Antonio Gramsci
Cinque anni di vita del Partito

Sintesi dei risultati del III Congresso (Lione, 20-26 gennaio 1926) ad opera di Gramsci. Il testo è ripreso da "Da Gramsci a Berlinguer. La via italiana al socialismo attraverso i congressi del Partito comunista italiano", op.cit. pp. 278-293.


  Data la difficoltà di pubblicare immediatamente un resoconto giornalistico dei lavori del III Congresso del nostro partito, riteniamo per intanto opportuno di offrire ai compagni e alla massa dei lettori un esame e una informazione generale dei risultati del congresso stesso. Ci affrettiamo comunque ad annunciare che prossimamente sarà pubblicato sul nostro gior­nale il resoconto materiale del congresso e saranno successivamente riunite in un volume le deliberazioni e le tesi nel loro testo definitivo.

I risultati numerici dei voti al congresso furono i seguenti:
  assenti e non consultati 18,9%
  dei presenti al congresso: voti per il Comitato centrale 90,8%
  per l'estrema sinistra 9,2%.


  Il nostro partito è nato nel gennaio 1921, cioè nel momento più critico sia della crisi generale della borghesia italiana, sia della crisi del movimento operaio. Ma la scissione, se era storicamente necessaria ed inevitabile, trovava però le grandi masse impreparate e riluttanti. In tale situazione l'organizzazione materiale del nuovo partito trovava le condizioni più difficili. Avvenne perciò che il lavoro puramente organizzativo, data la difficoltà delle condizioni in cui doveva svolgersi, assorbì le energie creatrici del partito in modo quasi completo. I problemi politici che si ponevano, per la decomposizione da una parte del personale dei vecchi gruppi dirigenti borghesi, dall'altra per un processo analogo del movimento operaio, non poterono essere approfonditi sufficientemente. Tutta la linea politica del partito negli anni immediatamente successivi alla scissione fu in primo luogo condizionata da questa necessità: di mantenere strette le file del partito, aggredito fisicamente dalla offensiva fascista da una parte, e dai miasmi cadaverici della decomposizione socialista dall'altra. Era naturale che in tali condizioni si sviluppassero nell'interno del nostro partito sentimenti e stati d'animo di carattere corporativo e settario. Il problema generale politico, inerente all'assistenza e allo sviluppo del partito non era visto nel senso di una attività per la quale il partito dovesse tendere a conquistare le più larghe masse e ad organizzare le forze sociali necessarie per sconfiggere la borghesia e conquistare il potere, ma era visto come il problema della esistenza stessa del partito.

    La scissione di Livorno

  Il fatto della scissione fu visto nel suo valore immediato e meccanico e noi com­mettemmo, in altro senso sia pure, lo stesso errore che era stato commesso da Serrati. Il compagno Lenin aveva dato la formula lapidaria del significato della scissione, in Italia, quando aveva detto al compagno Serrati: «Separatevi da Tu­rati, e poi fate l'alleanza con lui». Questa formula avrebbe dovuto essere da noi adattata alla scissione avvenuta in forma diversa da quella prevista da Lenin. Do­vevamo cioè, come era indispensabile e storicamente necessario, separarci non so­lo dal riformismo, ma anche dal massimalismo che in realtà rappresentava e rap­presenta l'opportunismo tipico italiano nel movimento operaio; ma dopo di ciò e pur continuando la lotta ideologica e organizzativa contro di essi, cercare di fare un'alleanza contro la reazione. Per gli elementi dirigenti del nostro partito, ogni azione dell'Internazionale, rivolta ad ottenere un riavvicinamento a questa linea, apparve come se fosse una sconfessione implicita della scissione di Livorno, come una manifestazione di pentimento. Si disse che, accettando una tale impo­stazione della lotta politica, si veniva ad ammettere che il nostro partito era sola­mente una nebulosa indefinita, mentre era giusto ed era necessario affermare che il nostro partito, nascendo, aveva risolto definitivamente il problema della for­mazione storica del partito del proletariato italiano. Questa opinione era raffor­zata dalle non lontane esperienze della rivoluzione soviettista in Ungheria, dove la fusione tra comunisti e socialdemocratici fu certamente uno degli elementi che contribuirono alla disfatta.

    La portata dell'esperienza ungherese

  In realtà l'impostazione data a questo problema dal nostro partito era falsa e andò sempre più manifestandosi come tale alle larghe masse del partito. Proprio l'esperienza ungherese avrebbe dovuto convincerci che la linea seguita dall'Inter­nazionale nella formazione dei partiti comunisti non era quella che noi le attri­buivamo. É noto infatti che il compagno Lenin cercò di opporsi strenuamente alla fusione tra comunisti e socialdemocratici ungheresi, nonostante che questi ultimi si dichiarassero fautori della dittatura del proletariato. Si può dire perciò che il compagno Lenin fosse in generale contrario alle fusioni? Certamente no. Il problema era visto dal compagno Lenin e dall'Internazionale come un processo dialettico, attraverso il quale l'elemento comunista, cioè la parte più avanzata e cosciente del proletariato, si pone, sia nella organizzazione del partito della classe operaia, sia nella funzione di direzione delle grandi masse, alla testa di tutto ciò che di onesto e di attivo si è formato ed esiste nella classe. In Ungheria è stato un errore distruggere l'organizzazione indipendente comunista nel momento della presa del potere, per dissolvere e diluire il raggruppamento costituito nella più vasta ed amorfa organizzazione socialdemocratica che non poteva non riprendere predominio. Anche per l'Ungheria il compagno Lenin aveva formulato la linea del nostro vecchio partito come un'alleanza con la socialdemocrazia, non come una fusione. Alla fusione si sarebbe arrivati più tardi, quando il processo del pre­dominio del raggruppamento comunista si fosse sviluppato sulla scala più larga nel campo dell'organizzazione di partito, dell'organiz­zazione sindacale e dell'ap­parato statale, e cioè con la separazione organica e politica degli operai rivoluzio­nari dai capi opportunisti.

   Per l'Italia il problema si poneva in termini ancora più semplici che in Unghe­ria, perché non solo il proletariato non aveva conquistato il potere, ma iniziava, proprio nel momento della formazione del partito, un grande movimento di riti­rata. Porre in Italia la questione della formazione del partito, così com'era stato indicato dal compagno Lenin nella sua formula espressa a Serrati, significava - nell'arretramento del proletariato che si iniziava allora - dare la possibilità al nostro partito di raggruppare intorno a sé quegli elementi del proletariato che avrebbero voluto resistere, ma che sotto la direzione massimalista erano travolti nella rotta generale e cadevano progressivamente nella passività. Ciò significava che la tattica suggerita da Lenin e dall'Internazionale era l'unica capace di raffor­zare e sviluppare i risultati della scissione di Livorno e di fare veramente del no­stro partito, fin d'allora, non solo in astratto e come affermazione storica, ma in forma effettiva, il partito dirigente della classe operaia. Per questa falsa impo­stazione del problema, noi ci siamo mantenuti sulle posizioni avanzate, da soli e con la frazione di masse immediatamente più vicina al partito, ma non abbia­mo fatto quanto era necessario per mantenere sulle nostre posizioni il proletaria­to nel suo complesso, il quale tuttavia era ancora animato da un grande spirito di lotta, come è dimostrato dai tanti episodi spesso eroici della resistenza opposta all'avanzata avversaria.

    Il partito negli anni 1921-22

  Un altro degli elementi di debolezza della nostra organizzazione è consistito nel fatto che tali problemi, data la difficoltà della situazione e dato che le forze del partito erano assorbite dalla lotta immediata per la propria difesa fisica, non divennero oggetto di discussione alla base e quindi elemento dello sviluppo della capacità ideologica e politica del partito.

   Avvenne così che il I Congresso del partito, quello tenuto a Livorno nel teatro San Marco subito dopo la scissione, si pose solo dei compiti di carattere organiz­zativo immediato: formazione degli organismi centrali e inquadramento genera­le del partito. Il II Congresso avrebbe potuto e forse dovuto esaminare e impo­stare le suddette questioni, ma a ciò si opposero i seguenti elementi:

   1) il fatto che non solo la massa, ma anche una grande parte degli elementi più responsabili e più vicini alla direzione del partito ignoravano letteralmente che esistessero divergenze profonde ed essenziali fra la linea seguita dal nostro partito e quella sostenuta dall'Internazionale;

   2) l'essere il partito assorbito dalla lotta diretta fisica portava a sottovalutare le questioni ideologiche e politiche in confronto di quelle puramente organizza­tive. Era quindi naturale che sorgesse nel partito uno stato d'animo contrario a priori ad approfondire ogni questione che potesse prospettare pericoli di conflitti gravi nel gruppo dirigente costituitosi a Livorno;

   3) il fatto che l'opposizione rivelatasi al Congresso di Roma e che diceva di essere la sola rappresentante delle direttive dell'Internazionale era, nella situa­zione data, un'espressione dello stato d'animo di stanchezza e di passività che esisteva in alcune zone del partito.

   La crisi subita sia dalla classe dominante che dal proletariato nel periodo prece­dente l'avvento del fascismo al potere, pose nuovamente il nostro partito dinanzi ai problemi che il Congresso di Roma non aveva avuto la possibilità di risolvere. In che cosa consistette questa crisi? I gruppi di sinistra della borghesia, fautori a parole di un governo democratico che si proponesse di arginare energicamente il movimento fascista, avevano reso arbitro il Partito socialista di accettare e non accettare questa soluzione per liquidarlo politicamente sotto il cumulo delle re­sponsabilità di un mancato accordo antifascista. In questo stesso modo di porre la questione da parte dei democratici era implicita la preventiva capitolazione di­nanzi al movimento fascista, fenomeno che si riprodusse poi nella crisi Matteotti. Tuttavia tale impostazione se ebbe in un primo tempo il potere di determinare una chiarificazione nel Partito socialista, essendosi in base ad essa prodotta la scis­sione dei massimalisti dai riformisti, aggravava però la situazione del proletaria­to. Infatti la scissione rendeva infruttuosa la tattica proposta dai democratici, in quanto il governo di sinistra da questi prospettato doveva comprendere il Partito socialista unito, cioè significare la cattura della maggioranza della classe proleta­ria organizzata nell'ingranaggio dello Stato borghese anticipando la legislazione fascista e rendendo politicamente inutile l'esperimento diretto fascista. D'altronde la scissione, come apparve più chiaramente in seguito, solo macchinalmente ave­va portato a uno sbalzo a sinistra dei massimalisti, i quali, se affermavano di vo­lere aderire all'Internazionale comunista e quindi di riconoscere l'errore commesso a Livorno, si muovevano però con tante riserve e reticenze mentali da neutraliz­zare il risveglio rivoluzionario che la scissione aveva determinato nelle masse, por­tandole così a nuove disillusioni e una ricaduta di passività, di cui approfittò il fascismo per effettuare la marcia su Roma.

    Il nuovo corso nel partito

  Questa nuova situazione si rifletté al IV Congresso dell'Internazionale comu­nista, dove si arrivò alla formazione del comitato di fusione dopo incertezze e resistenze che erano legate alla persuasione radicata nella maggioranza dei dele­gati del nostro partito che lo spostamento dei massimalisti non rappresentava che una oscillazione transitoria e senza avvenire. In ogni modo è da questo momento che si inizia nell'interno del nostro partito un processo di differenziazione nel gruppo dirigente di Livorno, processo che prosegue incessantemente ed esce dal campo del fenomeno di gruppo per divenire proprio di tutto il partito, quando si avvertono e si sviluppano gli elementi della crisi del fascismo iniziatosi col Con­gresso di Torino del Partito popolare.

   Appare sempre più evidente che occorre far uscire il partito dalla posizione man­tenuta nel 1921-22, se si vuole che il movimento comunista si sviluppi parallela­mente alla crisi che subisce la classe dominante. La pregiudiziale che aveva avuto una così larga importanza nel passato, per la quale occorreva prima di tutto man­tenere l'unità organizzativa del partito, veniva a cadere per il fatto che, nella si­tuazione di conflitto tra il nostro partito e l'Internazionale, si costituiva nelle no­stre file uno stato di frazione latente che trovava la sua espressione in gruppi net­tamente di destra, spesso con carattere liquidazionista. Tardare ancora a porre in tutta la loro ampiezza le questioni fondamentali di tattica, sulle quali fino allora si era esitato ad aprire la discussione, avrebbe significato determinare una crisi generale del partito senza uscita.

   Avvennero così nuovi raggruppamenti che andarono sempre più sviluppando­si, fino alla vigilia del nostro III Congresso, quando fu possibile accertare che non solo la grande maggioranza alla base del partito (che non era stata mai aperta­mente interpellata), ma anche la maggioranza del vecchio gruppo dirigente si era staccata nettamente dalla concezione e dalla posizione politica di estrema si­nistra, per portarsi completamente sul terreno dell'Internazionale e del leninismo.

    L'importanza del III Congresso

  Da ciò che è stato detto finora, appare chiaramente quanto fossero grandi l'im­portanza e i compiti del nostro III Congresso. Esso doveva chiudere tutta un'e­poca della vita del nostro partito, ponendo termine alla crisi interna e determi­nando uno schieramento stabile di forze tale da permettere uno sviluppo norma­le della sua capacità di direzione politica delle masse da parte del partito e quindi della sua capacità d'azione.

   Ha il congresso effettivamente risolto questi compiti? Indubbiamente tutti i lavori del congresso hanno dimostrato come, nonostante le difficoltà della situa­zione, il nostro partito sia riuscito a risolvere la sua crisi di sviluppo raggiungen­do un livello di omogeneità, di compattezza e di stabilizzazione notevole e certa­mente superiore a quello di molte altre sezioni dell'Internazionale. L'intervento nelle discussioni di congresso dei delegati di base, alcuni dei quali venuti dalle regioni dove più è difficile l'attività del partito, ha dimostrato come gli elementi fondamentali del dibattito, fra l'Internazionale e il Comitato centrale da una parte e l'opposizione dall'altra, siano stati non solo meccanicamente assorbiti dal par­tito, ma, avendo determinato una convinzione consapevole e diffusa, abbiano contribuito ad elevare, in misura impreveduta anche dagli stessi compagni più ottimisti, il tono della vita intellettuale della massa dei compagni e la loro capa­cità di direzione e di iniziativa politica.

   Questo ci pare il significato più rilevante del congresso. É risultato che il no­stro partito non solo può dirsi di massa per l'influenza che esso esercita sui larghi strati della classe operaia e della massa contadina, ma perché ha acquistato nei singoli elementi che lo compongono una capacità di analisi delle situazioni, di iniziativa politica e di forza dirigente che nel passato gli mancavano e che sono la base della sua capacità di direzione collettiva.

   D'altronde tutto lo svolgimento dei lavori condotti alla base per organizzare ideologicamente e praticamente il congresso nelle regioni e nelle province dove la repressione poliziesca vigila con maggiore intensità ogni movimento dei nostri compagni, e il fatto che si sia riusciti per sette giorni a tenere riuniti oltre sessanta compagni per il congresso del partito, e quasi altrettanti per il congresso giovani­le, sono di per se stessi una prova dello sviluppo più sopra accennato. É evidente per tutti che questo movimento di compagni e di organizzazioni non è solamen­te un puro fatto organizzativo, ma costituisce di per sé un'altissima manifesta­zione di valore politico.

   Poche cifre in proposito. Sono state tenute nella prima fase della preparazione congressuale dalle due alle tre mila riunioni di base che hanno culminato in oltre un centinaio di congressi provinciali, ove furono scelti, dopo ampie discussioni, i delegati al congresso.

    Valore politico e risultati acquisiti

  Ogni operaio è in grado di apprezzare tutto il significato di queste poche cifre che è possibile pubblicare, dopo cinque anni dall'epoca dell'occupazione delle fabbriche e tre anni di governo fascista che ha intensificato l'opera generale di controllo su ogni attività di massa e ha realizzato un'organizzazione di polizia che è grandemente superiore alle organizzazioni poliziesche precedentemente esistite.

   Poiché la maggiore debolezza dell'organizzazione operaia tradizio­nale si ma­nifestava essenzialmente nello squilibrio permanente e che diventava catastrofico nei momenti culminanti dell'attività di massa, tra la potenzialità dei quadri or­ganizzativi di partito e la spinta spontanea dal basso, è evidente che il nostro par­tito è riuscito, nonostante le condizioni estremamente sfavorevoli dell'attuale pe­riodo, a superare in misura notevole questa debolezza e a predisporre forze orga­nizzative coordinate e centralizzate che assicurano la classe operaia contro gli er­rori e le insufficienze che si verificavano nel passato. É questo un altro dei signifi­cati più importanti del nostro congresso: la classe operaia è capace di azione e dimostra di essere storicamente in grado di compiere la sua missione direttrice nella lotta anticapitalistica, nella misura in cui riesce ad esprimere dal suo seno tutti gli elementi tecnici che nella società moderna si dimostrano indispensabili per l'organizzazione concreta delle istituzioni in cui si realizzerà il programma proletario. E da questo punto di vista occorre analizzare tutta l'attività del movi­mento fascista dal 1921 fino alle ultime leggi fascistissime: essa è stata sistemati­camente rivolta a distruggere i quadri che il movimento proletario e rivoluziona­rio aveva faticosamente elaborato in quasi cinquant'anni di storia. In questo mo­do il fascismo riusciva nella praticità immediata a privare la classe operaia della sua autonomia e indipendenza politica e la costringeva o alla passività, cioè a una subordinazione inerte all'apparato statale, oppure, nei momenti di crisi politica, come nel periodo Matteotti, a ricercare quadri di lotta in altre classi meno esposte alla repressione.

   Il nostro partito è rimasto il solo meccanismo che la classe operaia abbia a sua disposizione per selezionare nuovi quadri dirigenti di classe, cioè per riconquista­re la sua indipendenza ed autonomia politica. Il congresso ha dimostrato come il nostro partito sia riuscito brillantemente a risolvere questo compito essenziale.

   Due erano gli obbiettivi fondamentali che dovevano essere raggiunti dal congresso:

   1) dopo le discussioni e i nuovi schieramenti di forze che si erano verificati così come abbiamo detto precedentemente, occorreva unificare il partito, sia nel ter­reno dei principi e della pratica di organizzazione che nel terreno più strettamen­te politico;

   2) il congresso era chiamato a stabilire la linea politica del partito per il prossi­mo avvenire e ad elaborare un programma di lavoro pratico in tutti i campi di attività delle masse.

   I problemi che si ponevano per raggiungere concreti obbiettivi non sono natu­ralmente indipendenti l'uno dall'altro, ma sono coordinati nel quadro della con­cezione generale del leninismo. La discussione del congresso perciò, anche quan­do si svolgeva intorno agli aspetti tecnici di ogni singola questione pratica, pone­va la questione generale dell'accettazione o meno del leninismo. Il congresso doveva quindi servire a mettere in evidenza in quale misura il nostro partito era diventato un partito bolscevico.

    Gli obbiettivi fondamentali

  Partendo da un apprezzamento storico e politico immediato della funzione della classe operaia nel nostro paese, il congresso dette una soluzione a tutta una serie di problemi che possono raggrupparsi così:

   1) Rapporti fra il Comitato centrale del partito e la massa del partito, a) In questo gruppo di problemi rientra la discussione generale sulla natura del parti­to, sulla necessità che esso sia un partito di classe, non solo astrattamente, cioè in quanto il programma accettato dai suoi membri esprime le aspirazioni del pro­letariato, ma per così dire, fisiologicamente, in quanto cioè la grande maggio­ranza dei suoi componenti è formata di proletari e in esso si riflettono e si riassu­mono solamente i bisogni e la ideologia di una sola classe: il proletariato, b) La subordinazione completa di tutte le energie del partito in tal modo socialmente unificate alla direzione del Comitato centrale.

   La lealtà di tutti gli elementi del partito verso il Comitato centrale deve diven­tare non solo un fatto puramente organizzativo e disciplinare, ma un vero princi­pio di etica rivoluzionaria. Occorre infondere nelle masse del partito una convin­zione così radicata di questa necessità, che le iniziative frazionistiche e ogni ten­tativo in generale di disgregare la compagine del partito debbano trovare alla ba­se una reazione spontanea e immediata che le soffochi sul nascere. L'autorità del Comitato centrale, tra un congresso e l'altro, non deve mai essere posta in discus­sione, e il partito deve diventare un blocco omogeneo. Solo a tale condizione il partito sarà in grado di vincere i nemici di classe. Come potrebbe la massa dei senza-partito aver fiducia che lo strumento di lotta rivoluzionaria, il partito, rie­sca a condurre senza tentennamenti e senza oscillazioni la lotta implacabile per conquistare e mantenere il potere, se la Centrale del partito non ha la capacità e l'energia necessaria per eliminare tutte le debolezze che possono incrinare la sua compattezza?

   I due punti precedenti sarebbero di impossibile realizzazione se, nel partito, alla omogeneità sociale e alla compattezza monolitica della organizzazione non si aggiungesse la coscienza diffusa di una omogeneità ideologica e politica.

   Concretamente la linea che il partito deve seguire può essere espressa in questa formula: il nucleo della organizzazione di partito consiste in un forte Comitato centrale, strettamente collegato con la base proletaria del partito stesso, sul terre­no della ideologia e della tattica del marxismo-leninismo.

   Su questa serie di problemi la enorme maggioranza del congresso si è netta­mente pronunciata in senso favorevole alle tesi del Comitato centrale ed ha re­spinto non solo senza la minima concessione, ma anzi insistendo sulla necessità della intransigenza teorica e della inflessibilità pratica, le concezioni dell'opposi­zione che potrebbe mantenere il partito in uno stato di deliquescenza e di amorfismo politico e sociale.

   2) Rapporti del partito con la classe proletaria (cioè con la classe in cui il partito è il diretto rappresentante, con la classe che ha il compito di dirigere la lotta anti­capitalistica e di organizzare la nuova società). In questo gruppo di problemi rientra l'apprezzamento della funzione del proletariato nella società italiana, cioè del grado di maturità di tale società a trasformarsi da capitalista in socialista e quindi delle possibilità per il proletariato di diventare classe indipendente e dominante. Il congresso ha perciò discusso: a) la questione sindacale, che per noi è essenzial­mente questione della organizzazione delle più larghe masse, come classe a sé stante, sulla base degli interessi economici immediati, e come terreno di educa­zione politica rivoluzionaria; b) la questione del fronte unico, cioè dei rapporti di direzione politica fra la parte più avanzata del proletariato e le frazioni meno avanzate di esso.

   3) Rapporti della classe proletaria nel suo complesso con le altre forze sociali che oggettivamente sono sul terreno anticapitalistico, quantunque siano dirette da partiti e gruppi politici legati alla borghesia; quindi in primo luogo i rapporti fra il proletariato e i contadini. Anche su tutta quest'altra serie di problemi la enorme maggioranza del congresso respinse le concezioni errate dell'opposizione e si schierò in favore delle soluzioni date dal Comitato centrale.

    Come si sono schierate le forze del congresso

  Accennammo già all'atteggiamento che la stragrande maggioranza del congresso ha assunto nei riguardi delle soluzioni da dare ai problemi essenziali nel periodo attuale. É opportuno però analizzare più dettagliatamente l'atteggiamento as­sunto dall'opposizione e accennare, sia pure brevemente, ad altri atteggiamenti che si sono presentati al congresso come atteggiamenti individuali, ma che po­trebbero nell'avvenire coincidere con determinati momenti transitori nello svi­luppo della situazione italiana, e che perciò devono essere fin da ora denunziati e combattuti. Abbiamo già accennato nei primi paragrafi di questa esposizione ai modi e alle forme che hanno caratterizzato la crisi di sviluppo del nostro parti­to negli anni dal 1921 al 1924. Ricorderemo brevemente come al V Congresso mondiale la crisi stessa trovasse una soluzione provvisoria organizzativa con la costituzione di un Comitato centrale che nel suo complesso si poneva completa­mente sul terreno del leninismo e della tattica dell'Internazionale comunista, ma che si scomponeva in tre parti, di cui, una, che aveva la maggioranza più uno nel comitato stesso, rappresentava gli elementi di sinistra che si erano staccati dal vecchio gruppo di Livorno dopo il IV Congresso, un'altra che rappresentava l'op­posizione costituitasi al II Congresso contro le tesi di Roma, e la terza che rap­presentava gli elementi terzini, entrati nel partito dopo la fusione. Nonostante le sue intrinseche debolezze, tuttavia per il fatto che la funzione dirigente nel suo seno era nettamente esercitata dal cosiddetto gruppo di centro, cioè dagli ele­menti di sinistra staccatisi dal gruppo dirigente di Livorno, il Comitato centrale riuscì ad impostare e a risolvere energicamente il problema della bolscevizzazio­ne del partito e del suo accordo completo con le direttive dell'Internazionale comunista.

    Atteggiamenti dell'estrema sinistra

  Certamente vi furono delle resistenze, e l'episodio culminante di esse, che tut­ti i compagni ricordano, fu la costituzione del Comitato d'intesa, cioè il tentati­vo di costituire una frazione organizzata che si contrapponesse al Comitato cen­trale nella direzione del partito. In realtà la costituzione del Comitato d'intesa fu il sintomo più rilevante della disgregazione dell'estrema sinistra, la quale, poiché sentiva di perdere progressivamente terreno nelle file del partito, cercò di galva­nizzare con un atto clamoroso di ribellione le poche forze che ancora le rimane­vano. È notevole il fatto che, dopo la sconfitta ideologica e politica subita dall'e­strema sinistra già nel periodo precongressuale, il nucleo di essa più resistente sia andato assumendo posizioni sempre più settarie e di ostilità verso il partito dal quale si sentiva ogni giorno più lontano e staccato. Questi compagni non solo continuarono a mantenersi sul terreno della più strenua opposizione su determi­nati punti concreti della ideologia e della politica del partito e dell'Internaziona­le, ma cercarono sistematicamente motivi di opposizione su tutti i punti, in mo­do da presentarsi in blocco quasi come un partito nel partito. È facile immagina­re che, partendo da una tale posizione, si dovesse arrivare, durante lo svolgimen­to del congresso, ad atteggiamenti teorici e pratici, nei quali la drammaticità che era un riflesso della situazione generale in cui il partito deve muoversi, difficil­mente era distinguibile da un certo istrionismo, che appariva di maniera a chi realmente aveva lottato e si era sacrificato per la classe proletaria.

   In quest'ordine di avvenimenti dev'essere posta, ad esempio, la pregiudiziale presentata dall'opposizione, subito alla apertura del congresso, con la quale la validità deliberativa di esso veniva contestata, cercandosi in tal modo di precosti­tuire un alibi per una possibile ripresa di attività frazionistica e per un possibile misconoscimento dell'autorità della nuova dirigenza del partito. Alla massa dei congressisti, che conoscevano quali sacrifici e quali sforzi organizzativi fosse co­stata la preparazione del congresso, questa pregiudiziale apparve una vera e pro­pria provocazione e non è senza significato che gli unici applausi (il regolamento del congresso proibiva per ragioni comprensibili ogni manifestazione clamorosa di consenso o di biasimo) furono rivolti all'oratore che stigmatizzò l'atteggiamento assunto dall'opposizione e sostenne la necessità di rafforzare dimostrativamente il nuovo comitato da eleggersi con mandato specifico di implacabile rigore con­tro qualsiasi iniziativa che praticamente mettesse in dubbio l'autorità del con­gresso e l'efficienza delle sue deliberazioni.

    Affioramento di deviazioni di destra

  Allo stesso ordine di avvenimenti, e in modo aggravato per la forma manierata e teatrale, appartiene anche l'atteggiamento assunto dall'opposizione, prima della fine del congresso, quando si stavano per trarre le conclusioni politico-organizzative dei lavori del congresso stesso. Ma gli stessi elementi dell'opposizione poterono avere la netta dimostrazione di quello che è lo stato d'animo diffuso nelle file del partito: il partito non intende permettere che si giochi più a lungo al frazio­nismo e all'indisciplina; il partito vuole realizzare il massimo di direzione collet­tiva e non permetterà a nessun singolo, qualunque sia il suo valore personale, di contrapporsi al partito.

   Nelle sedute plenarie del congresso l'opposizione di estrema sinistra è stata la sola opposizione ufficiale e dichiarata. L'atteggiamento di opposizione sulla que­stione sindacale assunto da due membri del vecchio Comitato centrale per il suo carattere di improvvisazione e di impulsività, è da considerarsi piuttosto come un fenomeno individuale di isterismo politico, che di opposizione in senso siste­matico. Durante i lavori della commissione politica invece ci fu una manifesta­zione che, se può ritenersi per adesso di carattere puramente individuale deve essere considerata, dati gli elementi ideologici che ne formavano la base, come una vera e propria piattaforma di destra, che potrebbe essere presentata al partito in una situazione determinata, e che perciò doveva essere, come fu, respinta sen­za esitazione, dato specialmente che di essa si era fatto portavoce un membro della vecchia Centrale. Questi elementi ideologici sono: 1) l'affermazione che il governo operaio e contadino può costituirsi sulla base del parlamento borghese; 2) l'affermazione che la socialdemocrazia non deve essere ritenuta come l'ala si­nistra della borghesia ma come l'ala destra del proletariato; 3) che nella valuta­zione dello Stato borghese occorre distinguere la funzione di oppressione di una classe sull'altra dalla funzione di produzione di determinate soddisfazioni a certe esigenze generali della società.

   Il primo e il secondo di tali elementi sono contrari alle decisioni del III Con­gresso; il terzo è fuori dalla concezione marxista dello Stato. Tutti e tre insieme rivelano un orientamento a concepire la soluzione della crisi della società borghe­se all'infuori della rivoluzione.

    La linea politica fissata dal partito

  Poiché così si schierarono le forze rappresentate al Congresso, cioè come una più rigida opposizione dei residui dell'«estremismo» contro le posizioni teori­che e pratiche della maggioranza del partito, accenneremo rapidamente solo ad alcuni punti della linea stabilita dal congresso.

   Quistione ideologica. Su tale quistione il congresso affermò la necessità che sia sviluppato dal partito tutto un lavoro di educazione che rafforzi la conoscenza nella nostra dottrina marxista nelle file del partito e sviluppi la capacità del più largo strato dirigente. Su questo punto l'opposizione cercò di fare un'abile diver­sione: riesumò alcuni vecchi articoli e brani di articoli di compagni della maggio­ranza del partito per sostenere che essi solo relativamente tardi hanno accettato integralmente la concezione del materialismo storico quale risulta dalle opere di Marx e di Engels, e sostenevano invece la interpretazione che del materialismo storico era data da Benedetto Croce. Poiché è noto che anche le tesi di Roma sono state giudicate come essenzialmente ispirate dalla filosofia crociana, questa argo­mentazione dell'opposizione apparve come ispirata a pura demagogia congres­suale. In ogni caso, poiché la quistione non è di individui singoli, ma di masse, la linea stabilita dal congresso, della necessità di un lavoro specifico di educazio­ne per elevare il livello della cultura generale marxista del partito, riduce la pole­mica dell'opposizione a una esercitazione erudita di ricerca di elementi biografi­ci più o meno interessanti sullo sviluppo intellettuale di singoli compagni.

   Tattica del partito. Il congresso ha approvato e ha difeso energicamente contro gli attacchi dell'opposizione la tattica seguita dal partito nell'ultimo periodo della storia italiana caratterizzato dalla crisi Matteotti. Occorre dire che l'opposizione non ha cercato di contrapporre all'analisi che della situazione italiana è stata fat­ta dalla Centrale nelle tesi per il congresso né un'altra analisi che portasse a stabi­lire una linea tattica diversa, né delle correzioni parziali che giustificassero una posizione di principio. É stato caratteristico anzi della falsa posizione della estre­ma sinistra il fatto che mai le sue osservazioni e le sue critiche si siano basate su un esame né approfondito e neanche superficiale dei rapporti di forza e delle con­dizioni generali esistenti nella società italiana. Risultò così chiaramente come il metodo proprio dell'estrema sinistra, e che l'estrema sinistra dice essere dialetti­co, non è il metodo della dialettica materialistica proprio di Marx, ma il vecchio metodo della dialettica concettuale proprio della filosofia premarxista e persino prehegeliana.

   All'analisi oggettiva delle forze in lotta e della direzione che esse assumono contraddittoriamente in rapporto allo sviluppo delle forze materiali della società, l'opposizione sostituiva la affermazione di essere in possesso di uno speciale e misterioso «fiuto» secondo il quale il partito dovrebbe essere diretto. Strana aber­razione che autorizzava il congresso a giudicare estremamente pericoloso e dele­terio per il partito un tale meto­do che porterebbe solo a una politica di improvvi­sazione e di avventure.

   Che d'altronde l'opposizione non abbia mai posseduto un proprio metodo ca­pace di sviluppare le forze del partito e le energie rivoluzionarie del proletariato che possa essere contrapposto al metodo marxista e leninista, è dimostrato dal­l'attività svolta dal partito negli anni 1921-22, quando era politicamente diretto da alcuni degli attuali irriducibili oppositori. A questo proposito furono dal con­gresso analizzati due momenti della situazione italiana, e cioè l'atteggiamento assunto dalla direzione del partito nel febbraio 1921, quando fu sferrata l'offen­siva frontale del fascismo in Toscana e in Puglia, e l'atteggiamento della stessa direzione verso il movimento degli arditi del popolo. Dall'analisi di questi due momenti risultò come il metodo affermato dall'opposizione porti solo alla passi­vità e alla inazione e consista in ultima analisi semplicemente nel trarre dagli av­venimenti ormai svoltisi senza l'intervento del partito nel suo complesso, degli insegnamenti di solo carattere pedagogico e propagandistico.

    La quistione sindacale

  Nel campo sindacale il difficile compito del partito consiste nel trovare un giu­sto accordo fra queste due linee di attività pratica:

   1) difendere i sindacati di classe cercando di mantenere il massimo di coesione e di organizzazione sindacale fra le masse che tradizionalmente hanno partecipa­to all'organizzazione sindacale stessa. É questo un compito di eccezionale impor­tanza, perchè il partito rivoluzionario deve sempre, anche nelle peggiori situa­zioni oggettive, tendere a conservare tutte le accumulazioni di esperienza e di capacità tecnica e politica che si sono venute formando attraverso gli sviluppi del­la storia passata nella massa proletaria. Per il nostro partito la Confederazione generale del lavoro costituisce in Italia l'organizzazione che storicamente espri­me in modo più organico queste accumulazioni di esperienze di capacità e rap­presenta quindi il terreno entro il quale deve essere condotta questa difesa.

   2) Tenendo conto del fatto che l'attuale dispersione delle grandi masse lavora­trici è dovuta essenzialmente a motivi che non sono interni della classe operaia, per cui esistono possibilità organizzative immediate di carattere non strettamen­te sindacale, il partito deve proporsi di favorire e promuovere attivamente queste possibilità. Questo compito può essere adempiuto solo se il lavoro organizzativo di massa viene trasportato dal terreno corporativo nel terreno industriale di fab­brica e i legami dell'organizzazione di massa diventano elettivi e rappresentativi, oltre che di adesione individuale per via di tessera sindacale.

   É chiaro d'altronde che questa tattica del partito corrisponde allo sviluppo normale dell'organizzazione di massa proletaria, quale si era verificata durante e do­po la guerra, cioè nel periodo in cui il proletariato ha incominciato a porsi il pro­blema di una lotta a fondo contro la borghesia per la conquista del potere. In questo periodo la tradizionale forma organizzativa del sindacato di mestiere era stata integrata da tutto un sistema di rappresentanze elettive di fabbrica, cioè dalle commissioni interne. É noto anche che, specialmente durante la guerra, quando le centrali sindacali aderirono ai comitati di mobilitazione industriale e determi­narono quindi una situazione di «pace industriale» per alcuni aspetti analoga a quella presente, le masse operaie di tutti i paesi (Italia, Francia, Russia, Inghil­terra e anche gli Stati Uniti) ritrovarono le vie della resistenza e della lotta sotto la guida delle rappresentanze elettive operaie di fabbrica.

   La tattica sindacale del partito consiste essenzialmente nello sviluppare tutta l'esperienza organizzativa delle grandi masse premendo sulle possibilità di più immediata realizzazione, considerate le difficoltà oggettive che sono create al mo­vimento sindacale dal regime borghese da una parte e dal riformismo confedera­le dall'altra.

   Questa linea è stata approvata integralmente dalla stragrande maggioranza del congresso. Intorno ad essa tuttavia avvennero le discussioni più appassionate, e l'opposizione fu rappresentata, oltre che dall'estrema sinistra, anche da due membri della Centrale, così come abbiamo già accennato. Un oratore sostenne che il sin­dacato è storicamente superato, perchè unica azione di massa del partito deve essere quella che si svolge nelle fabbriche. Questa tesi, legata alle più assurde po­sizioni dell'infantilismo estremista, fu nettamente ed energicamente respinta dal congresso.

   Per un altro oratore invece l'unica attività del partito in questo campo deve essere l'attività organizzativa sindacale tradizionale: questa tesi è legata stretta­mente ad una concezione di destra, cioè alla volontà di non urtare troppo grave­mente con la burocrazia sindacale riformista che si oppone strenuamente ad ogni organizzazione di massa.

   L'opposizione dell'estrema sinistra era guidata da due direttive fondamentali: la prima, di carattere essenzialmente congressuale, tendeva alla dimostrazione che la tattica delle organizzazioni di fabbrica, sostenuta dal Comitato centrale e dalla maggioranza del congresso, è legata alla concezione dell'«Ordine Nuovo» setti­manale che, secondo l'estrema sinistra, era proudhoniana e non marxista; l'altra è legata alla quistione di principio in cui l'estrema sinistra si contrappone netta­mente al leninismo: il leninismo sostiene che il partito guida la classe attraverso le organizzazioni di massa e sostiene quindi come uno dei compiti essenziali del partito lo sviluppo dell'organizzazione di massa; per l'estrema sinistra invece questo problema non esiste, e si danno al partito tali funzioni che possono portare da una parte alle peggiori catastrofi e dall'altra ai più pericolosi avventurismi.

   Il Congresso ha rigettato tutte queste deformazioni della tattica sindacale co­munista, pur ritenendo necessario insistere con particolare energia sulla necessità di una maggiore e più attiva partecipazione dei comunisti al lavoro nell'organiz­zazione sindacale tradizionale.

    La quistione agraria

  II partito ha cercato, per ciò che riguarda la sua azione tra i contadini, di uscire dalla sfera della semplice propaganda ideologica tendente a diffondere solo astrat­tamente i termini generali della soluzione leninista del problema stesso, per en­trare nel terreno pratico dell'organizzazione e dell'azione politica reale. É evi­dente che ciò era più facile da ottenersi in Italia che negli altri paesi perché nel nostro paese il processo di differenziazione delle grandi masse della popolazione è per certi aspetti più avanzato che altrove, in conseguenza della situazione poli­tica attuale. D'altronde una tale quistione, dato che il proletariato industriale è da noi solo una minoranza della popolazione lavoratrice, si pone con maggiore intensità che altrove. Il problema di quali siano le forze motrici della rivoluzione e quello della funzione direttiva del proletariato si presentano in Italia in forme tali da domandare una particolare attenzione del nostro partito per la ricerca di soluzioni concrete ai problemi generali che si riassumono nell'espressione: qui­stione agraria.

   La grande maggioranza del congresso ha approvato l'impostazione che il parti­to ha dato a questi problemi e ha affermato la necessità di una intensificazione del lavoro secondo la linea generale già parzialmente applicata.

   In che cosa consiste praticamente questa attività? Il partito deve tendere a crea­re in ogni regione delle unioni regionali dell'Associazione di difesa dei conta­dini: ma, entro questi quadri organizzativi più larghi, occorre distinguere quat­tro raggruppamenti fondamentali delle masse contadine per ognuno dei quali è necessario trovare atteggiamenti e soluzioni politiche ben precise e complete.

   Uno di questi raggruppamenti è costituito dalle masse dei contadini slavi del­l'Istria e del Friuli, la cui organizzazione è legata strettamente alla questione na­zionale. Un secondo è costituito dal particolare movimento contadino che si rias­sume sotto il titolo di «Partito dei contadini» e che ha la sua base specialmente nel Piemonte; per questo raggruppamento, di carattere aconfessionale e di carat­tere più strettamente economico, vale l'applicazione dei termini generali della tattica agraria del leninismo, dato anche il fatto che tale raggruppamento esiste nella regione in cui esiste uno dei centri proletari più efficienti in Italia. I due altri raggruppamenti sono di gran lunga i più considerevoli e sono quelli che do­mandano la maggiore attenzione del partito, e cioè: 1) la massa dei contadini cattolici, raggruppati nell'Italia centrale e settentrionale, i quali sono direttamente organizzati dall'Azione cattolica e dall'apparato ecclesiastico in generale, cioè dal Vaticano; 2) la massa dei contadini dell'Italia meridionale e delle isole.

   Per ciò che riguarda i contadini cattolici, il congresso ha deciso che il partito deve continuare e deve sviluppare la linea che consiste nel favorire le formazioni di sinistra che si verificano in questo campo e che sono strettamente legate alla crisi generale agraria iniziatasi già prima della guerra nel centro e nel nord d'Ita­lia. Il Congresso ha affermato che l'atteggiamento assunto dal partito verso i con­tadini cattolici, sebbene contenga in sé alcuni degli elementi essenziali per la so­luzione del problema politico-religioso italiano, non deve in nessun modo con­durre a favorire i tentativi, che possono nascere di movimenti ideologici di natura strettamente religiosa. Il compito del partito consiste nello spiegare i conflitti che nascono sul terreno della religione come derivanti dai conflitti di classe e nel ten­dere a mettere sempre in maggiore rilievo i caratteri di classe di questi conflitti e non, viceversa, nel favorire soluzioni religiose dei conflitti di classe, anche se tali soluzioni si presentano come di sinistra in quanto mettono in discussione l'au­torità dell'organizzazione ufficiale religiosa.

   La quistione dei contadini meridionali è stata esaminata dal congresso con par­ticolare attenzione. Il congresso ha riconosciuto esatta l'affermazione contenuta nelle tesi della Centrale, secondo la quale la funzione della massa contadina me­ridionale nello svolgimento della lotta anticapitalistica italiana deve essere esa­minata a sé e portare alla conclusione che i contadini meridionali sono, dopo il proletariato industriale e agricolo dell'Italia del nord, l'elemento sociale più ri­voluzionario della società italiana.

   Quale è la base materiale e politica di questa funzione delle masse contadine del sud? I rapporti che intercorrono tra il capitalismo italiano e i contadini meri­dionali non consistono solamente nei normali rapporti storici tra città e campa­gna, quali sono stati creati dallo sviluppo del capitalismo in tutti i paesi del mon­do; nel quadro della società nazionale questi rapporti sono aggravati e radicalizzati dal fatto che economicamente e politicamente tutta la zona meridionale e delle isole funziona come una immensa campagna di fronte all'Italia del nord, che funziona come un'immensa città. Una tale situazione determina nell'Italia meridionale il formarsi e lo svilupparsi di determinati aspetti di una questione nazionale, se pure immediatamente essi non assumano una forma esplicita di ta­le questione nel suo complesso, ma solo di una vivacissima lotta a carattere regio­nalistico e di profonde correnti verso il decentramento e le autonomie locali.

   Ciò che rende caratteristica la situazione dei contadini meridionali è il fatto che essi, a differenza dei tre raggruppamenti precedentemente descritti, non hanno nel loro complesso nessuna esperienza organizzativa autonoma. Essi sono inqua­drati negli schemi tradizionali della società borghese, per cui gli agrari, parte in­tegrante del blocco agrario-capitalistico, controllano le masse contadine e le diri­gono secondo i loro scopi.

   In conseguenza della guerra e delle agitazioni operaie del dopoguerra che ave­vano profondamente indebolito l'apparato statale e quasi distrutto il prestigio sociale delle classi superiori nominate, le masse contadine del Mezzogiorno si so­no risvegliate alla vita propria e faticosamente hanno cercato un proprio inqua­dramento. Così si sono avuti movimenti degli ex-combattenti e i vari partiti co­siddetti di «rinnovamento» che cercavano di sfruttare questo risveglio della massa contadina, qualche volta secondandolo come nel periodo dell'occupazione delle terre, più spesso cercando di deviarlo e quindi di consolidarlo in una posizione di lotta per la cosiddetta democrazia, come è ultimamente avvenuto con la costi­tuzione della «Unione nazionale».

   Gli ultimi avvenimenti della vita italiana che hanno determinato un passaggio in massa della piccola borghesia meridionale al fascismo, hanno reso più acuta la necessità di dare ai contadini meridionali una direzione propria per sottrarsi definitivamente all'influenza borghese agraria. Il solo organizzatore possibile della massa contadina meridionale è l'operaio industriale, rappresentato dal nostro par­tito. Ma perché questo lavoro di organizzazione sia possibile ed efficace occorre che il nostro partito si avvicini strettamente al contadino meridionale, che il no­stro partito distrugga nell'operaio industriale il pregiudizio inculcatogli dalla pro­paganda borghese che il Mezzogiorno sia una palla di piombo che si oppone ai più grandi sviluppi dell'economia nazionale e distrugga nel contadino meridionale il pregiudizio ancora più pericoloso per cui egli vede nel nord d'Italia un solo blocco di nemici di classe.

   Per ottenere questi risultati occorre che il nostro partito svolga un'intensa ope­ra di propaganda anche nell'interno della sua organizzazione per dare a tutti i compagni una coscienza esatta dei termini della questione, la quale, se non sarà risolta in modo chiaroveggente e rivoluzionariamente saggio da noi, renderà pos­sibile alla borghesia, sconfitta nella sua zona, di concentrarsi nel sud per fare di questa parte d'Italia la piazza d'armi della controrivoluzione.

   Su tutta questa serie di problemi, l'opposizione di estrema sinistra non riuscì a dire che delle barzellette e dei luoghi comuni. La sua posizione essenziale fu quella di negare aprioristicamente che questi problemi concreti esistano in sé, senza nessuna analisi o dimostrazione neanche potenziale. Si può dire anzi che appunto nei riguardi della questione agraria, apparve la vera essenza della conce­zione dell'estrema sinistra, la quale consiste in una specie di corporativismo che aspetta meccanicamente dal solo sviluppo delle condizioni obiettive generali la realizzazione dei fini rivoluzionari. Tale concezione fu, come abbiamo detto, net­tamente rigettata dalla stragrande maggioranza del congresso.

    Altri problemi trattati

  Per quanto riguarda la questione dell'organizzazione concreta del partito nel­l'attuale periodo, il congresso senza discussione ratificò le deliberazioni della re­cente Conferenza di organizzazione, già pubblicate nell'«Unità».

   Il congresso, dato il modo della sua riunione e gli obiettivi che si proponeva, i quali riguardavano specialmente l'organizzazione interna del partito e il risana­mento della crisi, non potè trattare ampiamente alcune questioni che pure sono essenziali per un partito proletario rivoluzionario. Così solo nelle tesi fu esamina­ta la situazione internazionale in rapporto alla linea politica dell'Internazionale comunista. Nella discussione del congresso tale argomento fu solo sfiorato, e dei problemi internazionali si trattò solo la parte riguardante le forme e i rapporti di organizzazione del Comintern, poiché era questo un elemento della crisi in­terna del partito. Il congresso però ebbe una larghissima ed esauriente relazione sui lavori del recente congresso del partito russo e sul significato delle discussioni in esso svoltesi.

   Cosi il congresso non si occupò del problema dell'organizzazione nel campo femminile, né dell'organizzazione della stampa, argomenti essenziali per il no­stro movimento e che avrebbero meritato una trattazione speciale. Anche la qui­stione della redazione del programma del partito che era stata posta all'ordine del giorno non fu trattata dal congresso. Pensiamo sia necessario rimediare a que­ste manchevolezze con conferenze di partito, appositamente convocate a tale scopo.

    Conclusione

  Nonostante queste parziali deficienze, si può affermare, concludendo, che la massa di lavoro svolta dal congresso sia stata veramente imponente. Il congresso ha elaborato una serie di risoluzioni e un programma di lavoro concreto tali da mettere in grado la classe proletaria di sviluppare le sue energie e la sua capacità di direzione politica nell'attuale situazione.

   Una condizione è specialmente necessaria perché le risoluzioni del congrersso non solo siano applicate, ma diano tutti i frutti che esse possono dare: occorre che il partito si mantenga strettamente unito, che nessun germe di disgregazio­ne, di pessimismo, di passività sia lasciato sviluppare nel suo seno. Tutti i compa­gni del partito sono chiamati a realizzare una tale condizione. Nessuno può met­tere in dubbio che ciò sarà fatto con la più grande delusione di tutti i nemici della classe operaia.