loro posizioni di assoluto potere.

Le sezioni dell'Internazionale comunista, alcune delle quali forma­tesi nel corso stesso delle crisi rivoluzionarie più acute, non furono, in generale, all'altezza delle situazioni, e questo fu il problema centrale dei primi tempi della vita dell'Internazionale. La vittoria rivoluzionaria alla quale si tendeva - e cioè la conquista del potere in alcuno dei più grandi paesi dell'Occidente - era dappertutto strettamente legata al tempo, cioè alla rapidità del movimento, e soprattutto alla rapida formazione di un'avanguardia rivoluzionaria e alla rapida conquista da parte di essa di una influenza decisiva sulle masse operaie e popolari. Era necessario che questo avvenisse prima che le classi borghesi e i loro apparati di governo e di repressione fossero usciti dalla grave crisi che in parte li immobilizzava, cioè nel corso stesso della lotta rivolu­zionaria. Qui vennero alla luce le deficienze e gli errori. Ciò non potè essere fatto. Risultò che era più facile rompere con i capi socialdemo­cratici che liberarsi dal socialdemocratismo. Molti tra coloro che procla­mavano a gran voce l'adesione alla nuova Internazionale, rimanevano in realtà legati alle vecchie posizioni della socialdemocrazia su problemi essenziali per un movimento rivoluzionario, come quello dell'alleanza tra la classe operaia e il ceto medio rurale e urbano. Gli stessi fondatori e capi della Lega Spartaco [1], che furono tra i più ardenti rivoluzionari proletari, avevano posizioni errate su questioni vitali della strategia rivo­luzionaria. Non parliamo poi dei massimalisti italiani, tra i quali regnava una pittoresca confusione di idee, unita a una quasi totale incapacità di azione. I gruppi comunisti che dovevano poi stare alla testa delle sezioni dell'Internazionale, erano essi stessi ancora male orientati oppu­re poco numerosi e troppo poco autorevoli per potersi opporre alla forza prevalente delle grosse organizzazioni socialdemocratiche.

In Ungheria, dove le vecchie classi dirigenti erano così smarrite e sconfitte da cedere quasi volontariamente il potere, e i capi social­democratici dichiararono di porsi essi stessi sul terreno della dittatura del proletariato, il potere vanne preso, e la classe operaia dimostrò di avere la capacità di organizzarlo saldamente e di difenderlo con eroi­smo. Ma un radicale errore di strategia fu commesso non distribuendo individualmente ai contadini la terra dei grandi signori e in questo modo isolando la classe operaia dai suoi alleati. I socialdemocratici, poi, uniti con i comunisti in un solo partito, esercitarono una influenza negativa su tutti gli atti del governo, ne indebolirono la resistenza e contribuirono a preparare la sconfitta. In Germania, dove si deve tener conto che la reazione armata fu diretta dalla socialdemocrazia, alla quale una grande parte delle masse manteneva la sua adesione, vi furono pure, dal '19 al '23, seri errori commessi da coloro che dirigevano il movimento comunista.

La conclusione più generale cui si deve giungere è che la vittoria della rivoluzione d'ottobre nel 1917 fu dovuta alla esistenza di una avanguardia solidamente organizzata, il partito dei bolscevichi, e al fatto che questa avanguardia aveva elaborato, sotto la direzione di Lenin, nel corso di un lotta ventennale contro l'opportunismo in tutte le sue varietà, una strategia e una tattica della rivoluzione che non solo rispondevano ai principi del marxismo, ma aderivano perfettamente alle particolari condizioni economiche, politiche, sociali della Russia. Negli altri paesi d'Europa, non vi era nessun partito, nessun gruppo politico che possedesse quel bagaglio di principi, di conoscenza scientifica sia della dottrina marxista che del proprio paese e quel bagaglio di esperien­za rivoluzionaria che aveva portato i comunisti russi alla vittoria del­l'Ottobre. I fondatori e dirigenti dell'Internazionale comunista, e Lenin alla loro testa, ben videro che questa era la lacuna che si doveva colmare.

IV

L'esame dell'opera di Lenin durante la guerra imperialista e nel periodo di formazione dell'Internazionale rivela agevolmente che men­tre conduceva una lotta intransigente e senza quartiere per la definitiva rottura con l'opportunismo socialdemocratico, Lenin era in pari tempo preoccupato che le forze rivoluzionarie si raccogliessero attorno a una piattaforma di posizioni marxisticamente giuste, che per liberarsi dal­l'opportunismo non si cadesse in un estremismo errato e vuoto. Val­gano, come esempio, la vivace battaglia contro la tendenza a negare valore, nell'epoca dell'imperialismo, alle rivendicazioni nazionali; la po­lemica con Junius (Rosa Luxemburg) cui viene rimproverato, a propo­sito della possibilità o meno di guerre nazionali nel periodo dell'impe­rialismo, di «eludere l'esigenza marxista della concretezza»; e l'altra vivacissima polemica contro «l'economismo imperialistico», che era una tendenza a vedere in modo che noi chiameremmo «massimalistico» il problema della rivoluzione proletaria, sostituendo alla concreta analisi di ogni movimento e delle rivendicazioni che esso esprime una vuota fraseologia. Questa cura della precisione marxista è la essenza stessa del pensiero di Lenin. Così, anche negli anni in cui egli rivendica l'at­tuazione, nei paesi più diversi, di un compito che a tutti è comune, cioè la formazione dei partiti comunisti, non manca nelle sue parole il richiamo alle diverse condizioni di ogni paese e quindi alla diversità degli obiettivi politici concreti. Parlando sulla questione italiana al III Congresso, nella vivace polemica contro la politica di Serrati che aveva preferito 14 mila riformisti a 58 mila comunisti, egli aggiunge: «Noi non abbiamo mai preteso che Serrati copiasse in Italia la rivoluzione russa. Sarebbe sciocco pretenderlo. Siamo abbastanza intelligenti e fles­sibili per evitare una sciocchezza simile». Così, nelle questioni di dot­trina, egli non consente che le sue affermazioni possano essere interpre­tate diversamente da quelli che sono i principi marxisti. Colpisce, ad esempio, che nello storico rapporto al II Congresso, dopo avere definito e descritto, con termini di inarrivabile potenza sintetica, la crisi che il capitalismo attraversa, egli si affretti ad aggiungere che sarebbe errato sforzarsi di dimostrare che la crisi è assolutamente senza via di uscita. «La borghesia si comporta come un ladrone sfrontato che ha perduto la testa, fa sciocchezze su sciocchezze, aggravando la situazione e affret­tando la propria rovina... Ma non si può dimostrare che essa non ha assolutamente nessuna possibilità di addormentare una minoranza di sfruttati per mezzo di concessioni e che non riesca a schiacciare certi movimenti e insurrezioni di una parte degli oppressi o sfruttati» (Rap­porto al II Congresso dell'IC, del 19 luglio 1920). E conclude che solo l'azione dei partiti rivoluzionari potrà «dimostrare» che veramen­te non vi è più via di uscita per la borghesia.

Non si può dire che queste chiare e precise posizioni marxiste ispirassero allora tutto il movimento comunista. In generale si deve invece ammettere che esisteva in esso una scarsa conoscenza e valu­tazione delle condizioni concrete dei propri paesi e una tendenza a pro­clamare in modo esteriore e superficiale la propria volontà di «fare ciò che si è fatto in Russia», senza capire che cosa questo in ogni paese potesse e dovesse significare. La rottura con l'opportunismo por­tava facilmente a forme di settarismo che isolavano i comunisti, spesso non molto numerosi, dalle grandi masse organizzate nei sindacati o di­sorganizzate; vi era anzi chi teorizzava questo isolamento, affermando che si trattava di aspettare che le masse «venissero a noi»; non mancò infine chi costruì una dottrina dell'«offensiva», secondo la quale una piccola minoranza, anche isolata dalle grandi masse, poteva condurre vittoriosamente l'assalto alla fortezza del potere. Diffusa era la incom­prensione delle rivendicazioni nazionali: diffusa l'opinione che, essen­dosi aperto un periodo rivoluzionario, non avessero più valore le riven­dicazioni democratiche. Che non si valutassero esattamente, poi, le capa­cità di recupero e di manovra delle classi borghesi lo dimostra se non altro il fatto che tanto in Italia (nel 1922), quanto in Bulgaria (nel 1923) e in Polonia (nel 1926) i partiti comunisti furono disorientati di fronte all'attacco del fascismo, di cui non compresero dall'inizio la vera portata e il significato profondo. Per fare, del movimento che si era raccolto sotto la bandiera dell'Internazionale comunista, un vero movimento comunista, era necessaria una grande lotta ideologica e politica, assieme a un'opera di profonda educazione e trasformazione dei quadri dirigenti. A quest'opera si dedicarono, sotto la direzione di Le­nin, i primi congressi dell'Internazionale, e Lenin dette ad essa un con­tributo decisivo.

Di solito si pensa, quando si rievoca quest'opera di formazione dei partiti comunisti, alle «21 condizioni» approvate dal II Congresso per la adesione dei partiti all'Internazionale. Quelle condizioni furono certamente, in quel momento, un documento molto importante, per determinare il tipo di partito che si opponeva a quello socialdemocra­tico, ma non credo che siano state l'elemento decisivo. Decisiva fu la elaborazione della strategia e della tattica dei partiti comunisti quale venne fatta dai primi tre congressi. Decisive furono, oltre alle tesi sulle questioni nazionale e coloniale, due opere di Lenin, al di sopra di tutto: l'Estremismo, malattia infantile del comunismo e il discorso in difesa della tattica dell'Internazionale, pronunciato al III Congresso. Con l'Estremismo Lenin, che sviluppando le nozioni fondamentali del marxismo già aveva dotato il movimento comunista di una dottrina dello Stato e di una dottrina della rivoluzione, gli dette una compiuta concezione della tattica del partito e del suo metodo di lavoro. A diffe­renza delle Questioni del leninismo di Stalin, posteriori di alcuni anni e aventi un carattere didascalico, il libro è dall'inizio alla fine una pole­mica vivace, stringente, legata ai temi più attuali del movimento operaio. E il suo più grande merito, che rivela e la genialità e il proposito dell'autore, mi pare consista nella impostazione stessa delle questioni. L'attenzione ammirata di tutto il mondo operaio era infatti concentrata allora sul partito bolscevico, che si sapeva essere stato l'artefice della vittoria rivoluzionaria e di cui si conosceva e si esaltava, soprattutto, la disciplina ferrea e l'eroismo dei militanti. Tutti avrebbero voluto poter riprodurre le qualità di quel partito, che si presentava come un modello internazionale. Lenin accetta questa impostazione, ammette il valore internazionale di ciò che i bolscevichi hanno fatto, ma subito aggiunge che «sarebbe un gravissimo errore voler esagerare questa veri­tà, estenderla a più di alcuni tratti fondamentali della nostra rivolu­zione». Indi prosegue, riconosce che la «disciplina severissima» è stata una delle condizioni essenziali della vittoria, ma in pari tempo costata che «si riflette troppo poco... sulle condizioni che rendono possibile la vittoria». La disciplina non ci può essere senza la capacità dell'avan­guardia «di collegarsi, di avvicinarsi, di unirsi fino a un certo punto, di fondersi, se volete, con la più grande massa dei lavoratori, dei prole­tari innanzitutto, ma anche con la massa lavoratrice non proletaria». La disciplina, inoltre, dipende dalla giustezza della direzione politica e dal fatto che «le masse si convincano per propria esperienza di questa giustezza». Senza queste condizioni, «i tentativi di creare una disciplina si trasformano inevitabilmente in bolle di sapone, in frasi, in farse». Ma queste condizioni non si ottengono se non a prezzo di un lungo lavoro, della pratica di un movimento veramente di massa e veramente rivoluzionario.

Così è aperta la via a una sintetica esposizione delle tappe di svi­luppo del partito bolscevico, che furono di preparazione, di avanzata nella lotta, quindi di ritirata ordinata, di ripresa lenta e poi un po' più rapida fino alla rivoluzione di marzo, dopo la quale i comunisti incominciarono «con molta prudenza» la lotta contro la repubblica borghese e per la rivoluzione socialista, dichiarando che «una repub­blica borghese con una Costituente è migliore di una repubblica bor­ghese senza Costituente», ma che migliore di tutte è la repubblica sovietica degli operai e dei contadini. La critica dell'estremismo di na­tura piccolo-borghese, del rivoluziona­rismo confusionario e parolaio e di singole precise aberrazioni allora esistenti tra i comunisti, come il rifiuto di partecipare alle elezioni e al lavoro parlamentare, di entrare e lavorare nei sindacati reazionari, di accettare determinate soluzioni di compromesso, di avanzare anche in periodo di crisi acuta rivendi­cazioni economiche e politiche parziali, e così via, viene quindi condotta sempre, con grande finezza e maestria di argomentazione, servendosi dell'esperienza di quel partito a cui nessuno poteva negare le doti di intransigenza dottrinale e di capacità rivoluzionaria e dirigendo il colpo principale contro i capi opportunisti e contro la borghesia, per poter battere i quali i comunisti devono liberarsi dagli impacci e dalle inge­nuità del dottrinarismo «di sinistra».

Numerose pagine di questo libro, come quella su ciò che è neces­sario che i comunisti sappiano fare per vincere un nemico più potente («la massima tensione delle forze... la utilizzazione di ogni benché mi­nima incrinatura... di ogni minima possibilità di guadagnarsi un alleato... sia pure temporaneo, incerto, incostante, infido», ecc. ecc.) sono oggi moneta corrente in tutto il movimento operaio. Nel 1920, quando il libro venne da noi conosciuto poco dopo le tesi sulla democrazia bor­ghese e sulla dittatura proletaria, e quasi contemporaneamente alle tesi e al rapporto sui compiti fondamentali dell'Internazionale, fu più che una rivelazione. Quella lettura rese più forte l'esigenza della rottura dal vecchio partito socialista, per creare un partito che riuscisse, nella storia e nelle condizioni del nostro paese, ad accumulare una esperienza di lavoro e di lotta che fosse strumento di resistenza e di vittoria per la classe operaia in qualsiasi situazione: essa fu il punto di partenza dei dibattiti e delle crisi attraverso le quali il partito comunista prese coscienza dei suoi compiti e si pose al lavoro per attuarli.

Nell'Internazionale, divenne evidente che dopo il II Congresso e sulla base dell'opera di Lenin si doveva venire a una resa dei conti con l'estremismo. Ciò avvenne a partire dal III Congresso [2] dove Le­nin, sviluppando con una vivacissima polemica le tesi dell'estremismo, disfece l'attacco dei sostenitori della dottrina «dell'offensiva», sosten­ne, senza alcuna specie di concessione, la necessità della «conquista della maggioranza» da parte dei comunisti e fece sancire questo princi­pio nelle tesi sulla tattica. Così fu dato il giusto orientamento, da una parte alla formazione e organizzazione dei partiti comunisti come partiti di massa, dall'altra parte alla politica di fronte unico verso gli operai e le organizzazioni socialdemocratiche, che si espresse con gli appelli all'unità di azione e anche con trattative tra le due Interna­zionali.

La resistenza a questa politica fu però, all'inizio, molto grande, tra gli stessi comunisti. Si ebbero discussioni aspre e contrasti di cor­rente; alcune sezioni respinsero la nuova tattica; altre l'accettarono con condizioni e riserve che ne annientavano il valore. Si chiese che il fronte unico potesse farsi soltanto sul terreno sindacale, non su quello delle organizzazioni e azioni politiche; si introdussero distinzioni scolastiche tra l'unità realizzata dall'alto, o dal basso, o da ambe le parti. La prima richiesta equivaleva a un rifiuto della tattica unitaria e conteneva per­sino una specie di minaccia all'unità sindacale; quanto alle distinzioni sul modo di giungere all'unità, esse sono molto schematiche e perdono sempre di valore quando alla unità si vuole giungere e si giunge real­mente, perché una netta separazione tra la base e la sommità di un movimento solidamente organizzato non la si trova di frequente; vi è tra l'una e l'altra azione e reazione reciproca.

Molto interessante e giusta fu invece la decisione di collegare alla parola d'ordine del fronte unico, sviluppandola, quella di un governo operaio, da costituirsi là dove si fosse realizzata l'unità di azione tra comunisti e socialdemocratici. È evidente il tentativo di trovare forme di accesso al potere che, rispondendo a una situazione diversa, non riproducessero esattamente le soluzioni sovietiche. L'applicazione pra­tica, però, fu sbagliata, per l'orientamento opportunista dei dirigenti comunisti che in Germania fecero questa esperienza. Se ne discusse molto e si concluse col dire che quella parola d'ordine non doveva essere intesa che come un sinonimo della dittatura del proletariato, il che equivaleva a toglierle ogni particolare valore. Dal 1934 in poi, però, la ricerca che in quella formula si conteneva venne ripresa, svi­luppata, e le realizzazioni che si ebbero furono di ben altra portata.

Lenin parlò l'ultima volta dalla tribuna dell'Internazionale, già in­fermo, il 13 novembre 1922, al IV Congresso. Vi sono alcune note pessimiste, nel suo discorso, dove i problemi del movimento interna­zionale sono però appena toccati. Egli parla di una risoluzione del III Congresso, sulla struttura, sulla organizzazione e sui metodi di lavoro dei partiti comunisti e la critica vivacemente, «perché è troppo russa». Giunge persino a dire che con quella risoluzione «ci siamo noi stessi tagliata la strada verso ulteriori successi» e ciò nonostante che tutto quel che vi è detto sia giusto. «Tutto ciò che dice», però, «è rimasto lettera morta» e bisogna comprenderne il perché, se no, «non potremo avanzare oltre».

Si è poco lavorato attorno a queste parole di Lenin, riducendole di solito a una critica soltanto esteriore di un documento che non sareb­be stato reso abbastanza comprensibile ai «compagni stranieri». È certo che Lenin pensava che questi compagni dovevano ancora digerire «un buon pezzo di esperienza russa», ciò ch'egli aveva cercato di far loro compiere e col suo Estremismo e con tutta la sua azione. Non si sfugge però all'impressione, anzi, credo sia certo che egli pensasse a un movimento comunista che, avendo digerito l'esperienza russa, fosse capace in ogni paese di svilupparsi secondo le condizioni, profondamen­te diverse dall'uno all'altro, che in ognuno di essi si presentavano.

E bisogna aggiungere che egli aveva fatto il necessario perché sulla strada da lui segnata, ciò si potesse realizzare.

V

Si può discutere se, mancata la direzione di Lenin, l'opera di forma­zione e guida dei partiti comunisti e dei loro gruppi dirigenti e la lotta per una giusta valutazione delle situazioni e per una politica che ad esse aderisse vennero condotte con la stessa precisione di giudizi, con la stessa energia ed efficacia che ai tempi di Lenin. Cambiarono gli uomini, molti metodi di direzione e di lavoro cambiarono; vi fu pro­babilmente minor profondità di analisi e sicurezza di conclusioni; vi furono, anche alla sommità, aspri contrasti di correnti, soprattutto in relazione con le lotte condotte nel Partito comunista sovietico contro le frazioni di opposizione. Questi contrasti si legarono spesso a lotte di frazione nei singoli partiti. A coloro che si soffermano su questi episodi e ad essi tutto riducono, bisogna però ricordare che quelle lotte furono necessarie, indispensabili, e che, nell'Internazionale, l'azione ini­ziata da Lenin venne condotta avanti con successo. La campagna per la «bolscevizzazione» dei partiti, che avrebbe precisamente dovuto ser­vire a far «digerire» ai compagni stranieri «un buon pezzo di espe­rienza russa», ebbe, di fatto, una portata assai più grande. Paese per paese, essa servì a condurre avanti la formazione dei partiti e dei loro quadri dirigenti, eliminando uomini e gruppi refrattari a una seria assi­milazione dei principi marxisti e leninisti restii alla disciplina e ai meto­di di lavoro di un partito rivoluzionario. Gli obiettivi contro cui si dovette colpire furono quindi diversi da una sezione all'altra, a seconda delle tradizioni e condizioni locali, ma l'obiettivo di «andare alle mas­se» fu dappertutto quello sul quale venne concentrata l'attenzione. Al­cuni partiti incominciarono ad assumere, attraverso questa campagna, il carattere di veri partiti di massa e ciò era indispensabile, nella nuova situazione che si stava creando.

Quanto all'esperienza russa ciò che servì più di ogni altra misura a farla «digerire» fu proprio l'attiva partecipazione alle discussioni e lotte sviluppatesi nel partito bolscevico. I dirigenti non russi furono costretti allo studio più attento della storia di questo partito, delle prospettive della rivoluzione, dei problemi economici e politici della dittatura proletaria e dell'edificazione socialista. Il progresso politico che se ne ebbe fu enorme e anche se l'aspra lotta della frazione trotskista e dei suoi alleati contro il Comitato centrale del partito sovietico si trasferì all'interno di parecchie sezioni dell'Internazionale, ciò non recò danno al movimento, al contrario. Rievocando oggi, a distanza di tanti anni, il passato, non si riesce a trovare un caso dove la rottura con un gruppetto trotskista non sia stata cosa utile. In questi gruppetti si ritrovarono uomini di cui presto o tardi ci si sarebbe dovuti liberare, piccoli borghesi disorientati, falsi teorici pieni di pretese, dottrinari od opportunisti incorreggibili e anche peggio.

Il movimento venne poi, tra il '24 e il '30-31, spostando il suo centro di gravità. La Germania continuò ad avere la sezione più forte e su cui gravavano le più gravi responsabilità, ma i paesi latini, Francia e Spagna, incominciarono ad assumere maggior peso, mentre in altri paesi i partiti erano perseguitati e illegali. Un vero balzo in avanti, che trasformò la situazione e aprì prospettive di nuova ampiezza storica, venne fatto in Asia, dove il partito comunista cinese, sorto nel 1921 con forze esigue, divenne in pochi anni una forza politica di primo piano e si collocò al centro della situazione del paese. L'Internazionale discusse a lungo i suoi problemi e contribuì a precisarne la strategia e la tattica. Il partito cinese fu però quello che più presto di tutti gli altri imparò a muoversi in modo autonomo sulla via marxista e leninista, studiando la situazione del suo paese, adeguando ad essa le sue azioni, correggendo coraggiosamente i suoi errori, accumulando in un non grande numero di anni un'esperienza tale e una tale capacità di lotta che dovevano consentirgli, dopo la seconda guerra mondiale, di toccare la vittoria, conquistare il potere e marciare con sicurezza verso il socialismo.

Il fatto più importante di questo periodo fu però il mutamento della situazione oggettiva. Essa venne correttamente segnalata dal V Congresso [3], che mantenne però ancora aperta la prospettiva di un nuo­vo possibile rapido sviluppo rivoluzionario, e poi, dal VI [4], che elaborò la divisione in «tre periodi»: della crisi acuta dell'immediato dopo­guerra, della stabilizzazione relativa e un terzo, nel quale era previsto un nuovo aggravamento delle contraddizioni del capitalismo e una nuo­va ascesa del movimento delle masse. La divisione è, sostanzialmente, giusta e dovrà essere tenuta presente per una periodizzazione della storia dell'Internazionale. Quanto alla previsione, fatta nel 1928 di un nuovo aggravamento della situazione del capitalismo, essa fu confermata in modo clamoroso dallo scoppio della crisi economica del 1929. Ciò che si può criticamente osservare è che la tesi dell'inizio di un «terzo pe­riodo» non sempre e non in tutti i partiti fu presa, giustamente, come la semplice premessa alla ricerca delle particolari modificazioni concrete che stavano maturando in ogni luogo, ma fu talora intesa in modo schematico, prendendo il posto della ricerca concreta. Anche sul piano internazionale, la nuova ondata del movimento delle masse doveva assu­mere un contenuto e un carattere tali che la resero del tutto diversa, nei suoi sviluppi, da quella del dopoguerra immediato e ciò, all'inizio, non venne compreso bene. La situazione internazionale era assai compli­cata: vi erano profonde diversità da un paese all'altro, il fascismo già dominava una parte dell'Europa, e la costellazione uscita dalla pace di Versailles appariva oramai profondamente minata e destinata a crol­lare. Gli ultimi tentativi (dell'imperialismo inglese) di riaprire il con­flitto armato con l'Unione Sovietica fallivano, mentre il piano di indu­strializzazione del paese socialista era rapidamente avviato al successo. Nello stesso tempo la nuova forza aggressiva sorta dal seno dell'imperia­lismo, il fascismo, creava e rendeva acuti nuovi contrasti, apriva, seb­bene ancora lontana, la prospettiva di nuovi conflitti armati e allo stesso movimento operaio e popolare presentava problemi e compiti del tutto nuovi, di difesa degli ordinamenti democratici e di unità nella lotta contro il nemico comune.

Si può dire che le posizioni e l'azione dell'Internazionale comu­nista, in questo momento, in cui si era all'inizio di una svolta della politica mondiale, siano state del tutto giuste e tempestive, oppure non vi fu un ritardo nel comprendere l'importanza di alcuni fatti nuovi e quindi un evidente ritardo nella determinazione di una giusta linea politica? La mia opinione è che un ritardo e degli errori vi furono, e si manifestarono principalmente nella non tempestiva e completa va­lutazione della minaccia fascista e quindi in una errata impostazione dei problemi dell'unità d'azione e della posizione da prendersi nei con­fronti dei partiti socialdemocratici.

L'errore più serio ritengo sia stata la definizione della socialdemo­crazia come socialfascismo, ed errate furono le conseguenze politiche che ne derivavano. È verissimo che i capi socialdemocratici erano giunti sino a combattere e schiacciare il movimento rivoluzionario di massa con le armi, così come facevano i fascisti. È altresì vero che si potevano trovare punti di contatto tra l'ideologia dei riformisti, fautori della colla­borazione di classe, e alcune posizioni ideologiche difese dai fascisti. Ma la natura sociale dei due movimenti era profondamente diversa. Dietro ai fascisti vi erano i gruppi più reazionari del capitale. I capi riformisti si collegavano invece a gruppi di altra natura, ancora legati a una certa tradizione di democrazia e a un pacifismo di natura borghese. Diversa era la base di massa dei due movimenti: nelle organizzazioni dirette dai riformisti vi era ancora, in molti paesi, la maggioranza degli operai e dei lavoratori e contro queste organizzazioni, per distruggerle, si rivolgeva la violenza dei fascisti. Ma importante soprattutto era di comprendere a tempo la prospettiva che veniva aperta dall'avanzata del fascismo. Essa era la prospettiva di un attacco distruttivo di tutte le istituzioni e tutte le libertà democratiche. Parlare di socialfascismo significava, in sostanza, ammettere che questo scopo fosse comune anche ai capi riformisti e alla socialdemocrazia come tale, il che era una con­troverità, perché invece doveva avvenire e avvenne che una parte, e tutt'altro che trascurabile, della socialdemocrazia, si schierò a difesa degli istituti democratici. La definizione di socialfascismo esprimeva il profondo risentimento di quella parte del movimento operaio che in molti paesi d'Europa, ma soprattutto in Germania, si era vista cac­ciata indietro dal tradimento, dalla perfidia e dalla violenza dei capi socialdemocratici. Era un risentimento giustificato e, come qualifica, molti di questi capi ne meritavano anche di peggiori. Ma, come posizione politica essa corrispondeva allo sbaglio, purtroppo consueto, di non saper distinguere cose diverse e, peggio ancora, di postulare il ravvi­cinamento di forze che l'interesse del movimento operaio e comunista era di tener distinte, separare e contrapporre l'una all'altra. Nell'interno stesso della socialdemocrazia, infine, veniva ostacolata una differenzia­zione tra i nemici dell'unità e veramente simpatizzanti col fascismo (De Man, Dèat, ecc.), e coloro che invece incominciavano a capire la necessità di una lotta antifascista unitaria e decisa.

Naturalmente, l'unità di azione con le masse socialdemocratiche e con le loro organizzazioni diventava, sulla base di questa dottrina, assai difficile, riducendosi a casi sporadici, che non modificavano la situazione, e il peggio è che si diffusero in molti partiti quelle forme di dommatismo e di settarismo contro cui il compagno Dimitrov con­dusse una lotta aperta al VII Congresso. Dopo il VI Congresso la lotta interna fu infatti condotta quasi esclusivamente «contro la tendenza a un adattamento opportunista alle condizioni della stabilizzazione e contro il contagio delle illusioni riformiste e legaliste» (Dimitrov). Il settarismo, non combattuto con efficacia e in parte favorito dalla definizione della socialdemocrazia come socialfascismo, diventò «un vi­zio radicale» (Dimitrov) dal quale bisognava liberarsi ad ogni costo, se si voleva arrivare a un fronte unico proletario che fosse tanto ampio ed efficace da fare ostacolo all'avanzata sempre più minacciosa del fasci­smo e al pericolo, che incominciava a precisarsi, di un terzo conflitto mondiale.

È mia opinione che anche la definizione della politica comunista come politica di «classe contro classe» fosse sostanzialmente errata e la fonte di pericolose chiusure settarie. La nostra è la politica della classe operaia in lotta per la democrazia e il socialismo, ma la capa­cità del partito comunista consiste proprio nel saper isolare, anche nella classe borghese, i gruppi più reazionari, attraverso un vasto e mobile sistema di alleanze, convergenze, neutralizzazioni e cosi via.

La correzione fu imposta dalle stesse cose, e prima di tutto dal tragico esempio dell'avvento al potere di Hitler, in Germania, con l'ap­poggio di ingenti masse elettorali, che la politica reazionaria dei capi socialdemocratici aveva respinto, ma non avevano potuto essere convo­gliate in una azione unitaria per la difesa della democrazia, data l'insupe­rabile profondità della scissione del movimento operaio e l'assenza di un'azione unitaria coronata da successo. Enorme fu la commozione su­scitata in tutto il movimento operaio dagli avvenimenti tedeschi e la necessità assoluta di una lotta antifascista unita penetrò nella coscienza delle masse. L'Internazionale comunista e i suoi partiti furono al loro posto di combattimento, su posizioni giuste, non dimenticando la critica ai partiti socialdemocratici per la loro responsabilità nell'avvento del fascismo, ma al di sopra di tutto combattendo perché una solida unità di azione si organizzasse in tutti i paesi che il fascismo minacciava o opprimeva. Le posizioni che facevano ostacolo al raggiungimento di questo compito furono senza serio ostacolo superate e nella nuova ulti­ma fase della sua esistenza, l'Internazionale fu presente come una vera potenza mondiale, orientando e in parte guidando direttamente un for­midabile movimento unitario, che si estese, nelle adeguate forme, a tutte le parti del mondo.

VI

Quando si riunì il VII e ultimo nostro Congresso, nel 1935, la disposizione delle forze, nel campo operaio, era già radicalmente cam­biata. Ciò sta a dimostrare quanto grande fosse diventata la capacità dei partiti comunisti di muoversi a seconda delle situazioni. In Francia già esisteva l'unità di azione tra socialdemocratici e comunisti ed era in formazione il fronte popolare. La rivolta dei minatori delle Asturie, in Spagna, aveva portato all'avvicinamento ai comunisti di tutta un'ala del partito socialista. In Austria operai comunisti e socialdemocratici avevano combattuto uniti. Un patto di unità di azione univa comunisti e socialisti italiani. In Cina, giungeva al termine la serie delle infortu­nate spedizioni di Chiang Kai-shek contro il governo e l'esercito comuni­sta, e si poneva con urgenza la questione dell'unità di tutte le forze nazionali contro l'aggressione dell'imperialismo giapponese. Il valore del congresso sta nel fatto che si pose e assolse il compito di genera­lizzare questa esperienza unitaria che si stava compiendo, che diede ad essa un solido fondamento di principio e tracciò, su questa base, una linea di sviluppo strategico di portata mondiale. Ancora oggi, quan­do si rievocano le circostanze che precedettero il secondo conflitto mon­diale, la perfidia dei governanti borghesi, soprattutto, che, non senza l'appoggio social­democratico, agirono senza scrupoli per scaricare sul­l'Unione Sovietica l'aggressione fascista, quando si ricordano la confu­sione e i pericoli dei primi anni di guerra e come la soluzione alfine venne trovata nell'unità delle forze democratiche e antifasciste; quando si sente dalle più diverse parti esaltare o imprecare a questa unità, perché da essa scaturì la vittoria, si deve riconoscere che, se è vero che la strategia unitaria fu quella che consentì di schiacciare la barbarie fascista, questa strategia venne elaborata e proposta al mondo dalla Internazionale comunista, nel suo VII Congresso.

Le premesse si trovano, senza dubbio, nell'attività precedente del­l'Internazionale e non solo riguardo al problema del fronte unico. Il tentativo che già era stato fatto, di derivare dall'esistenza del fronte unico la rivendicazione di un governo operaio (o operaio e contadino) venne da Dimitrov stesso richiamato come un precedente. Analogamen­te, infatti, si passava ora dall'esistenza di una tanto ampia unità di azione alla rivendicazione di un governo del fronte unico proletario o del fronte popolare antifascista. La rivendicazione era però fondata, questa volta, sulla dimostrazione che il fascismo non era una qualsiasi sostituzione di un governo con un altro, ma era il cambiamento di una forma statale, la democrazia borghese, con una dittatura terrori­stica. I comunisti non solo non ignoravano la distinzione, ma si schie­ravano a difesa del regime democratico, «prendevano nelle loro mani la bandiera della democrazia». Ciò apriva la strada alle alleanze e alle collaborazioni, a patto però che i socialdemocratici e i politici della borghesia non fossero messi tutti in un sacco, ma si differenziasse tra di loro e si agisse di conseguenza. L'indirizzo non era dunque più sol­tanto di tattica, ma di strategia. In una situazione nuova, che Lenin non poteva prevedere, i principi della politica rivoluzionaria da lui au­spicati e descritti erano applicati con ampiezza di vedute e coraggio di propositi e prospettive, senza nulla abbandonare delle basi della no­stra dottrina, anzi, confermando coi fatti che queste basi sono assoluta­mente giuste, perché esse soltanto, e non la confusione opportunistica dei socialdemocratici, lo smarrimento dei democratici borghesi o le stra­vaganze degli anarchici consentivano ai comunisti di offrire a tutti co­loro che volevano combattere il fascismo e impedire la guerra una piatta­forma di unità e di azione che nel fuoco di lotte assai dure confermò la sua necessità e la sua efficacia.

L'esame oggettivo delle decisioni del VII Congresso distrugge sen­za residui la calunnia di coloro che amano presentare il movimento comunista come legato dall'inizio alla fine a posizioni stereotipe, inca­pace di comprendere le novità e il corso delle cose e di staccarsi dalle formule d'un tempo. Su parecchie questioni di fondo il Congresso tenne conto della nuova realtà tanto da modificare, senza esitazioni, alcune precedenti tesi dei comunisti. Circa il problema della guerra venne, prima di tutto, accolta e dimostrata giusta e necessaria la parola d'ordine della lotta per la pace e della difesa della pace, a differenza di ciò che era stato fatto durante la guerra del 1914; in secondo luogo, venne per la prima volta considerata la possibilità che una nuova guerra impe­rialista potesse venire evitata, costituendosi un tale blocco di forze che facesse andare indietro l'aggressore. Nell'un caso e nell'altro si teneva conto che nella costellazione delle potenze mondiali si era inserita la formidabile realtà dell'Unione Sovietica, con la sua industria socialista, con la sua agricoltura collettivizzata, con tutta la realtà delle sue forze. Circa il problema del governo e dello Stato, la partecipazione dei comu­nisti a un potere che non fosse la dittatura proletaria, venne ammessa, dimostrata giusta e sollecitata. Nulla di comune, naturalmente, col vec­chio collaborazionismo attuato dai socialdemocratici per mettere un fre­no al movimento delle masse e impedire una rivoluzione. I comunisti volevano partecipare al potere per annientare il fascismo e salvare la democrazia. Essi dicevano però apertamente che gli ordinamenti demo­cratici non si sarebbero potuti salvare e sviluppare se non acquistavano un contenuto nuovo, che doveva essere dato loro dall'adesione delle masse popolari e da riforme politiche ed economiche tali che tagliassero alla reazione e al fascismo le loro radici. Sorgeva in questo modo il concetto di una democrazia di nuovo tipo, e nessuno può rimproverare ai comunisti, che lottano per attuare il socialismo, se essi pensavano a uno sviluppo democratico che andasse in questa direzione. Di fronte all'aridità e viltà del pensiero politico dei socialdemocratici, che all'unità antifascista vennero per lo più trascinati contro voglia e alla prima occasione tradirono i patti che avevano giurato, e che, di fronte agli sconvolgimenti che mettevano a soqquadro i vecchi ordinamenti politici e sociali, non seppero tirar fuori altro, alla fine, che la «dottrina» della necessità di governare per conto della borghesia, per cedere a questa, infine, tutto il comando, l'Internazionale comunista sviluppava con coraggio la dottrina del potere, apriva al movimento delle masse democratiche prospettive di vittoriosa avanzata, legava direttamente la lotta contro il fascismo e per la pace alla necessità di rinnovare le strutture del mondo capitalistico. Gli sviluppi della azione politica dei comunisti negli anni successivi alla guerra erano già impliciti in queste posizioni.

Si comprende agevolmente perché la politica del VII Congresso ebbe una così vasta ripercussione in tutti i continenti e fece fare al movimento comunista un enorme balzo in avanti, analogo a quello com­piuto nei primi anni dopo il 1919. Essa era quella guida di cui la classe operaia, le masse democratiche e i popoli sentivano, in quel mo­mento, di avere bisogno. Questa volta, però, il balzo in avanti veniva fatto da partiti che avevano acquistato, attraverso una scuola quasi ven­tennale, omogeneità e compattezza interiori, che si erano impadroniti dei principi del marxismo e del leninismo, che avevano «digerito» una parte sempre più grande dell'esperienza russa, che si erano liberati di molta zavorra opportunista, frazionista, carrieristica, che si erano in buona misura «bolscevizzati». Le discussioni, le elaborazioni teo­riche, la propaganda, l'azione politica e le lotte interne di due decenni avevano preparato il terreno. In Spagna e in Francia, in Cina e nelle Americhe furono raccolti i frutti. E non è senza interesse notare che questo fu un periodo in cui i contrasti interni e gli urti di frazione, che in precedenza erano stati frequenti e pesanti, vennero quasi comple­tamente a mancare, e il funzionamento democratico dei partiti fu nor­male, nella maggiore parte dei casi. La giusta linea politica consolidava la organizzazione e risanava la vita interna, come sempre avviene. Tutti i partiti compirono uno sforzo particolare per avvicinarsi maggiormente alla realtà del loro paese, per rendersi conto delle tradizioni progressive del movimento popolare e impadronirsene, per superare il nichilismo nazionale e acquistare quel giusto senso della nazionalità senza il quale la classe operaia non può aspirare alla direzione di tutte le masse lavora­trici e del paese. Fu una preparazione ai compiti che si presentarono durante la guerra, quando i partiti comunisti, ponendosi alla testa della lotta contro il fascismo, furono anche i migliori rappresentanti della nazione e acquistarono quell'impronta di partiti nazionali che nessuno riesce a togliere loro o a contestare.

Un problema storico assai difficile, per noi, è quello delle ingiuste repressioni che in questo periodo ebbero luogo per colpa di Stalin nel­l'Unione Sovietica e colpirono anche i dirigenti di qualche partito (po­lacco, jugoslavo), che ne soffrì profondamente nel suo sviluppo. I com­pagni sovietici hanno ora coraggiosamente denunciato l'ingiustizia di quelle repressioni e le hanno esplicitamente condannate. Il problema che rimane aperto è del modo come esse potessero coesistere con una azione politica così ampia, aperta e giusta, quale venne condotta dall'In­ternazionale comunista proprio in quegli anni, e alla determinazione della quale anche Stalin partecipò, e in primo piano, come tutti ben comprendono. La mia opinione, che ho del resto già espressa, è che sia esistita, nello stesso Stalin, una seria difficoltà di comprendere come, dopo i due grandi successi della costruzione economica socialista, sorge­vano problemi e contraddizioni nuove, non spiegabili con la diffusa presenza di «nemici del popolo» e non risolubili con misure che viola­vano le norme della democrazia socialista, così ampiamente sancita nella Costituzione del 1936. Altrimenti il fatto non si spiega, se non come una delle così profonde contraddizioni del temperamento di quest'uomo, e forse anche come una aberrante manifestazione dei tragici contrasti che agitarono l'Europa in quel periodo, alla vigilia della guerra, quando caddero assassinati re, presidenti di repubblica e ministri, e sotto la lotta politica si svolgeva un'altra lotta più feroce, nella quale era facile perder la testa e commettere gli errori più gravi.

Il VII Congresso aprì un periodo nuovo nella storia delle relazioni tra gli organi dirigenti centrali e i singoli partiti. La mia opinione è che anche precedentemente, e in momenti importanti, era venuta alla luce la impossibilità che da un centro si esercitasse una guida operativa sull'attività che si svolgeva in paesi vicini e lontani. Il consiglio opera­tivo non era mai pienamente aderente alla situazione in sviluppo, o non era compreso, o arrivava tardi, o non poteva nemmeno giungere a chi stava combattendo. Non appena i partiti si furono alquanto conso­lidati, essi cercarono di muoversi da sé, alle volte respingendo i consigli. Valga l'esempio del nostro partito, a cui nel 1924 era venuto, dall'In­ternazionale, il consiglio di non abbandonare l'assemblea dell'Aventino, e invece volle fare di testa sua, e l'abbandonò. Con lo sviluppo del movimento, apparve sempre più evidente che ciò che importava era la propaganda tenace della nostra dottrina, il giusto indirizzo generale, una agitazione che servisse a farlo capire e a renderlo popolare, e la cura dei contrasti interni, che del resto finivano tutti per dibattersi davanti a un consesso internazionale. Ciò che importava soprattutto era che i quadri dirigenti dei partiti fossero in possesso dei principi del marxismo e del leninismo e si sapessero orientare da sé circa le questioni dei loro paesi. Quando il movimento, a partire, approssima­tivamente, dal 1934, prese uno sviluppo più ampio, e soprattutto al VII Congresso e in seguito, apparve che mentre il movimento delle masse acquistava dimensioni senza precedenti, questa condizione si sta­va sempre meglio realizzando, e diventava impossibile e persino assurdo che si pensasse di poter esercitare, da un centro unico, una vera azione di direzione. I partiti comunisti dovevano diventare con le forze loro un fattore politico del loro paese e quindi sapersi muovere in modo autonomo, a seconda del corso degli avvenimenti, delle svolte, dei suc­cessi e degli insuccessi. Nelle decisioni del VII Congresso era quindi già implicita, in un certo senso, la decisione di scioglimento che venne presa nel 1943, quando venne dichiarato apertamente che la precedente forma di organizzazione centralizzata non corrispondeva più alla situa­zione e allo stato del movimento.

Il fatto che nel 1943 potè essere presa quella decisione valorizza in modo eccezionale tutto il precedente lavoro e tutto il cammino per­corso, per quanto sia stato lungo, difficile, a volte tortuoso. Si pensi che nel 1943 già si era avuta la gloriosa esperienza del partito spagnuolo, vera guida della battaglia per la repubblica e l'indipendenza nazionale. Si era avuta l'esperienza del fronte popolare francese, di cui i comunisti furono sino all'ultimo animatori. Si combatteva, in Cina, una guerra di liberazione nella quale i comunisti, di fatto, dirigevano tutte le forze nazionali. In Jugoslavia, la bandiera della riconquista della indipendenza, era nelle mani dei comunisti. In Italia, in Francia, in Belgio, in tutta l'Europa invasa dai fascisti i comunisti si stavano po­nendo alla testa della Resistenza e poi della lotta armata contro gli invasori. Coloro che si maravigliano che, finita la seconda guerra mon­diale, i partiti comunisti siano giunti in pochi anni al governo in tanti Stati, dalla Cina alla Polonia, ai paesi danubiani e balcanici e alla Repub­blica democratica tedesca, dovrebbero volgere un istante lo sguardo a ciò che i comunisti fecero anche solo nella lotta contro il fascismo, prima e durante la guerra. Il posto che noi oggi occupiamo nel mondo è stato conquistato a prezzo di sacrifici ed eroismi inauditi, muovendosi su una giusta linea politica, combattendo per il bene di tutta l'umanità. Anzi, il posto che ci spettava era più esteso assai, e quello che ci è stato tolto ce lo dovremo e sapremo riconquistare.

Ciò che oggi è il movimento comunista lo si deve a uno sviluppo oggettivo delle contraddizioni del capitalismo, alla prima rottura della catena dell'imperialismo che fu realizzata nel 1917, alle successive dram­matiche vicende della crisi generale del sistema capitalistico. Le condi­zioni oggettive, però, creano soltanto le premesse del movimento, che si afferma, si disciplina, si rafforza, avanza e vince soltanto grazie alla consapevole azione di una avanguardia organizzata. L'Internazionale co­munista fu questa avanguardia, e lo stesso stato attuale del mondo conferma che ha saputo adempiere il suo compito, quale Lenin le aveva proposto. Ad alcuni potrà sembrare strano che in alcuni paesi, dove nel passato era stata conquistata una notevole influenza tra le masse, oggi questa sia andata perduta, o quasi. Altre ricerche dovrebbero farsi per stabilire come ciò sia accaduto, ma non si può negare che questa disparità di sviluppo nei singoli paesi è sempre esistita, e se per una parte si può far risalire a difetti di orientamento e di lavoro per la maggior parte essa segnala trasformazioni oggettive, che anzitutto biso­gna saper comprendere. L'essenziale è che oggi sono in movimento, dietro la guida dei comunisti, masse di centinaia di milioni di uomini, e che i comunisti, pur lavorando e combattendo, da un paese all'altro e dall'uno all'altro continente, in condizioni così diverse, sono uniti da una dottrina rivoluzionaria, da una solidarietà internazionale infran­gibile, dalla comunità dei grandi obiettivi per cui combattono e dalla disciplina che è propria delle avanguardie della classe operaia. L'Interna­zionale comunista, come organizzazione, non c'è più, ma è viva l'ope­ra sua.



[1] Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg.
[2]Giugno-luglio 1921.
[3]Febbraio-marzo 1924.
[4]Luglio-settembre 1928.