Il dibattito sul fascismo


Dall'opera di V.M Lejbzov e K.K. Širinja,
Il VII Congresso dell'Internazionale comunista,
Editori Riuniti, marzo 1975 pp. 91-111


Il fascismo avanzava e opprimeva già sotto la sua dittatura i la­voratori di molti paesi, minacciando di invadere tutta l'Europa e di estendersi ad altri continenti. La via del movimento operaio interna­zionale, la via dello sviluppo e del progresso di tutta l'umanità era sbarrata da questo pericoloso e spietato nemico.

Di fronte ai comunisti si poneva il problema di valutare obietti­vamente il nemico com'era nella realtà, di scoprire con implacabile realismo le basi su cui si poggiava, di chiarire dove era la sua forza e la sua debolezza. Il problema del fascismo era uno dei problemi centrali del congresso, a cui fu dedicato uno speciale rapporto di Dimi­trov; ma venne affrontato anche in tutte le altre relazioni e nella maggior parte degli interventi dei delegati. Che cosa è il fascismo, qual è la sua natura di classe, su quale base di massa si poggia, che cosa rappresenta la sua ideologia, quali sono i suoi metodi di lotta, le sue contraddizioni interne, fino a che punto è reale il pericolo di una vittoria del fascismo in questo o in quel paese? Dare una risposta a questi problemi era tanto più necessario, in quanto non tutti i partiti comunisti, neppure dopo i burrascosi avvenimenti degli anni 1933-1934, erano unanimi nel giudicare la minaccia fascista. In modo diverso venivano valutati i diversi aspetti del fascismo e dei movimenti che esso tentava di controllare.

La classe operaia si era scontrata per la prima volta con il fascismo all'inizio degli anni venti. Sin da allora, dopo la conquista del potere da parte del fascismo in Italia, l'Internazionale comunista aveva prestato grande attenzione al pericolo fascista e cercato di definire la posizione del fascismo nella lotta politica. In quel periodo il fascismo non aveva ancora raggiunto le forme che, più tardi, avrebbero fatto inorridire il mondo intero, ed evidentemente i partiti comunisti non avevano potuto dare una esatta caratterizzazione del fenomeno appena sorto. Tuttavia sin dagli anni 1922-1923 il Comintern aveva illustrato in modo sostanzialmente giusto i tratti e le caratteristiche del fascismo. Il IV Congresso del Comintern (novembre-dicembre 1922) e il III Plenum allargato dell'EIC (giugno 1923) avevano sottolineato che il fascismo era lo strumento della reazione più estrema o della contro­rivoluzione nell'epoca della disgregazione del sistema capitalista, che il fascismo era uno strumento nelle mani del grande capitalismo. «È l'ultima carta nel giuoco della borghesia», nella sua lotta contro la rivoluzione in cammino. Il fenomeno del fascismo era strettamente connesso alla volontà della controrivoluzione borghese di salvare il regime del capitale in una nuova epoca storica e al grave inasprimento delle contraddizioni di classe. Era stata data una esatta definizione di un altro aspetto del fascismo: il suo carattere terroristico aperto, il suo poggiare su organizzazioni controrivoluzionarie armate fino ai denti, il cui scopo era quello di soffocare ogni aspirazione rivoluzionaria del proletariato e ogni tentativo degli operai di migliorare la loro situazione. Nelle risoluzioni del IV Congresso del Comintern, il fasci­smo veniva valutato come aperta forma di dominio della reazione bianca.

Sottolineando il carattere controrivoluzionario del fascismo, i suoi metodi terroristici di lotta, il Comintern rilevava altresì il carattere particolare della composizione sociale del movimento fascista, sorto dalla distruzione delle precedenti condizioni di vita di enormi masse di ceti medi e dalla loro rovina. Sono questi ceti, affermava la risolu­zione del III Plenum allargato dell'EIC, che il fascismo ha tentato di conquistare con una sfrenata demagogia sociale e con l'agitazione sciovinista.

Il V Congresso (giugno-luglio 1924) già distingueva chiaramente i due problemi: quello della natura di classe del fascismo e quello della composizione sociale del movimento fascista di massa. Il con­gresso adottò una risoluzione speciale, Sul fascismo, in cui si affer­mava: «Il fascismo rappresenta lo strumento di lotta della grande borghesia contro il proletariato, che non è capace di piegare con le leggi dello Stato; esso è uno strumento illegale di lotta a cui la borghesia ricorre per attuare e rafforzare la sua dittatura»; e più in là: «[...] per la sua composizione sociale il fascismo deve essere visto come un movimento piccolo-borghese. Esso affonda le sue radici soprattutto tra quei ceti medi borghesi che la crisi capitalista condanna alla distruzione e tra gli elementi declassati dalla guerra, come gli ex-ufficiali, ecc., nonché tra alcuni elementi del proletariato, delusi ed esasperati dall'aspettativa riposta invano nella rivoluzione».

Nella sua dettagliata analisi del fascismo il V Congresso trascurò tuttavia una deduzione teorica importantissima, a cui era giunto il precedente congresso, quando aveva indicato che il fascismo, come aperto dominio della reazione bianca, combatte non solo il proletariato ma «dirige contemporaneamente la sua azione contro le basi della democrazia borghese nel suo insieme». Un'esatta valutazione delle contraddizioni tra il fascismo e la democrazia apriva ai partiti comunisti la possibilità di conquistare alla classe operaia vaste masse pronte a combattere il fascismo per difendere la democrazia borghese. Poco dopo il IV Congresso del Comintern, questo concetto fu sviluppato da Dimitrov nel Partito comunista bulgaro. Quando, dopo il colpo di Stato del 9 giugno 1923 si pose al partito l'obiettivo di rovesciare la dittatura fascista, egli affermò: «Si ingannano seriamente coloro che pensano che il fascismo è diretto esclusivamente contro il cosiddetto pericolo comunista. Essi pagheranno caro il loro errore, [...] la loro miopia politica. Il fascismo non è solo anticomunista, è anche antipo­polare». Dimitrov proponeva di unire contro il fascismo tutto ciò che vi era «di onesto e di democratico». Questa idea non fu però sviluppata negli anni seguenti; anzi fu quasi dimenticata con la pene­trazione nel movimento comunista di tendenze settarie.

Nello stesso periodo emersero errate interpretazioni del fascismo e delle sue caratteristiche fondamentali. Nelle risoluzioni del III Ple­num allargato dell'EIC e del V Congresso dell'Internazionale comuni­sta, accanto ad importanti conclusioni sulle differenze tra natura di classe e base sociale del fascismo, affioravano posizioni ed accenti non del tutto esatti, poiché l'attenzione si era soprattutto concentrata sulla composizione sociale del movimento fascista. Questo aveva lasciato un certo spazio alla diffusione di tesi sulla sedicente natura piccolo-borghese del fascismo. Si affermava erroneamente che nel fascismo, «nel suo interno vi sono anche tendenze rivoluzionarie», in virtù del carattere piccolo-borghese della sua base di massa. Ne derivavano speranze eccessive sulla esistenza di contraddizioni interne nel fascismo, si parlava addirittura di un processo di «disgregazione del fascismo». Durante il V Congresso del Comintern vennero espresse formulazioni con cui i movimenti piccolo-borghesi e la socialdemocrazia venivano, sotto certi aspetti, paragonati al fascismo, come «mano destra e mano sinistra del capitalismo contemporaneo». Si considerava che nel «gra­duale processo di disgregazione della società borghese, tutti i partiti borghesi e in modo particolare la socialdemocrazia acquistano un carat­tere più o meno fascista». Con questo si rinnegava, in sostanza, la posizione del IV Congresso sulle contraddizioni tra fascismo e demo­crazia borghese, ciò che condannava a dannose chiusure la tattica dei partiti comunisti e negava loro la possibilità di conquistare alleati.

La risoluzione del V Congresso conteneva inoltre l'affermazione che «il fascismo, dopo la sua vittoria, va verso il fallimento che gene­rerà la sua disgregazione interna». Con questo ci si avvicinava alla nefasta teoria secondo la quale il fascismo accelererebbe il processo rivoluzionario e sarebbe, in generale, una fase inevitabile del processo di disgregazione del regime capitalista, e secondo la quale la via verso la vittoria contro il regime di sfruttamento passa proprio attraverso questa fase di decadenza. Tali posizioni, ad esempio, furono per un certo tempo sostenute nel Partito comunista tedesco dal gruppo settario estremista di Neumann-Remmele, e contro di esse appuntò le sue cri­tiche l'XI Plenum dell'EIC. Simili a queste erano le formulazioni secon­do cui sarebbe appunto la dittatura fascista a minare nel proprio paese il terreno per le rivoluzioni, e secondo cui sono i governi più reazionari che spesso preparano il terreno alle più grandi rivoluzioni. Benché queste opinioni non fossero prevalenti nei partiti comunisti, circolavano tuttavia, disorientando gli operai.

Nonostante un certo settarismo di alcune risoluzioni del Comin­tern, esse nel loro insieme si distinguevano per la loro irremovibile volontà di lottare contro il fascismo e di sconfiggerlo. Il Comintern e i partiti comunisti hanno visto sempre nel fascismo uno strumento della borghesia, un nemico mortale della classe operaia.

Per una più profonda valutazione del carattere rivoluzionario ed intransigente delle risoluzioni del Comintern contro il fascismo basta confrontarle con quelle della socialdemocrazia e dei trotskisti. Nella seconda metà degli anni venti, la valutazione del fascismo come dittatura della piccola borghesia era quella più corrente nella stampa dei partiti socialdemocratici, nelle pubblicazioni dei suoi ideologhi e pubblicisti, nei documenti ufficiali. Particolarmente pericoloso era il fatto che tali valutazioni venivano propagandate in molti paesi dove il fascismo era già all'offensiva. Il teorico dei laburisti inglesi, Brailsford, vedeva nel fascismo tedesco un «partito spiccatamente piccolo-borghese», che combatte «la minaccia che proviene dal grande commercio». Il Daily Herald, organo ufficiale del Partito laburista inglese, anche dopo l'avvento del fascismo in Germania e nel momento stesso della sua offensiva terroristica contro gli operai di avanguardia, parlava delle «aspirazioni socialiste» piccolo-borghesi dei nazisti, che sono «una maledizione per i grandi proprietari terrieri, per i grandi industriali e gli ambienti finanziari». I leader socialdemocratici tedeschi si rifiutavano di vedere nel movimento hitleriano uno strumento del capi­tale monopolistico, sminuendo sempre il pericolo fascista. Quando gli hitleriani salirono al potere, i dirigenti della SPD davano ad intendere che il partito nazista sarebbe stato costretto a muoversi nell'arco costi­tuzionale, altrimenti avrebbe dovuto «sloggiare» rapidamente. La direzione dei sindacati riformisti tedeschi, nelle sue dichiarazioni uffi­ciali, esprimeva la speranza che il governo hitleriano si sarebbe impe­gnato per soddisfare i bisogni economici delle masse, ecc.

Il leader dei socialdemocratici austriaci, Otto Bauer, definiva il fascismo una dittatura della piccola borghesia e di elementi della buro­crazia e dell'aristocrazia. Egli non considerava il fascismo come una forma di dominio del capitale monopolistico, dal che si deduceva che la classe operaia non aveva bisogno di respingere incondizionatamente i piani corporativi del fascismo. Ed egli faceva questa affermazione nel gennaio 1934, alla vigilia del colpo di Stato fascista nel suo paese.

I trotskisti affermavano che il fascismo mobilita gli strati disperati del sottoproletariato e della piccola borghesia, sia contro il movimento operaio che contro le classi dominanti. Essi definivano il fascismo una dittatura del sottoproletariato, oppure una specie di regime «bona­partista» che si destreggiava tra le classi.

Definire il fascismo, ignorando la sua funzione di classe, come forza d'urto del capitale monopolistico, della reazione borghese e degli agrari, danneggiava seriamente la lotta antifascista. Cosi si scoraggia­vano gli operai, si seminava la confusione nelle loro file e si affievoliva la vigilanza verso il pericolo fascista. Dimitrov affermò durante il VII Congresso: «I capi della socialdemocrazia attenuavano o nascondevano alle masse il vero carattere di classe del fascismo e non spingevano alla lotta contro le misure reazionarie, sempre più gravi, della borghesia. Essi portano la grande responsabilità storica del fatto che, nel momento decisivo dell'offensiva fascista una parte considerevole delle masse lavo­ratrici in Germania e in parecchi altri paesi fascisti non riconoscevano nel fascismo il loro più spietato nemico, il predone della finanza avido di sangue, e non erano pronte a reagire».

Le valutazioni sul fascismo dei socialdemocratici e dei trotskisti esercitavano una certa influenza anche in alcuni partiti comunisti dove non era del tutto chiara la natura del pericolo fascista. L'esempio più lampante è quello della posizione assunta dal Partito comunista polacco al tempo del colpo di Stato di Pilsudski nel maggio 1926. La direzione del partito considerava il movimento di Pilsudski un movimento di protesta della piccola borghesia diretto contro il grande capitale e gli agrari. Ecco perché il partito rimase inattivo al momento del colpo di Stato, mentre alcuni suoi elementi tentarono persino di spingerlo ad appoggiare il colpo di Stato stesso.

L'Internazionale comunista aveva condannato con decisione le va­rie «teorie» socialdemocratiche e piccolo-borghesi sul fascismo, le quali nascondevano la sua natura di classe e impedivano di mobilitare le masse contro di esso. Il VI Congresso del Comintern ribadì la natura di classe del fascismo definendolo «un'aperta e conseguente dittatu­ra» delle banche, della grande industria e degli agrari. Il programma dell'Internazionale comunista adottato dal congresso affermava in modo chiaro che il fascismo si rivelava sempre più la dittatura terroristica del grande capitale. Si dimostrava in modo particolareggiato come il fascismo fosse una combinazione di violenza controrivoluzionaria, di terrore bianco e di demagogia sociale, che aveva come scopo la conquista dei ceti medi e degli elementi più arretrati del proletariato.

L'XI Plenum dell'EIC (marzo-aprile 1931) si oppose con deci­sione alle posizioni che vedevano nel fascismo una tappa obbligatoria della disgregazione del regime capitalista, prima della rivoluzione socia­lista. Venne sottolineato in modo particolare che il fascismo non può essere visto come «padre della rivoluzione», che in realtà il fascismo è la forma più pericolosa della «offensiva del capitale» e che il com­pito del proletariato è di lottare con tutte le sue forze sia contro l'offensiva fascista che contro le dittature fasciste già esistenti. Il Plenum completò sostanzialmente la caratterizzazione del fascismo sot­tolineando la sua demagogia nazionale, l'importanza data al nazionali­smo nella sua politica.

Erano queste conclusioni politico-ideologiche che arricchivano la lotta degli antifascisti, ma che tuttavia venivano limitate da una certa sottovalutazione del pericolo fascista, dalla tendenza a paragonare il fascismo ad una serie di correnti politiche riformistiche, piccolo-borghe­si e borghesi e dal non tenere in dovuto conto il fatto che il fascismo combatteva non solo il comunismo, ma anche la democrazia borghese.

I gravi avvenimenti del 1934 permisero una verifica pratica delle posizioni dei partiti comunisti nella lotta contro il fascismo. Fu messa in luce la non validità di alcuni orientamenti, si fecero strada nuove e fruttuose idee politiche che tuttavia non si fusero in una chiara concezione politica e teorica. Per di più le nuove idee penetravano con difficoltà tra il movimento comunista. Ad esempio, nel migliore studio comunista sul fascismo, cioè il libro di Palme Dutt, Il fascismo e la rivoluzione socialista, pubblicato nel 1934, vi erano, accanto a deduzioni argomentate, posizioni che riflettevano la sottovalutazione delle contraddizioni tra fascismo e democrazia. Sulle contraddizioni interne del fascismo si riaffermava, all'incirca, ciò che avevano detto le risoluzioni del V Congresso del Comintern, cioè che la dittatura fascista avrebbe automaticamente provocato la distruzione delle forze produttive e che l'unica alternativa al fascismo era la rivoluzione so­cialista.

Il VII Congresso doveva non solo generalizzare tutte le nuove e valide idee sorte nel corso della lotta, ma anche elaborare nuove soluzioni, capaci di illuminare la strada della vittoria sul fascismo.

Si poneva in tutta la sua gravità il problema della minaccia fascista. «Nelle nostre file - affermava Dimitrov - si è avuta una sottovalu­tazione intollerabile del pericolo fascista, sottovalutazione che ancora oggi non è sormontata dappertutto.» Questo grave errore era proprio soprattutto delle tendenze di sinistra. In Germania, ad esempio, mentre gli hitleriani stavano rafforzando la loro influenza, Heinz Neumann affermava presuntuosamente: «Se il "Terzo Reich" verrà al mondo, verrà al mondo un metro e mezzo sotto terra e sopra di esso sarà il potere operaio vittorioso». Parte dei comunisti tedeschi consideravano che la vittoria del fascismo in Germania era da escludere, trattandosi di un paese di grande cultura, di vecchie tradizioni del movimento operaio, di forti organizzazioni operaie, ecc.

In molti partiti comunisti trovava credito l'opinione che nei paesi di democrazia borghese «classica» il fascismo non poteva, in fondo, diventare un pericolo serio. Era opinione diffusa che la Francia e l'In­ghilterra fossero radicalmente diverse dall'Italia e dalla Germania, e perciò immuni dal fascismo. La stessa cosa si diceva spesso dei paesi scandinavi. Alcuni eminenti dirigenti del Comintern presero decisa­mente posizione contro tali opinioni e questo sin dalla XII Sessione plenaria dell'EIC (settembre 1932).

La sottovalutazione del pericolo fascista si spiega, in parte, col fatto che i comunisti vedevano sovente la dittatura fascista là dove non esisteva ancora. La stampa comunista, come rilevava nel suo inter­vento W. Pieck, chiamava governo di aperta dittatura fascista quello di Brüning in Germania. In Austria, il governo Schober ancora nel 1929 era stato dichiarato fascista. Lo stesso dicevano i comunisti ceco­slovacchi nei confronti del gruppo Masaryk-Benes. Negli Stati Uniti, Browder, allora segretario generale del partito comunista, parlava «di via fascista sulla quale la politica di Roosevelt porta il paese [...]».

In alcuni interventi al VII Congresso si intuiva che tali posizioni errate non erano del tutto superate. Persino nell'intervento di W. Foster (letto da un altro delegato perché egli era ammalato) si affer­mava, accanto ad una giusta analisi delle correnti e gruppi fascisti e filofascisti negli Stati Uniti, che la politica di Roosevelt dava sempre maggiore impulso al fascismo. Il delegato norvegese si espresse molto più categoricamente, chiamando la politica di Roosevelt una politica «che spiana la strada al fascismo». Tali valutazioni facevano sì che per i lavoratori la dittatura fascista fosse qualche cosa di non molto diverso dai noti regimi borghesi. E questo allentava la vigilanza verso il vero pericolo fascista.

Nonostante i tragici insegnamenti del 1933 in Germania, alcuni militanti erano del parere che il fascismo non avrebbe potuto contare per molto tempo sull'appoggio della sua base di massa. In particolare gli avvenimenti del 30 giugno 1934, quando gli hitleriani sterminarono le indesiderabili SA, furono interpretati da alcuni dirigenti del Comin­tern come l'inizio e addirittura come la già avvenuta perdita per il fascismo della sua base di massa. Così si espresse, ad esempio, I. Pijatnitskij il 2 luglio 1934 nel suo intervento davanti alla commissione preparatoria sul secondo punto all'ordine del giorno del VII Congresso. Rispondendogli, Dimitrov dichiarò che la formulazione categorica di Pijatnitskij gli faceva paura. «Ricordate - egli ammonì - che il nostro partito in Germania ha fatto spesso di queste cose. Ci dicevano categoricamente che l'influenza socialdemocratica aveva subito un punto d'arresto, che calava. Se avessimo avuto allora una buona vista marxista, bolscevica, avremmo capito che tale influenza non scemava, ma solo vacillava, per poi riprendersi nuovamente.»

Sottovalutando la gravità del pericolo fascista si poteva avere tal­volta l'impressione che il fascismo accelerasse la crisi rivoluzionaria. Numerosi eminenti dirigenti del Comintern presero posizione contro tali opinioni. Eppure questa specie di errore, del tipo «tanto peggio, tanto meglio» rimase diffuso ancora fino al VII Congresso. La rivista L'Internazionale comunista, nel suo numero pubblicato alla vigilia del congresso, scriveva: «Le contraddizioni interne ed esterne si inaspri­scono fino al limite estremo durante il fascismo. Ecco perché possiamo dire che, in fin dei conti, il fascismo accelera la maturazione della crisi rivoluzionaria nel mondo intero».

Dal congresso emerse la richiesta categorica di finirla con il sotto­valutare la minaccia fascista, sia nei singoli paesi che nel mondo intero. Sin dal primo giorno della discussione sulla relazione di W. Pieck, il 27 luglio 1935, i rappresentanti dei partiti comunisti della Germania, della Francia, della Cecoslovacchia, dell'Olanda, della Norvegia e del Lussemburgo dimostrarono, fatti e cifre alla mano, quale tremendo pericolo rappresentasse il fascismo per i lavoratori, Questo tema fu ulteriormente approfondito negli interventi sulla relazione di Di­mitrov.

Il fascismo era il principale e maggiore pericolo, perché tentava di distruggere le forze del socialismo, della democrazia e del progresso, di perpetuare il dominio di aperto terrorismo della reazione imperialista, di far compiere a tutta la storia umana «un balzo indietro». Ecco perché i delegati insistettero sulla necessità di accrescere la vigilanza in ogni paese verso ogni mossa compiuta dal movimento fascista, e sulla inammissibilità di sentirsi tranquilli dopo aver respinto una prima volta i fascisti. Thorez affermava a questo riguardo: «Il nemico fascista non è ancora vinto. Esso raccoglie le sue forze e si prepara a nuovi attacchi». Le «croci di fuoco» miglioravano la loro preparazione e si armavano per una guerra civile. I comunisti spagnoli, statunitensi, greci e di altri paesi si soffermarono anch'essi sull'accresciuto pericolo fascista.

I delegati parlavano con grande preoccupazione della tremenda minaccia rappresentata dal fascismo tedesco per tutti i popoli. Esso incarnava, come sottolineava il congresso, gli aspetti più reazionari e più ripugnanti del movimento fascista antecedente, con il quale sor­prendenti erano le analogie. Come a loro tempo in Italia le camicie nere avevano terrorizzato la popolazione, così facevano i fascisti tedeschi, ma in misura molto maggiore. Le provocazioni messe in atto da Musso­lini (incendio delle Case del popolo) erano portate dagli hitleriani ad un livello mostruoso (incendio del Reichstag). Gli hitleriani priva­rono in poco tempo i lavoratori di tutti i loro diritti, ottenendo il risultato che fu raggiunto nell'Italia fascista in alcuni anni. L'hitlerismo, sottolineava il congresso, non è soltanto l'espressione più reazionaria del fascismo, che si distingueva per il suo bestiale sciovinismo; non era soltanto una forma di banditismo politico e la più spietata delle dittature borghesi, che distruggeva il meglio della classe operaia; non era solo un potere che aveva trasformato la Germania, con la sua grande cultura, in un focolaio di oscurantismo e di barbarie. Il fascismo tedesco, come fu sottolineato negli interventi e quindi nella risoluzione del congresso era «il principale fomentatore di una nuova guerra impe­rialista e agiva come reparto d'assalto della controrivoluzione interna­zionale».

A P. de Groot, nei suoi ricordi sul VII Congresso, è sembrato, non si sa perché, che le parole di Dimitrov sul fascismo tedesco come principale nemico, suonassero inattese per i delegati. Invece, tutto il corso della discussione, prima ancora dell'intervento di Dimitrov, e ancor più dopo di esso, testimonia che il ruolo particolare del fascismo tedesco era già ben chiaro per il movimento comunista e che Dimitrov espresse nel modo più esatto ciò che pensava la maggioranza del con­gresso.

Come rilevarono J. Lenski e B. Bronski, mentre saliva la reazione fascista, «il fascismo polacco si avviava ad attuare un sistema totali­tario, tentava di portare a compimento la fascistizzazione, emanando una nuova costituzione fascista e una nuova legge elettorale. Si poneva ora il problema della liquidazione del sistema stesso dei partiti. Alle masse popolari venivano tolte le ultime libertà politiche e le ultime conquiste sociali».

In una serie di paesi i fascisti contavano apertamente su un aiuto dall'esterno. K. Gottwald si soffermò sulla crescente minaccia fascista in Cecoslovacchia, dove nelle elezioni parlamentari del maggio 1935 gli agenti del fascismo tedesco, cioè il cosiddetto «fronte dei Sudeti tedeschi», avevano ottenuto un gran numero di voti. Anche se i fascisti non avevano raggiunto la meta prefissa, era errato sottovalutare il pericolo, tenuto conto soprattutto dei piani aggressivi del fascismo hitleriano. «Sul popolo cecoslovacco pesa la minaccia di perdere la indipendenza nazionale.»

I delegati dell'Olanda, del Belgio, dei paesi scandinavi e dei paesi baltici dimostrarono che nel loro paese il fascismo era, in sostanza, una filiale del fascismo hitleriano, per cui rappresentava una minaccia per l'indipendenza nazionale.

Analizzando il pericolo fascista, molti oratori rilevarono la necessi­tà di tener presente non solo il pericolo di una graduale fascistizzazione dei regimi politici nei singoli paesi, ma anche la possibilità di un attacco frontale dei fascisti. I comunisti finlandesi, facendosi l'autocri­tica, affermarono che il partito comunista non aveva compreso in tempo che il paese si sarebbe decisamente avviato sulla strada del fascismo, non gradualmente, ma con un inatteso colpo di forza; il partito non era quindi preparato alla possibilità di un colpo di Stato fascista, pen­sando che il paese sarebbe gradualmente «scivolato» verso la dittatura fascista.

Nella risoluzione sulla relazione di Dimitrov, il VII Congresso, richiamando l'attenzione «contro ogni sottovalutazione del pericolo fascista» rilevava «la grave minaccia che il fascismo rappresenta per la classe operaia e tutte le sue conquiste, per tutti i lavoratori e i loro diritti elementari, per la pace e la libertà dei popoli». Concor­dando con la tesi secondo cui il fascismo inaspriva le contraddizioni di classe, il congresso respinse tuttavia come orientamento dannoso quello secondo cui la dittatura fascista accelerava la maturazione della crisi rivoluzionaria e condannò duramente «le pericolose illusioni su un crollo automatico della dittatura fascista».

La tesi che il fascismo imponeva in una serie di paesi la sua dittatura, prima che le masse si mettessero decisamente sulla via della rivoluzione, tesi sostenuta da Dimitrov nella sua relazione, era anch'essa diretta contro la sottovalutazione del fascismo. Tra i comunisti era diffusa l'opinione che il fascismo era una sorta di punizione per la mancata rivoluzione proletaria. Questo poteva essere vero per l'Unghe­ria e l'Italia; ma negli altri paesi la reazione fascista tentava di colpire mortalmente le organizzazioni della classe operaia ancora prima che maturasse la crisi rivoluzionaria. È vero che il sorgere del fascismo è strettamente connesso all'inasprirsi della crisi, ma se questa tesi viene presa alla lettera può sembrare che l'offensiva del fascismo avvenga solo quando il paese si avvia verso la rivoluzione socialista. Gli avveni­menti hanno però dimostrato che la reazione fascista tenta di soffocare anche i movimenti democratici (Spagna).

Avendo individuato nel fascismo il principale nemico, il congresso cercò di caratterizzare il più esattamente possibile i suoi aspetti e i suoi connotati fondamentali. Le definizioni sulla natura di classe del fascismo date precedentemente dal Comintern erano sostanzialmente giuste, e il VII Congresso non ebbe quindi da apportarvi nessun cambia­mento particolare. Dimitrov ribadì nella sua relazione ciò che aveva già detto al XIII Plenum dell'EIC: il fascismo al potere è la dittatura aperta degli elementi più reazionari, più sciovinisti e più imperialisti del capitale finanziario. L'autore di questa definizione era, come scri­vono nel loro libro Conversando con TogliattiMarcella e Maurizio Ferrara, Stalin. Questa definizione, ancora ripetuta nella risoluzione, sottolineava il fondamentale ruolo di classe del fascismo ed era princi­palmente diretta contro gli uomini politici liberal-borghesi e socialde­mocratici, che tentavano di mascherare o di sorvolare il fatto che il fascismo era una creatura del capitale monopolistico. Ma anche questa formulazione aveva le sue deficienze perché, se era assolutamente giusta per i paesi altamente sviluppati in cui predominava il capitale monopo­listico, richiedeva determinate modifiche per i paesi a medio sviluppo capitalistico.

Adottando questa formulazione, il congresso non pensava affatto che i circoli reazionari del capitale finanziario e il fascismo fossero la stessa cosa. Durante la riunione della commissione redazionale del congresso per l'esame degli emendamenti alle risoluzioni, sorse una piccola discussione: bisognava dire che il fascismo tedesco al potere era lo stesso capitale finanziario, oppure che gli hitleriani erano i suoi lacchè e i suoi servi? Fu deciso di scrivere che il fascismo «esercita le funzioni di servo della grande borghesia».

Il fatto che il Comintern defini esattamente il ruolo degli hitleriani è stato indiscutibilmente confermato da molti documenti e testimo­nianze rese note decine di anni dopo il congresso. D. Martin, responsa­bile dell'amministrazione militare americana in Germania occidentale lo confermò clamorosamente quando disse: «I film d'anteguerra ci presentavano i nazisti che sfilavano col passo prussiano come padroni assoluti della Germania. Sembrava che bastasse un ordine di Hitler perché tutti i potenti della Germania prenazista si buttassero ad eseguirlo per paura di possibili repressioni. Ma dopo aver preso visione degli archivi di Villa Hugel e parlato con Alfred Krupp e i direttori delle sue fabbriche, non ci è rimasto più nulla di tale impressione. Ad Hitler e al suo partito non è mai stato permesso di dimenticare che la loro ascesa al potere era dovuta agli industriali e che solo con l'aiuto degli industriali avrebbero potuto raggiungere il successo».

In nessun paese il fascismo ha conquistato il potere scontrandosi col capitale monopolistico; al contrario, esso ha agito, seppure masche­randosi, come un suo diretto strumento, come il partito della reazione più feroce.

Una delle conclusioni di principio più importanti a cui giunse i1 congresso fu che l'avvento del fascismo «non è un'ordinaria sostituzione di un governo borghese con un altro, ma è il cambiamento di una forma statale del dominio di classe della borghesia, la democrazia borghese, con un'altra sua forma - con la dittatura terroristica aperta». Nel settembre 1924, Stalin nell'articolo Sulla situazione internazionale chiamava la socialdemocrazia «obiettivamente l'ala moderata del fascismo» e quindi definiva il fascismo «un blocco politico, che non ha ancora assunto una forma definitiva, di queste due organizzazioni fondamentali» (socialdemocrazia e fascismo). Ecco perché nei regimi pacifisti in questo stesso articolo si vedeva come «un'affermazione del fascismo che mette in primo piano la sua moderata ala socialdemocratica». Queste definizioni si contrapponevano alle posizioni leniniste sui due metodi di dominio della borghesia. Stalin, in contrapposizione alla tesi di Lenin, riconosceva un solo metodo «combinato» di dominio della borghesia, che metteva in primo piano di volta in volta l'ala moderata (socialdemocrazia) oppure l'ala fascista.

Un tale concetto, diffuso tra le file del movimento comunista internazionale, contribuiva a far sì che i comunisti chiamassero fascismo pressappoco qualsiasi politica reazionaria, considerassero fascismo tutte le misure reazionarie della borghesia. Per di più alcuni partiti comunisti consideravano talvolta filofascista tutto il campo non comunista. Evi­dentemente tutto ciò non aiutava a mettere a profitto le contraddizioni nel campo della borghesia.

I delegati sottolinearono l'attualità dei principi leninisti sui due metodi di dominio della borghesia e denunciarono l'inconsistenza delle valutazioni semplicistiche, secondo cui tutta la borghesia si sarebbe fascistizzata. Ma durante il congresso affiorarono anche concezioni supe­rate. «Non è forse una manifestazione di schematismo - diceva Dimi­trov nelle sue conclusioni - l'affermazione di alcuni compagni che il New Deal di Roosevelt è una forma più palese, più acuta dell'evolu­zione della borghesia verso il fascismo, che non ad esempio "il governo nazionale" in Inghilterra? Occorre una buona dose di schematismo per non vedere che i circoli più reazionari del capitale finanziario americano, i quali attaccano Roosevelt, rappresentano appunto, prima di tutto, la forza che stimola ed organizza il movimento fascista negli Stati Uniti. Non vedere dietro le frasi ipocrite di questi circoli sulla "difesa dei diritti democratici dei cittadini americani" il fascismo che nasce negli Stati Uniti, significa disorientare la classe operaia nella lotta contro il suo peggior nemico.»

La conclusione tratta dal congresso, secondo la quale l'avvento al potere del fascismo significa il cambiamento di una forma statale del dominio di classe della borghesia con un'altra, pose fine alla dannosa confusione esistente nel definire il carattere dei diversi regimi borghesi e delle diverse forze politiche. Essa servì di orientamento ai partiti comunisti nella loro lotta contro il fascismo.

La valutazione delle contraddizioni tra fascismo e le altre tendenze politiche era parte integrante della definizione del carattere di classe del fascismo. Che il fascismo fosse agli antipodi del comunismo era chiaro ad ogni comunista, ad ogni operaio di avanguardia. Ma era più difficile e complesso capire le contraddizioni tra il fascismo e le forze non comuniste. Gli elementi settari di sinistra del movimento comunista affermavano che tra il fascismo e le correnti politiche non comuniste non potevano esserci contraddizioni sostanziali. Opinioni come quelle impedirono ai partiti comunisti di accorgersi che il fascismo si scagliava anche contro la democrazia borghese, e li indussero a vedere tutte le forze intermedie come fasciste o filofasciste. R. Palme Dutt rilevò con piena convinzione al congresso che, adoperando il termine «fascismo» in blocco contro tutto il campo borghese, «si impedisce agli operai di capire seriamente cosa sia il fascismo, ed essi cominciano a guardare a questo nostro termine come ad un semplice slogan, come ad un'ingiuria contro ogni attività del capitalismo e dei governi capi­talisti in quel momento».

Il VII Congresso accreditò risolutamente le valutazioni realistiche che negli anni 1934-1935 una serie di partiti comunisti avevano dato delle forze che si opponevano al fascismo e formulò in modo nuovo e coraggioso il principio delle contraddizioni tra fascismo e democrazia borghese. «Oggi la controrivoluzione attacca la democrazia borghese, sforzandosi di imporre ai lavoratori un regime che li sfrutterà e li schiaccerà nel modo più barbaro, - affermò Dimitrov. - E le masse lavoratrici, in molti paesi capitalistici, devono scegliere in concreto, per il momento presente, non già tra la dittatura del proletariato e la democrazia borghese, ma tra la democrazia borghese e il fascismo.»

Alla tribuna del congresso si sentirono voci, le quali affermavano che le contraddizioni tra fascismo e democrazia borghese non potevano avere rilevante importanza. Ma la stragrande maggioranza del congresso la pensava diversamente e chiedeva di finirla di mettere delle «etichet­te fasciste» a partiti e ad organizzazioni in cui si facevano realmente strada stati d'animo antifascisti. V. Kolarov, che aveva dedicato gran parte del suo intervento all'analisi dei rapporti tra partito comunista e organizzazioni contadine, rilevò che era molto diffusa l'abitudine di paragonare le organizzazioni contadine al fascismo, ciò che aveva seriamente danneggiato il partito. Alcuni comunisti, egli affermò, aveva­no anche avanzato la «teoria» che il fascismo è espressione degli interessi dei contadini, per cui in molti casi consideravano normale che le organizzazioni contadine appoggiassero i fascisti.

Il delegato del Partito comunista romeno dichiarò che i comunisti romeni per lungo tempo avevano considerato il partito nazionale conta­dino, che raggruppava centinaia di migliaia di contadini, come il loro principale nemico nelle campagne e come uno dei maggiori sostenitori del fascismo. In realtà, egli disse, questo partito «può diventare una componente del fronte popolare antifascista». Molti delegati inter­vennero decisamente contro simili errori, esigendo che si abbandonasse l'abitudine di mettere sullo stesso piano il fascismo e i partiti e le organizzazioni piccolo-borghesi.

Il fascismo era il nemico di tutti i lavoratori, di tutti i democratici e tutti dovevano unirsi contro il nemico comune. Questa deduzione apriva al movimento comunista e alla classe operaia nuove prospettive e possibilità di lavoro tra le masse. Il Comintern indicava a tutti i lavoratori che nel mondo si stavano formando due campi contrapposti. Da un lato, la reazione imperialista con la sua forza d'urto, il fascismo; dall'altro, la classe operaia attorno alla quale si raccoglievano non sol­tanto le forze socialiste, ma tutti i lavoratori, tutti coloro che volevano combattere per la democrazia e la pace, contro la brutale violenza e la guerra.

In questo processo di aggregazione delle forze politiche molto dipendeva dalla posizione che avrebbero assunto gli strati intermedi della popolazione; dal fatto che il fascismo riuscisse a confondere i ceti medi con la sua demagogia, attraendoli dalla sua parte, oppure che fossero i partiti comunisti e tutta la classe operaia a farli confluire nella lotta sotto la bandiera dell'antifascismo. Ecco perché era impor­tante come non mai discutere al VII Congresso il problema della base di massa del fascismo e il ruolo della demagogia fascista nella sua creazione.

Quanto ai ceti medi, Dimitrov rilevò che il fascismo riusciva ad influenzare larghe masse allorquando la crisi e la miseria rovinavano milioni di piccoli proprietari. Della possibilità di simili situazioni parla­va Lenin nel 1920, sottolineando che «inferocito per gli orrori del capitalismo», il piccolo borghese è facilmente attratto dalle correnti reazionarie «di moda».

I comunisti avevano sempre avuto presente questo pericolo, ma difficile era prevedere il punto a cui sarebbe giunta la falsità e il cinismo della demagogia fascista. Il fascismo, affermava Dimitrov, nella sua demagogia fa appello ai «bisogni e alle aspirazioni più sentite» delle masse. Esso non rinfocola soltanto i pregiudizi profondamente radicati nelle masse - cioè il nazionalismo, lo sciovinismo, lo spirito revanscista, gli istinti egoistici privati, ecc. -, ma in modo cinico «specula anche sui migliori sentimenti delle masse, sul loro senso di giustizia e qualche volta persino sulle loro tradizioni rivoluzionarie». I fascisti sfruttavano l'odio delle larghe masse verso il grande capitale predatore, verso i monopoli, l'aspirazione delle masse al socialismo, sbandierando parole d'ordine anticapitalistiche demagogiche. Non a caso, come rilevava il congresso, i fascisti avanzavano ovunque slogan alti­sonanti come «il bene comune al di sopra di quello privato», «di­struggere lo sfruttamento», «ripartizione delle ricchezze». E lo face­vano non solo i fascisti tedeschi, ma anche quelli degli altri paesi. In Giappone essi avevano lanciato parole d'ordine più a sinistra di quelle della socialdemocrazia, e parlavano della «attuazione di una giornata lavorativa fissa», di «sussidi statali vitali per i disoccupati», di «ugua­le salario per uguale lavoro», della «conquista del diritto di organizza­zione e di sciopero». «[...] Non siamo una cricca militare, né burocrati, né proletariato, siamo il vero popolo». Nel tentativo di conquistare le organizzazioni di massa i fascisti alle volte non disdegnavano di «dirigere» degli scioperi operai e bracciantili, mascherando così ancor meglio la loro politica reazionaria.

Con duri attacchi contro i governi democratico-borghesi, contro la loro corruzione, rivendicando «un potere onesto e incorruttibile», i fascisti avevano trascinato dalla loro parte, nell'interesse degli ambienti reazionari, coloro che erano delusi dai vecchi partiti e governi borghesi. Il fascismo disorientava le masse spacciando la sua offensiva come «un movimento rivoluzionario» contro gli sfruttatori.

I fascisti si erano sforzati di apparire come difensori risoluti degli interessi nazionali, i sostenitori del riconoscimento dei diritti della na­zione umiliata, ecc. Durante il congresso si rilevò che la campagna hitleriana contro il trattato di Versailles da un lato, e il fatto che i comunisti non avessero tenuto abbastanza conto dei sentimenti na­zionali umiliati dall'altro, avevano contribuito al successo dei nazisti tedeschi che erano così riusciti a conquistare larghe masse. La demago­gia nazionalista non aveva limiti. Il capo dei fascisti norvegesi, Quisling, colui che avrebbe fatto da servo agli occupanti tedeschi durante la seconda guerra mondiale, parlava istericamente di interessi nazionali. I fascisti finlandesi marciavano sotto la parola d'ordine: «Per la pa­tria, per la religione e per la terra». Agitando la bandiera degli interessi nazionali, i fascisti diffondevano lo sciovinismo tra le masse. Inebriate dallo sciovinismo, le masse diventavano facilmente strumento del fasci­smo. Non si doveva sottovalutare la propaganda sciovinista del fasci­smo e la sua influenza sul popolo, ammonì il congresso.

Il fascismo, rilevò Dimitrov, «adatta la sua demagogia alle parti­colarità nazionali di ogni paese, e anche alle particolarità dei diversi strati sociali di uno stesso paese». In questo senso si parlò al con­gresso con grande preoccupazione dell'influenza della demagogia fascista sulla gioventù. I fascisti speculavano sulle esigenze particolari dei gio­vani, tentavano di abbacinarli con formule come «nuovo» movimento, «nuovo» partito. Per i loro obiettivi reazionari, affermò O. Kuusinen al congresso, i fascisti si valevano del «legittimo odio dei giovani verso il vecchio e corrotto sistema dei partiti borghesi».

Nel tentativo di conquistare un saldo appoggio dal basso, il fasci­smo aveva creato un intero sistema di organizzazioni che, come tenta­coli, afferravano milioni di uomini. Il congresso, rilevando che la ten­denza generale allo sviluppo avrebbe ristretto immancabilmente la base di massa del fascismo, chiese in pari tempo ai partiti comunisti una valutazione realistica di questa base. Esso sottolineò la necessità di una lotta costante, accanita e multiforme dei comunisti contro il sistema dei sottili metodi ideologico-propagandistici ed organizzativi del fasci­smo, diretti a conquistare le masse. Dai partiti comunisti, affermavano i delegati al congresso, si richiedono enormi sforzi per smascherare davanti alle masse la demagogia fascista, per rendere coscienti milioni di piccoli borghesi, ingannati dal fascismo, che gli interessi del fascismo sono diametralmente opposti a quelli del popolo. Il problema della base sociale del fascismo non è secondario, sottolineava R. Palme Dutt, «esso determina in misura notevole l'efficacia della nostra lotta contro il fascismo».

Analizzando dettagliatamente le caratteristiche del fascismo, il con­gresso condannò ogni schematismo e luogo comune che, nel valutare il nemico, non tenesse conto delle peculiarità dei singoli paesi e delle diverse fasi dello sviluppo della lotta. Negli interventi di alcuni delegati si notavano ancora residui di un tale atteggiamento schematico, si perce­piva la volontà di sostituire l'analisi concreta con nuove formule. «Nes­suna caratteristica generale del fascismo, - affermava Dimitrov nelle conclusioni, - per giusta che sia, ci esime dalla necessità di studiare concretamente e di tener conto delle particolarità di sviluppo del fasci­smo e delle diverse forme della dittatura fascista nei diversi paesi e nelle diverse fasi.»

Considerando un errore voler elaborare uno schema comune di sviluppo del fascismo in tutti i paesi e per tutti i popoli, alcuni emi­nenti dirigenti del movimento operaio, prima e durante il congresso tentarono di chiarire alcuni tratti specifici del fascismo nei singoli paesi. Togliatti, ad esempio, indicò che l'asse del movimento fascista era costituito dai proprietari terrieri di tipo feudale. Negli interventi dei delegati spagnoli si sottolineò che il principale partito fascista spa­gnolo - la CEDA - poggiava sia sulle alte sfere militari che sulla Chiesa. Thorez e Cachin rilevarono che il fascismo in Francia non aveva una vasta base nelle campagne, come i nazisti tedeschi, e che la demagogia nazionalista non aveva la stessa funzione che nella politi­ca hitleriana. Essi però dimostrarono che il fascismo nel loro paese aveva un carattere specificamente militare e veniva appoggiato dagli ufficiali superiori. I fascisti francesi speculavano, come diceva Dimi­trov, sullo sdegno delle masse per la corruzione parlamentare che, proprio in Francia, aveva raggiunto le maggiori proporzioni. J. Lenski mise l'accento sui legami del fascismo polacco con le sopravvivenze feudali.

Il congresso non trascurò la comparsa del movimento fascista anche nei paesi coloniali e dipendenti. Questa bandiera «alla moda» della reazione era adoperata da «elementi controrivoluzionari degli ambienti borghesi e agrari dei paesi coloniali e dipendenti per organiz­zare le forze della controrivoluzione contro la rivoluzione popolare e per consolidare l'asservimento imperialista dei popoli di questi paesi».

I delegati dei paesi coloniali denunciarono la presenza di organiz­zazioni ed unioni fasciste come le «camicie azzurre» (nella Cina del Kuomintang), gli «integralisti» in Brasile, la «Legione civile» in Argentina, le «camicie grige» in Sud Africa, ecc. I partiti comunisti dei paesi coloniali e dipendenti, di frequente, non si curavano del pericolo fascista e, in pari tempo, sovente, consideravano fasciste pres­soché tutte le organizzazioni piccolo-borghesi e borghesi e in modo particolare quelle che avanzavano rivendicazioni di carattere nazionale.

Molti fenomeni in corso in questi paesi non erano ancora stati bene studiati e capiti dai partiti comunisti. Ecco perché Dimitrov nelle sue conclusioni affermò: «Nei paesi coloniali e semicoloniali, come si è rilevato nelle discussioni, si sviluppano vari gruppi fascisti, ma qui, è ovvio, non può trattarsi di un fascismo del genere che noi siamo abituati a vedere in Germania, in Italia e negli altri paesi capita­listici. Qui bisogna studiare e tener presente le condizioni economiche, politiche e storiche assolutamente particolari, in conformità delle quali il fascismo prende e prenderà delle forme peculiari».

A causa della complessità e della insufficiente conoscenza dei pro­blemi, il congresso non seppe caratterizzare il pericolo fascista nei paesi coloniali e dipendenti. Ne conseguì che in determinati paesi i partiti comunisti continuarono a considerare fascisti tutti i movimenti nazionalisti borghesi e piccolo-borghesi.

Analizzando la natura di classe del fascismo, il congresso fu abba­stanza chiaro sul fatto che la definizione del fascismo non doveva essere considerata universale, che doveva essere modificata quando si trattava di paesi a medio sviluppo capitalistico, in cui ancora esistevano sopravvivenze feudali (ad esempio la Romania, la Polonia, la Spagna, la Jugoslavia, ecc.). In quei paesi la natura di classe del fascismo era alquanto diversa. Da alcune osservazioni ed affermazioni fatte dai delegati si intuì la volontà di veder colmata questa residua mancanza di chiarezza, che tuttavia rimase.

Avrebbe dovuto essere maggiormente chiarita anche la tesi, formu­lata da Stalin nel 1934, che vedeva nel fascismo un sintomo di debolez­za della borghesia. Esatta sul piano storico generale, nel senso che il fascismo compare sull'arena politica nella fase di crisi generale del capitalismo, questa tesi negli interventi di alcuni delegati veniva inter­pretata troppo alla lettera. Ciò portava ad esagerare, in modo illusorio, i processi interni di disgregazione del fascismo.

Malgrado tutto, la caratterizzazione del fascismo formulata dal VII Congresso del Comintern contribuì notevolmente all'analisi di tutta la situazione internazionale e fu uno dei punti di partenza per un nuovo orientamento politico del movimento comunista internazionale.

In quel periodo non erano ancora in funzione i forni crematori di Auschwitz e i nazisti stavano ancora progettando segretamente le camere a gas; non era stata ancora violata nessuna frontiera d'Europa e molti speravano che Hitler non avrebbe osato lanciarsi in avventure militari. Era grande la fiducia negli appeasers, i quali assicuravano che si poteva, con delle concessioni, ammansire la belva fascista. Ma i comunisti comprendevano perfettamente che il fascismo era non un fenomeno casuale, bensì il mostruoso prodotto del capitale monopo­listico. Essi comprendevano che il fascismo era la guerra, la reazione medioevale, la nera ideologia dello sciovinismo, del razzismo e del­l'odio verso l'umanità.

Molti comunisti, prima del 1933, pensavano che l'ideologia fasci­sta era così folle, così permeata di violenza sanguinaria, di feroce nazio­nalismo che non sarebbe stata capace di conquistare un'influenza di massa. Di frequente nei libri e nella stampa comunista si affermava che il fascismo non aveva nessuna dottrina e «teoria», ma strappava qualcosa qua e là da qualsiasi teoria, principio o formula, per masche­rare la sua politica imperialista; questo impediva ai comunisti di in­traprendere una seria lotta ideologica contro il fascismo.

Al VII Congresso fu rilevato che l'ideologia fascista si adattava in modo duttile ad ogni psicologia nazionale, ma che vi erano forme comuni a tutto il movimento fascista. «La forma più pericolosa del­l'ideologia fascista è lo sciovinismo», sottolineava la risoluzione del VII Congresso. Infatti slogan come «assicurare gli interessi della na­zione e i suoi diritti», «tutelare la purezza della razza», calpestare e annientare i diritti degli altri popoli erano il perno dell'ideologia fascista. Questi slogan servivano di copertura alla pavida politica di oppressione e di sfruttamento di classe del proprio popolo. Lo sciovini­smo e il razzismo nella ideologia fascista si intrecciavano con la tesi «prima di tutto lo Stato» (cioè il potere dei ceti reazionari), che respingeva tutte le forme democratiche della vita sociale. A questi era legato anche il culto del Führer e il culto della forza bruta.

Il congresso dimostrò che l'ideologia fascista con la sua subdola copertura demagogica era l'arma avvelenata della reazione imperialista più spietata. Contro una tale ideologia, diceva Dimitrov, si doveva svolgere una vasta lotta ideologica, sulla base di argomenti chiari, che tenessero conto delle particolarità nazionali.

La valutazione del fascismo formulata dal Comintern si distin­gueva per il suo carattere circostanziato e per la sua serietà teorica. Essa è stata una delle basi fondamentali del programma di lotta contro il perfido nemico dei popoli. Il congresso dei comunisti sembrava in­dicasse ai lavoratori: ecco, questo è il vostro nemico, contro il quale dovremo inevitabilmente combattere in uno scontro decisivo che si sta avvicinando! Tutte le discussioni sul fascismo erano permeate da uno spirito combattivo, dalla volontà di trascinare le grandi masse alla lotta.

In questo senso grande importanza rivestiva il fatto che il congres­so avesse saputo individuare le cause della vittoria del fascismo in una serie di paesi, e dimostrare che esso godeva del multiforme ap­poggio della reazione imperialista sia interna che internazionale.

«Il fascismo - dichiarava Dimitrov - ha potuto giungere al potere prima di tuttoperché la classe operaia, a causa della politica di collaborazione di classe dei capi della socialdemocrazia si trovò divisa, disarmata politicamente ed organizzativamente di fronte alla borghesia che passava all'offensiva. E i partiti comunisti non erano abbastanza forti per sollevare le masse, senza e contro la socialdemocrazia, e con­durle alla battaglia decisiva contro il fascismo.» II congresso sottoli­neava la responsabilità storica della socialdemocrazia di destra per il fatto che la maggioranza della classe operaia, che seguiva i partiti socialdemocratici, rimase inerte nel momento in cui le bande fasciste davano l'assalto al potere.

Il fascismo vinse anche perché il proletariato era diviso dai suoi alleati naturali, mentre i partiti fascisti erano riusciti con la loro demago­gia a conquistare una parte determinante dei ceti medi.

Il congresso dichiarò a chiare lettere che i partiti comunisti ave­vano avuto anch'essi una parte di responsabilità per l'avvento al potere del fascismo; sebbene avessero sempre lottato conseguentemente contro la minaccia fascista, essi avevano commesso una serie di gravi errori.

Da tutto ciò si doveva trarre un insegnamento molto importante: bisogna contrapporre all'offensiva fascista non solo il fronte unico della classe operaia, ma l'unità combattiva di tutti i lavoratori e di tutte le forze democratiche. Non avrebbero potuto aiutare in alcun modo quei frettolosi programmi di distruzione di questo nemico mortale dei lavoratori che puntassero esclusivamente sull'avanguardia della classe operaia. Il congresso chiamò i partiti a sviluppare, con il massimo senso di realismo rivoluzionario e senza indugi, la lotta per l'unione di tutti gli antifascisti.

Era imminente una lunga e dura lotta, e il congresso fissò quale suo obiettivo più importante e immediato la lotta contro il fascismo e la guerra.