Palmiro Togliatti

Rinnovare l'Italia

Rapporto di Palmiro Togliatti al V Congresso del Partito, Roma 29 dicembre 1945 - 6 gennaio 1946. Testo ripreso da "Da Gramsci a Berlinguer, La via italiana al socialismo attraverso i congressi del Partito comunista italiano", Edizioni del Calendario, 1985, vol. II, pp. 77-117.



  Compagne e compagni, questo nostro congresso nazionale, quinto in ordine di tempo, si riunisce a quattordici anni di distanza dalla precedente, quarta as­semblea nazionale del nostro partito. Quattordici anni! Lungo periodo di storia, pieno di avvenimenti gravi, tragici, pesanti, vorrei dire, per la vita della nazione e dello stato italiano; avvenimenti tali di cui ancora oggi riesce difficile valutare appieno tutte le possibili conseguenze. Il nostro quarto Congresso si riunì infatti nel 1931, e si riunì in terra straniera. Erano presenti ad esso, però, delegati di tutte o quasi tutte le regioni italiane e uomini di tutte le condizioni sociali: ope­rai di Torino e di Milano, braccianti dell'Emilia, intellettuali antifascisti del Mez­zogiorno e di Roma. Io ricordo qui questo fatto con la mente rivolta a coloro che ancora oggi affermano essere stati noi e gli altri esuli dall'Italia negli anni della emigrazione distaccati dalla vita reale del nostro paese. Tutti comprendono, d'altra parte, a quale sforzi di organizzazione, a quale tenacia di propositi e di lavoro e a quale spirito di sacrificio corrispondesse quel risultato. Fra l'altro, il principa­le organizzatore di quella nostra assemblea nazionale, il compagno Pietro Sec­chia, perdette in quel lavoro la libertà che non doveva riacquistare se non dopo la caduta del fascismo.

   Ma se grande fu lo sforzo di organizzazione, ancora più grande dovette essere, allora, lo sforzo di indagine politica e di previsione che ci portò a precisare e con­fermare, con la certezza della vittoria, quella linea di implacabile avversione al fascismo e di lotta senza compromessi contro di esso alla quale dalla nostra fon­dazione fino ad oggi abbiamo tenuto fede. Vi sono cose che oggi sono chiare per tutti, ma non lo erano allora, quando il regime fascista si trovava anzi presso l'a­pogeo della sua illusoria potenza. Ricordate: era chiuso e lontano il periodo del­l'Aventino. Da pochi anni era stato firmato il patto del Laterano insieme con il Concordato. Funzionava in modo normale il Tribunale speciale; e il fascismo dava a tutti l'impressione di dominare incontrastato. Anzi, le prime misure prese dal governo di Mussolini proprio in quell'anno per fronteggiare la crisi economi­ca, sgravando i grandi capitalisti e i grandi banchieri delle conseguenze di essa e facendole ricadere sulle spalle di tutta la nazione, aveva proprio allora creato attorno al fascismo una più stretta e quasi completa unità delle classi possidenti e dirigenti. Poggiando su queste basi il fascismo si preparava attivamente a passa­re alla realizzazione di quella sua politica di espansione imperialistica, di provo­cazione alla guerra, di aggressione contro i popoli liberi, che ora tutti sono d'ac­cordo nel condannare, nel respingere, nel maledire perché tutti ammettono che è stata la causa prima della nostra catastrofe, ma che allora trovava purtroppo ade­sione e consensi da tutte le parti e anche là dove meno avrebbe dovuto trovarne. Ripeto, occorreva una grande capacità di previsione politica per affermare, come allora noi affermammo, che il nostro paese veniva spinto dai suoi governanti ver­so l'abisso, verso la catastrofe.

   In sostanza in quegli anni soltanto il Partito socialista, il movimento di «Giu­stizia e Libertà» e pochi altri gruppi e uomini isolati, intellettuali soprattutto, erano d'accordo con noi in questo giudizio. L'opposizione cattolica, che aveva dato gli ultimi guizzi nelle polemiche successive alla firma del Concordato e circa la sua applicazione, si era rifugiata nei circoli giovanili, e nonostante alcuni auto­revoli documenti di condanna della tirannide fascista provenienti dalle supreme autorità della Chiesa, una parte notevole dell'apparato ecclesiastico si disponeva a interpretare il Concordato nel senso della collaborazione strettissima con le ge­rarchie fasciste in tutta l'attività di queste, anche là dove questa attività urtava più apertamente contro gli interessi del popolo e del paese. E' vero, noi allora non avevamo ancora elaborato appieno la nostra politica di lotta conseguente per la democrazia. Nel manifesto e nella risoluzione del nostro quarto Congresso, e nei documenti del nostro Partito che a quel Congresso seguirono, gli accenti della nostra politica democratica e nazionale già risuonavano in modo aperto e dovevano farsi in seguito sempre più chiari. Noi volevamo fermare il nostro paese sulla china che lo portava verso l'abisso, volevamo salvare l'Italia dalla catastrofe.

   E' superfluo ora indicare passo per passo quali sono state le tappe per cui a quella catastrofe si è arrivati. Prima fu la guerra di brigantaggio contro l'Abissinia, che diede luogo purtroppo a nuove manifestazioni di adesione al regime che ci por­tava alla rovina. Poi venne la guerra di Spagna, nella quale per la prima volta i barbari fascisti sperimentarono in Europa quella tattica di bombardamento in­differenziato delle città e delle popolazioni indifese, di cui purtroppo dovevamo fare noi stessi in seguito la triste esperienza, e di cui tante città e tanti cittadini italiani portano su di sé le tracce dolorose. Quindi Monaco, tentativo del fasci­smo e dello hitlerismo di trascinare i paesi democratici d'Occidente in un blocco contro l'Unione Sovietica, o comunque di rendere questi paesi conniventi con una politica di aggressione al paese del socialismo. E dopo Monaco, il patto con la Germania hitleriana, firmato dal governo fascista e dalla monarchia senza ve­runa consultazione e senza il consenso del popolo italiano; la successiva complici­tà nell'aggressione della Polonia e della Francia, e quindi l'aggressione fascista diretta contro la nazione francese, contro la Grecia, contro la Jugoslavia, contro il popolo inglese, contro i popoli dell'Unione Sovietica, contro gli Stati Uniti, aggressione che segnò l'inizio della marcia a ritmo accelerato verso la disfatta mi­litare e verso l'abisso.

   Correlativamente veniva sviluppandosi la nostra azione di partito, e i motivi della nostra lotta per la democrazia e contro il fascismo si dispiegavano e afferma­vano in modo sempre più chiaro. Si precisa la linea politica generale dei comuni­sti italiani, linea di lotta per l'unità di tutte le forze democratiche, allo scopo di salvare il paese dall'asservimento allo straniero, dalla disfatta e dalla catastrofe. Non c'è un atto, non un documento, non una parola nel nostro partito che ci possa essere rimproverata come contraria agli interessi della nazione italiana. Prima che la guerra scoppiasse abbiamo lottato per la pace, proponendo che ve­nisse rotto il patto con la Germania hitleriana. Questo era infatti il solo modo di salvare la pace e di salvare l'Italia. Scoppiata la guerra, non fummo mai per la disfatta. La nostra parola d'ordine centrale, guida di tutto il nostro lavoro di­retto e dei nostri contatti con gli altri partiti e con gli stessi fascisti delusi della criminale politica mussoliniana, fu quella di salvare il paese dalla disfatta milita­re e dalla catastrofe che vedevamo inevitabile quanto più il fascismo e la monar­chia avessero legato le sorti d'Italia a quelle della Germania hitleriana. Noi non fummo per la disfatta, lo ripeto, ma per la salvezza del paese, e io dico queste parole e le sottolineo rivolgendomi in modo particolare a quei soldati e ufficiali che oggi tornano dalla prigionia, recando nel corpo e nell'anima le tracce di tan­te sofferenze, e giustamente pieni di rancore. Noi comprendiamo lo stato d'ani­mo di questi ufficiali, di questi soldati, comprendiamo che essi cerchino, nella grande confusione che vedono attorno a sé, qualcuno su cui gettare la colpa del fallimento dell'ideale di grandezza del paese nel quale avevano creduto. Noi di­chiariamo a questi combattenti sfortunati che non abbiamo mai disprezzato il loro sacrificio e le loro sofferenze. Abbiamo piuttosto sofferto insieme con loro. Abituati a combattere noi stessi e sacrificarci nel combattimento, non siamo ca­paci di irridere al sacrificio di colui che lotta per un ideale in cui crede. Quello che vogliamo spiegare a questi ufficiali e soldati è che la disfatta militare d'Italia era inevitabile perché aveva le sue radici in tutta la politica del fascismo. Bisogna­va eliminare il fascismo dalla vita italiana, se si voleva evitare il disastro. Per que­sto abbiamo lavorato e combattuto noi comunisti, coscienti di lavorare e combat­tere anche affinché non fosse trascinato nel fango l'onore militare del nostro paese.

   La nostra politica è stata prima della guerra e nel corso di tutta la guerra una politica di unità. Abbiamo combattuto, prima di tutto, per l'unità della classe operaia che sentivamo essere sempre più necessaria quanto più si affermava il fal­limento delle vecchie classi dirigenti raccolte attorno al fascismo, ed era quindi indispensabile ai destini della nazione che si affermasse una forza dirigente nuo­va, compatta, consapevole di chiari e determinati obiettivi e capace di lottare per essi. Ma il nostro appello all'unità si è allargato a tutte le forze democratiche, è andato anzi più in là poiché tutti sanno, ma non è male che io qui lo ricordi, che nel corso della guerra abbiamo rivolto ripetuti appelli anche a forze del cam­po conservatore e monarchico ad abbandonare la politica esiziale del fascismo, a rompere i rapporti con la Germania hitleriana, a uscire dalla guerra, a liquidare a tempo il regime fascista e in questo modo compiere a tempo quel mutamento politico che avrebbe potuto risparmiare al nostro paese tante sofferenze e un così grave disastro. Purtroppo i nostri appelli non furono seguiti ed è solo quando l'Italia era già in fondo all'abisso che ci si è decisi a eliminare Mussolini e il suo regime.

   Accentuatosi e diventato via via più evidente nel corso della guerra il vassallag­gio alla Germania hitleriana, abbiamo concentrato i nostri colpi in questa dire­zione, denunciando il patto che univa l'Italia alla Germania come un patto con­trario a tutte le tradizioni e a tutti gli interessi della nazione italiana, contrario alla volontà immediata del popolo e contrario a quelle che si deve ritenere siano le più profonde aspirazioni e finalità nazionali, perché sono aspirazioni e finalità di indipendenza e autonomia. In questo modo siamo giunti a porre in primo piano la lotta per l'indipendenza del paese, per la libertà della nazione italiana e nel corso della guerra abbiamo sempre più apertamente e precisamente defini­to questo obiettivo fondamentale della politica comunista.

   Quando il vassallaggio si è trasformato in occupazione aperta da parte dell'e­sercito tedesco invasore, oppressore e barbaro, abbiamo levato insieme alle altre forze democratiche e nazionali lo stendardo della guerra di liberazione, abbiamo lanciato forse, per primi, la parola d'ordine della lotta partigiana, e per primi senza dubbio abbiamo mobilitato i migliori nostri dirigenti e militanti, e chia­mato gli operai e i lavoratori che ci seguivano ad abbandonare ogni altra occupa­zione, ogni altra forma di lotta e a dedicare tutte le loro energie all'organizzazio­ne di un esercito di volontari, partigiani, quell'esercito che doveva riportare vit­toria, dopo due anni di resistenza e di combattimento, nel grande movimento insurrezionale dell'aprile 1945.

   Compagni se guardiamo al cammino che in questi anni abbiamo percorso pos­siamo concludere che abbiamo adempiuto con onore il compito che ci eravamo prefissi e che era di servire la causa della classe operaia, del popolo e della nazio­ne italiana: abbiamo adempiuto il compito di lottare per la distruzione del fasci­smo, per la restaurazione delle libertà democratiche per il rinnovamento d'Italia. Presentiamo oggi non soltanto ai nostri nuovi iscritti e militanti, presentiamo a tutto il popolo un bilancio di attività in favore del nostro paese quale pochi parti­ti possono presentare. Sappiamo che, con la nostra azione, abbiamo dato un con­tributo decisivo alla liberazione d'Italia dalla vergogna della tirannide fascista; che abbiamo dato un contributo decisivo a quell'azione che ci permette oggi di considerare con una certa fiducia le prospettive di quella che dovrà essere tra po­co la nostra pace. Messi al bando dalla vita nazionale per venti anni, ci siamo affermati come i figli migliori della nazione italiana, i migliori eredi e continua­tori delle sue tradizioni. Abbiamo tolto ogni base possibile, nella coscienza degli italiani onesti e sinceri, alle stupide calunnie contro il comunismo.

   Nel fallimento delle classi dirigenti, raccolte tutte, a un certo momento, attor­no al fascismo, siamo riusciti a portare la classe operaia italiana ad adempiere una funzione nuova, una funzione nazionale.

   Il nostro contributo alla causa della liberazione d'Italia - permettetemi di ri­cordarlo - è stato però un contributo di un carattere particolare. Lungi da me l'intenzione di togliere importanza all'opposizione di coloro i quali con gli scritti condussero, negli anni tristi della tirannide, la lotta per la libertà. Anche se talo­ra, purtroppo, in qualcuno dei loro scritti, veniva ripetuto il tentativo di confon­dere insieme la tirannide e quelli che lottavano contro di essa, gli assassini della libertà e coloro che per la libertà languivano nei carceri e sapevano morire, non vogliamo ad ogni modo negare valore a coloro che hanno saputo per la libertà tenere la penna. Anche noi, per la libertà, abbiamo scritto e condotto polemi­che. Il contributo nostro alla lotta comune, però, è stato soprattutto contributo di opere, di lavoro di combattimento, di libertà perduta, di vite umane sacrifica­te, di sangue versato sul campo di battaglia: migliaia di anni di carcere, centinaia di morti, migliaia di uomini i quali hanno saputo cadere su terra italiana perché questa terra fosse libera di nuovo. Fra tutti i partiti antifascisti siamo il partito di coloro che per la libertà hanno saputo dare non solo le parole ed i pensieri, ma il sangue e la vita.

   Per questo, non possiamo altro che ridere, quando leggiamo, come abbiamo letto stamani su un giornale non so di che partito, forse democratico cristiano, la prosa di un ragazzo di quel partito il quale dimostra, secondo la logica che non so dove gli possono aver insegnato, che siccome noi professiamo quelle de­terminate ideologie - che non ricordo come egli qualifica - per questo dobbia­mo essere, secondo tutte le regole del sillogismo come si insegnano nelle scolette dei gesuiti, il partito della tirannide. Vorrei invitare l'autore di quello scritto, che chi lo sa perché in quel giornale è stato recensito proprio oggi, a dare uno sguardo ai fatti, a considerare, al di sopra e al di là dei suoi schemi logici che non valgono niente, quale è stata la realtà della vita e della lotta del nostro parti­to. Quello che noi abbiamo fatto, quello per cui ci siamo sacrificati, questa è la nostra logica, questi sono gli argomenti sulla base dei quali abbiamo dimostrato a tutti di essere il partito che in modo più conseguente vuole che la libertà e la democrazia trionfino e prendano salde radici. Per questo Antonio Gramsci è morto in carcere, mentre altri si adattavano alla tirannide e venivano con essa ad ogni sorta di compromessi: per questo sono morti in carcere altri tra i migliori dei no­stri compagni, per questo sono caduti sulla terra di Spagna centinaia dei nostri; per questo non vi è provincia, non vi è città, non vi è villaggio d'Italia dove non possa essere segnato con una croce il posto in cui un comunista ha dato la vita per la libertà del proprio paese.

   Per tutto questo possiamo dire - e ognuno di noi può affermarlo con orgoglio e fierezza - che senza il nostro contributo la storia d'Italia negli ultimi anni sa­rebbe stata molto diversa da quello che è stata.

   Noi che crediamo che la storia non viene mai né esclusivamente dall'alto, né esclusivamente dal basso, sappiamo che senza il nostro partito non vi sarebbe sta­ta, durante gli anni della tirannide, la resistenza indomabile di una avanguardia verso la quale erano volti gli sguardi e alla quale andavano i palpiti di simpatia e di affetto della parte migliore del popolo italiano. Sappiamo che senza l'azione organizzata dell'avanguardia che è raccolta nelle nostre file, probabilmente non vi sarebbero stati i grandi scioperi del marzo del 1943, che dettero la prima scossa seria all'edificio della tirannide fascista, che prepararono effettivamente il 25 lu­glio e tutto quello che ne doveva seguire. Sappiamo che senza l'azione dei nostri dirigenti e degli uomini raccolti attorno alle nostre organizzazioni, il movimento partigiano non si sarebbe organizzato con quella sicurezza, con quella ampiezza, con quella disciplina con cui si è organizzato e che ne garantirono la vittoria. Sap­piamo soprattutto che senza l'azione organizzata e senza la lotta politica chiaro­veggente del nostro partito, non si sarebbero potuti raggiungere quei risultati più o meno grandi, ma in determinati momenti molto importanti, che si sono potuti ottenere nella ricostruzione di un'unità materiale e spirituale del popolo italiano dopo il crollo fascista, nella ricostruzione di un regime democratico di libertà e di lavoro.

   In questa lotta non siamo stati soli, né pretendiamo nessun merito esclusivo. Abbiamo avuto accanto a noi operai e lavoratori socialisti, lavoratori e intellet­tuali del Partito d'azione, del Partito democratico cristiano e di altre correnti de­mocratiche e liberali a cui mandiamo il saluto fraterno dei combattenti. Nella lotta per la liberazione del nostro paese si è creata tra il nostro partito e queste altre tendenze democratiche una unità di propositi e di azione che è stata tra le cause principali della nostra vittoria. Questa unità non si deve oggi spezzare, anzi deve durare e consolidarsi, deve diventare una delle fondamenta della nuova Italia che insieme vogliamo costruire.

   Abbiamo avuto accanto a noi nella lotta - forze veramente decisive - le ar­mate dei paesi anglosassoni e degli altri paesi alleati i cui eserciti si sono schierati in campo contro l'imperialismo hitleriano e contro il fascismo. Anche a questi combattenti inviamo oggi da questa nostra tribuna, a nome degli operai, dei la­voratori e del popolo italiano, il più fraterno, il più riconoscente saluto. Ricorde­remo in eterno i soldati e gli ufficiali inglesi, degli Stati Uniti, della Francia, del­l'Africa del Sud, dell'Australia, del Brasile, i quali hanno lasciato la loro vita o versato il sangue loro per la liberazione del suolo della nostra patria. Il loro nome vivrà nel cuore del nostro popolo; il loro sacrificio sarà un pegno di unione e di fraternità fra i nostri paesi. Assicuriamo a questi combattenti che la causa della libertà, dei popoli, dell'indipendenza delle nazioni, e della democrazia per la quale hanno combattuto, troverà nel popolo italiano assertori e difensori infati­cabili, i quali sapranno lavorare e battersi affinché dal nostro paese mai più deb­ba sorgere un regime di tirannide, vergogna nostra e vergogna dell'umanità.

   Ora si tratta di tirare le somme. Quali sono dopo il turbine devastatore del fascismo e la bufera della guerra, le condizioni cui siamo ridotti? Quali sono i compiti che oggi si pongono a tutto il popolo italiano e in qual modo noi, Parti­to comunista, ci proponiamo di agire per l'adempimento di essi? Questo è il te­ma centrale del nostro Congresso, queste le domande a cui davanti a tutta l'Italia e al mondo che ci guardano siamo tenuti a dare una risposta precisa.

   Vi ho detto che avevamo previsto la catastrofe che si è abbattuta sopra di noi. Desidero però aggiungere che non è lieta cosa avere previsto il male della patria, anche se si è fatto tutto quanto era in noi per evitarlo. Triste cosa è dover consta­tare che siamo stati buoni profeti, quando abbiamo predetto che il nostro paese veniva portato alla rovina. Questo sentimento di profonda, insuperabile amarez­za ha reso triste per noi anche il giorno della vittoria delle grandi nazioni demo­cratiche sul fascismo. Sappiamo a qual punto è stata ridotta l'Italia e abbiamo il dovere di dirlo chiaramente, senza nulla tacere. In conseguenza della fatale po­litica che è stata fatta in modo conseguente per decenni dalle classi dirigenti ita­liane e dal fascismo, i beni fondamentali di una nazione sono per noi, oggi, o perduti o seriamente compromessi. Quali sono questi beni? Essenzialmente essi sono: l'unità politica e morale, l'indipendenza, la libertà, il benessere di coloro che vivono del loro lavoro. A che punto siamo in tutti questi campi?

   L'unità esteriormente sembra conservata, in realtà essa è fortemente intaccata e in pericolo. Prima di tutto è in pericolo perché sono discusse le nostre frontiere e non solo in ciò che esse potevano avere di non giusto e che doveva e deve essere corretto, ma anche in ciò che è stata legittima conquista, aspirazione e compito di intiere generazioni di italiani. Ma altrettanto gravi sono i sintomi di divisione e disgregazione che appaiono nell'interno stesso del paese e che da tutte le parti sembrano tendere a minare la nostra unità nazionale. Il cittadino che conosce la storia d'Italia, che sa quanto sia costato al popolo italiano unirsi in nazione e creare su questa base uno stato unitario, raccoglie con ansia ogni sintomo anche poco appariscente di rottura o di logorio dell'unità e sente la gravità del momen­to che attraversiamo. Abbiamo settanta anni di vita unitaria; per questo, ma non soltanto per questo, la nostra unità è ancora qualcosa di fragile, qualcosa che de­ve essere salvato, per cui dobbiamo riprendere a lavorare e a combattere, continuando e proseguendo la lotta che venne condotta, prima di noi, dagli uomini che ci hanno preceduto alla testa dei grandi movimenti unitari popolari. L'unità politica e morale della nazione è un bene che non deve essere perduto, perciò quando sentiamo con tanta leggerezza parlare del Nord e del Sud come di entità contrapposte o che si dovrebbero contrapporre, parlare di regioni che si vorreb­bero staccare dalla madre patria e in questo modo mettono in discussione l'esi­stenza stessa della nazione e dello Stato italiano unitario, non solo siamo presi da preoccupazioni, ma sentiamo che un grande partito nazionale, come il no­stro, deve porre tra i suoi compiti quello di lavorare non solo affinché l'unità non venga perduta o seriamente compromessa, ma venga al più presto riconquistata, rinsaldata, rafforzata in tutta la sua ampiezza e in tutti i suoi aspetti.

   L'indipendenza del nostro paese di fatto oggi non esiste più. Siamo stati re­spinti indietro, in questo campo, di parecchie generazioni. Ancora una volta l'I­talia è stata corsa da un capo all'altro da eserciti stranieri, dagli eserciti tedeschi che, ancora una volta, come nei secoli passati, sono venuti a cercare nella nostra terra quella vittoria che permettesse loro di realizzare un sogno vano e pazzesco di tirannico predominio europeo e mondiale, dagli eserciti anglosassoni che ci hanno portato la libertà. A noi, purtroppo, nelle regioni già liberate, è stato per­sino negato o limitato il diritto di prendere le armi per la nostra liberazione, per la nostra indipendenza. Nel campo economico, non abbiamo di fatto nessuna autonomia nei rapporti con l'estero, costretti come siamo a vivere non di com­mercio ma di elemosine, e una autonomia molto limitata anche per quello che si riferisce alla soluzione delle nostre questioni economiche interne. C'è qualcu­no che arriva a pensare e a dire che l'Italia dovrebbe diventare sfera di influenza di non so quale potenza o gruppo di potenze straniere e determinati gruppi in­terni sembrano disposti perfino ad accettare questa posizione, pur di trovare in una forza straniera l'appoggio necessario per la difesa dei loro interessi egoistici e dei loro privilegi. L'indipendenza d'Italia, oggi, deve essere riconquistata e de­ve essere riconquistata con un'azione politica lenta, accorta, muovendosi tra sco­gli e pericoli numerosi.

   Quanto al benessere, non voglio dilungarmi per leggervi cifre, che ormai cir­colano dappertutto, relative alla distruzione del nostro apparato economico, in­dustriale e degli scambi, e alla tragica riduzione del livello di esistenza delle mas­se fondamentali del popolo. Uno dei sintomi più gravi mi sembra essere il fatto che oggi in Italia pare si stiano costituendo due strati della popolazione che vivo­no a livelli di esistenza completamenti diversi: ci sono quelli che vivono col bi­glietto da mille e ci sono quelli che non riescono a vivere col biglietto da dieci. Vi sono coloro che si possono rifornire nei negozi di lusso, come i negozi che po­tete vedere qui a Roma e che sono pieni di ogni ben di Dio, e ci sono coloro che invano cercherebbero in tutte le strade di Roma una bottega qualsiasi dove poter comprare un paio di scarpe alla portata dei loro mezzi, perché i loro bam­bini non debbano andare scalzi. Strana situazione, segno di una profonda di­sgregazione economica e sociale, la quale avvicina l'Italia d'oggi, almeno per questo aspetto, a determinati paesi coloniali dove esistono in modo permanente due di­versi strati, quello di coloro che vivono col biglietto da mille e trovano di tutto, e la massa del popolo che muore di fame e non può soddisfare le più elementari necessità dell'esistenza.

   Questa è oggi la situazione in cui si trova l'Italia, e da queste rovine di un paese che trenta anni or sono si era conquistato un posto fra le grandi potenze e nel quale erano in corso notevoli trasformazioni politiche e maturavano profonde ri­forme sociali, esce un tragico atto di accusa che investe il fascismo, ma insieme con il fascismo investe tutti quei gruppi possidenti e dirigenti che al fascismo hanno ceduto la direzione della vita economica e politica della nazione perché in esso hanno trovato la difesa delle loro posizioni di predominio e dei loro interessi. Mussolini disse un giorno nel 1924 che avrebbe tolto all'Italia la libertà ma le avrebbe dato la grandezza. Purtroppo, vi fu chi credette a queste sue parole, e abbagliati da un miraggio di illusoria grandezza, gruppi di intellettuali e di gio­vani si lasciarono sedurre e trascinare non comprendendo che la causa della liber­tà del popolo non può essere separata dalla causa della grandezza della nazione. Coloro che avevano distrutto le misere libertà democratiche conquistate dal po­polo italiano erano inesorabilmente destinati a portare alla rovina tutta l'Italia.

   Di fronte all'ampiezza della catastrofe non possiamo però rifuggire dal compi­to di indagare con maggiore attenzione da quale parte essa è venuta, e ciò non tanto come storici, ma come politici, allo scopo di poter determinare meglio quale è la via che dobbiamo seguire per risalire dall'abisso in cui ora ci troviamo a una nuova esistenza civile. Come funebre ironia suonano le parole di chi ha afferma­to che tutto si riduce al fatto che il popolo italiano sotto la guida del fascismo si era messo a cantare, a ballare, preso dal gusto delle maschere, delle parate e del carnevale. Come è possibile difendere sul serio una opinione simile, quando sotto il fascismo vediamo che il popolo non cantava nemmeno più, essendo di­ventate persino le canzoni in voga qualcosa di strano, triste, nostalgico e dispera­to anche nei ritmi, così lontani da quelli delle vecchie, serene canzoni popolari nostrane? La verità è che una nazione ha dei quadri, ha una sua classe politica dirigente, ha i suoi intellettuali e i suoi tecnici, una massa di uomini nei quali si incarna la direzione della vita economica e politica di tutto il paese. Questo strato di dirigenti economici e politici nessuno crederà che ci abbia perduti per­ché di colpo si siano messi tutti a danzare e a cantare, allo stesso modo che nessu­no crederà che queste migliaia e migliaia di uomini siano stati tutti materialmen­te ingannati. La verità è che questo quadro dirigente dell'Italia borghese a un certo punto si trovò tutto o quasi unito nell'essere fascista e nel lasciare fare al fascismo anche quando questo perpetrava i peggiori delitti. La verità è che la marcia su Roma, l'instaurazione del regime fascista e tutta la politica che ne seguì sono stati il coronamento di una vasta azione offensiva diretta contro la classe operaia di prima linea e contro le masse lavoratrici, diretta contro tutti quegli elementi di avanguardia che volevano un rinnovamento economico e politico del paese e lottavano per esso.

   Quando fu fatta la legge per le sanzioni contro il fascismo, siamo stati obbliga­ti ad andare a cercare un termine di discriminazione. Allora si è trovata la famosa data del 3 gennaio 1925. Prima del 3 gennaio 1925 la collaborazione col fascismo e l'appoggio al regime fascista non sarebbero state cosa riprovevole. Dopo il 3 gennaio 1925 sì. La distinzione però è stata criticata, e giustamente criticata, da esimi studiosi di scienze giuridiche e politiche, i quali hanno fatto osservare la sua incoscienza, dato che il 3 gennaio non ebbe luogo, in realtà, nessun colpo di stato. Ma, se la cosa si è fatta è perché altrimenti non vi sarebbe più stata possi­bilità di discriminare nessuno dei vecchi uomini politici italiani, perché alla cri­minale offensiva antidemocratica del fascismo tutti dettero la loro adesione, quando credevano fosse diretta solamente contro gli operai. La vera pietra di paragone per distinguere i veri democratici non dovrebbe essere il 3 gennaio: dovrebbe es­sere l'atteggiamento che tennero nel 1919, nel 1920, nel '21, nel '22, quando il fascismo nacque, quando il fascismo si affermò, quando il fascismo compì quella che fu la parte essenziale della sua opera di distruzione, la distruzione delle orga­nizzazioni democratiche degli operai, dei braccianti, dei lavoratori. Di lì partì la rovina d'Italia e non dal 3 gennaio, il quale non fu che una conseguenza, e forse non delle principali. Ma se risaliamo a quel primo periodo, cioè al periodo decisivo, vediamo che allora furono concordi nel plaudire al fascismo i gruppi più svariati e gli uomini e i giornali più diversi, dai grandi industriali del Pie­monte e della Liguria agli agrari delle Puglie e dell'Emilia, dal «Corriere della Se­ra» al «Giornale d'Italia», dal filosofo Benedetto Croce al ministro riformista Bonomi [1] e a numerosi altri capi politici e intellettuali d'Italia. Non solo, ma nei mo­menti decisivi dello sviluppo del fascismo, che furono la marcia su Roma, il pe­riodo aventiniano e l'inizio della politica di espansione imperialistica con la guerra di Abissinia, vediamo risorgere questo blocco dal quale soltanto a poco a poco si distaccano e differenziano le forze democratiche. Di fronte a un fenomeno di questa natura, non vale richiamarsi a incomprensioni o aberrazioni di singoli. Se si vuole una spiegazione che soddisfi, bisogna risalire alla struttura stessa della società, e dello stato italiano e quindi all'orientamento dei ceti dirigenti che è conseguenza ed espressione di questa struttura. È in questa direzione che occorre dirigere l'indagine ed è inevitabile, come pel singolo che fa un esame di coscien­za, che siamo portati a riflettere al nostro passato, e ad esaminare ancora una vol­ta con occhio critico per vedere se le radici della catastrofe non siano molto più profonde di quanto non appaia e se non siano quindi molto più radicali le esi­genze di rinnovamento che sgorgano dalla situazione odierna.

   Siamo stati nel passato un grande popolo, lo siamo stati agli inizi della civiltà moderna, europea e mondiale. Eravamo allora, all'epoca del Rinascimento, ai primi posti in tutti i campi dell'attività umana pacifica, nella creazione artistica e scientifica e nel campo del lavoro. Questo avveniva perché tra di noi le forze progressive della società che erano, allora, i primi nuclei della borghesia urbana, si erano sviluppate e affermate prima che altrove, avevano prima che altro dato battaglia per iniziare la liquidazione del regime feudale arretrato e avevano ottenuto in ogni campo della loro azione notevoli risultati. Poi siamo andati indie­tro, per ragioni oggettive, economiche e politiche, alcune di ordine internazio­nale, che non sto qui ad indicare. Questi primi nuclei si disgregarono, oppure si ridusse la loro efficacia; gli ordinamenti di tipo feudale ripresero vigore; in al­cune regioni, come la Toscana, questo regresso fu persino favorito da speciali mi­sure legislative intralcianti lo sviluppo delle forme di produzione più avanzate. Il paese venne spinto di nuovo indietro economicamente e politicamente rispetto agli altri paesi d'Europa. Si affermarono ed ebbero la prevalenza gruppi sociali che avevano un carattere reazionario in confronto di quelli che nei secoli prece­denti avevano incominciato ad avanzare sulla scena della storia, e in confronto a quelli che nello stesso periodo si affermavano in altri paesi. Da allora la nostra vita prese un'impronta particolare, arretrata, provinciale. Diventammo una pro­vincia d'Europa, e una provincia non avanzata sulla via del progresso economico e sociale. Tutta la nostra cultura, fatta eccezione per alcuni campi, meno diretta­mente legati alle condizioni reali della esistenza, come le arti figurative o la mu­sica, assume questa impronta.

   Chi ci dette la più grande spinta per rimetterci sulla strada maestra del pro­gresso, fu la Rivoluzione francese, ma proprio per limitare le ripercussioni in Ita­lia della Rivoluzione francese si schierano e operano attivamente non solo i prin­cipi, la Chiesa e i proprietari feudali, ma anche le correnti intellettuali prevalenti nella prima metà del secolo passato. Così si costituisce un fronte di forze econo­miche, politiche, intellettuali, il cui compito essenziale sembra essere quello di impedire che l'Italia venga, attraverso un movimento profondo, rinnovata come venne rinnovata la Francia, come vennero rinnovati dalla rivoluzione borghese altri paesi d'Europa. E non solo i reazionari appaiono dominati da questa preoc­cupazione, ma anche numerosissimi tra coloro che parteciparono con slancio alla lotta per la indipendenza e per l'unità. Così mi pare si possa spiegare la impronta provinciale che la nostra cultura conserva anche in questo periodo. Nonostante l'opera di valenti e gloriosi precursori, il nostro pensiero politico e sociale non ha lo slancio che nello stesso periodo ebbe in altri paesi, in Francia, in Germania, in Inghilterra, e poco più tardi anche in Russia. La stessa nostra letteratura ne risente, e non riesce ad acquistare quel carattere nazionale e popolare che già ave­va avuto, e così marcato, in altri tempi.

   In questo paese, arrivato alla restaurazione senza aver avuto una vera e propria rivoluzione, la vita economica continua a essere dominata da caste privilegiate, legate a forme arretrate di economia agricola, e i nuovi gruppi capitalistici non rompono la solidarietà con queste caste privilegiate, anzi costruiscono sopra que­sta solidarietà il loro dominio politico. Questo capitalismo, il quale non ha die­tro a sé tutto quello che avevano anche materialmente le classi borghesi degli al­tri paesi d'Europa, ha bisogno di accumulare rapidamente per potersi affermare ed espandere. Esso non trova però quelle possibilità di espansione e di rapida accumulazione che gli avrebbe offerto una agricoltura rinnovata. La rivoluzione nelle campagne è infatti ciò che più fa paura ai ceti dirigenti, tutti più o meno strettamente legati con l'aristocrazia terriera. Di qui una nuova giustificazione economica della particolare politica di blocco con gli elementi più reazionari e più avidi della società italiana, con i gruppi privilegiati e retrogradi delle campa­gne. La politica economica di questo blocco è contraria all'interesse delle grandi masse tanto di consumatori, quanto di lavoratori. Essa tende infatti, tanto attra­verso la politica doganale quanto con la reazione antioperaia, a tenere alti i prez­zi e bassi i salari, cioè a mantenere basso il livello di esistenza complessivo delle masse lavoratrici. Nelle città i salari sono di fame, nelle campagne sopravvivono i contratti di tipo feudale e il padrone mette la museruola al contadino durante la vendemmia. Tutto il nostro Ottocento soffre di questa particolare struttura eco­nomica e politica reazionaria. Per questo la nostra politica è stentata, e la nostra cultura è provinciale, non riesce a prendere quello slancio che nello stesso perio­do prende in Francia, in Russia e altrove. Si crea un ceto particolare di intellet­tuali, legato organicamente a gruppi dirigenti di tipo reazionario, staccati dal po­polo, incapaci di adempiere in modo conseguente a una funzione progressiva nel campo della cultura e in tutti i campi della vita nazionale.

   La nazione italiana, proprio nel periodo in cui si crea la sua unità politica, vie­ne spezzata economicamente in modo inesorabile. Sono vive ancora nel ricordo degli uomini colti le polemiche e le inchieste di quel tempo attorno alla cosid­detta «questione sociale». Esse segnalano questa situazione e i sintomi più gravi di essa; il pauperismo, la disoccupazione cronica, l'emigrazione forzata, la di­sgregazione economica e sociale di intiere regioni. Alla sommità dello stato si crea una connivenza sempre più stretta fra gruppi di privilegiati; alla base fermenta ed esplode a intermittenza la rivolta di plebi miserabili e disperate. Non nego vi sia stato a un certo punto un progresso, alla fine del secolo scorso e all'inizio di questo: ma quando questo progresso incomincia a manifestarsi siamo arrivati all'imperialismo, e i ceti dirigenti borghesi, senza rinunciare a nessuno dei loro vecchi privilegi e al loro blocco con gli elementi più arretrati della campagna se­mifeudale, si buttano sulla strada dell'espansionismo, del nazionalismo, delle av­venture coloniali e della guerra. Ricchezze enormi vengono spese in modo im­produttivo, quantità enormi di beni accumulati col sudore e col sangue del po­polo vengono sperperati per arricchire alcune generazioni di speculatori, di forni­tori di guerra e di avventurieri. L'unità della nazione viene sempre più profonda­mente compromessa: le possibilità di equilibrio e di vita pacifica si riducono sempre più. Si apre prima la crisi rivoluzionaria del 1914 e poi quella del primo dopo­guerra, in cui dopo decenni di oppressione e di miseria assistiamo a un risveglio generale di tutto il popolo che vive di lavoro e vengono posti problemi nuovi che richiedono una soluzione urgente: il problema di un livello più alto di be­nessere per gli operai, il problema della terra per i contadini, della distruzione dei privilegi delle vecchie caste, il problema del rinnovamento del vecchio stato reazionario e oppressore. La vecchia struttura della società italiana non resiste a questo impeto rivoluzionario, ed ecco il fascismo il quale interviene come stru­mento organizzato in modo consapevole dai gruppi dirigenti più reazionari, dai ceti possidenti più egoistici e più avidi, allo scopo di stroncare il grande movi­mento popolare, il quale, qualunque fosse la sua esuberanza e l'incertezza dei suoi programmi, esprimeva in sostanza una esigenza di profondo rinnovamento. È in difesa della vecchia Italia dei reazionari e dei trasformisti, dell'Italia dei bas­si salari e dei contratti di lavoro feudali che agisce la violenza dello squadrismo in camicia nera.

   Quando ora guardiamo il punto cui siamo arrivati non possiamo staccare gli occhi da tutto questo passato. Scusate dunque questo richiamo alla nostra storia. Credo sia necessario, anche perché il nostro partito non potrà adempiere bene alla propria funzione nazionale se i nostri quadri dirigenti non saranno bene orien­tati su tutti i problemi della vita della nazione, e la radice di questi problemi sta nel passato, ma soprattutto perché dobbiamo avere sempre scolpita nella nostra mente questa verità, che il fascismo è sorto come figlio legittimo della vecchia Italia che fu conservatrice e reazionaria anche quando si diede una maschera democratica.

   Il fascismo non è sorto in contrasto con la vecchia Italia, ma in connivenza con essa e con l'aiuto di quelle che erano le sue forze dirigenti. Questo spiega l'unità di tutti i gruppi possidenti e dirigenti attorno alle squadre d'azione, distruttrici della libertà prima della marcia su Roma; questo spiega l'unità dei gruppi rea­zionari attorno al fascismo al tempo della marcia su Roma; questo spiega il falli­mento dell'Aventino; questo spiega l'unità di forze borghesi e anche di intellet­tuali, che ancora si realizza dopo il 1927, dopo il 1931, dopo il 1935, quando Mussolini si getta sulla via delle avventure imperialistiche che dovevano portarci alla disfatta militare e alla catastrofe.

   Il richiamo storico pone davanti a noi in modo molto chiaro il problema che dobbiamo risolvere: quello di rinnovamento del nostro paese. Esso ci dimostra come la soluzione di questo problema sia cosa difficile, per la quale occorre mo­bilitare tutte le forze del popolo; perché richiede vengano affrontate questioni che da decenni e decenni gravano sulla vita della nazione italiana, una eredità che ci spinge indietro, che non ci lascia progredire. Né si tratta, come spesso si sente dire particolarmente da quegli stranieri che battevano le mani al fascismo al suo sorgere e in seguito, di «rieducare» il popolo italiano, ma di eliminare i vecchi istituti e le vecchie forme di organizzazione della vita economica e politi­ca, perché sino a che non l'avremo fatto, il fascismo sarà sempre, in un modo o nell'altro, presente in mezzo a noi e sempre saremo sotto la minaccia che possa prevalere. Se vogliamo che il fascismo sia distrutto per sempre, e che sia distrutta per sempre la possibilità di una sua rinascita, se vogliamo che nessun regime rea­zionario di tipo fascista possa mai più risorgere, dobbiamo, attraverso la collabo­razione di tutte le altre forze sinceramente democratiche, rinnovare l'Italia. Compito di portata storica, amplissima, compito al quale sono chiamati a collaborare tutti gli italiani capaci di tirare le conclusioni della tragica avventura fascista, capaci di comprendere che se dopo quanto è capitato dovessimo ricostruire un'Italia an­che solo lontanamente simile, politicamente e socialmente, a quella che esisteva prima, dimostreremmo di essere un popolo incapace di dirigere i nostri destini, incapace di tracciare da sé la propria storia nella direzione del progresso e della civiltà.

   È necessario qui porsi una domanda e rispondere senza infingimenti: che cosa abbiamo fatto finora per questo rinnovamento? Ferruccio Parri [2] l'altro giorno, in una intervista concessa a un giornale milanese, ha affermato con un senso di ama­rezza che la democrazia da noi finora è soltanto una speranza. Vi è certamente in queste parole un elemento di esagerazione e di pessimismo, perché ritengo che, nonostante tutte le resistenze e tutte le debolezze, qualcosa ad ogni modo è stato fatto sulla via del rinnovamento democratico. Sono però d'accordo col giu­dizio di Parri nel senso che ciò che abbiamo conquistato non è ancora solidamen­te conquistato, che le posizioni che oggi teniamo non sono ancora rafforzate in modo tale che le rendano sicure da un ritorno offensivo del nemico, che queste posizioni, inoltre, sono molto limitate. La maggior parte di ciò che è stato fatto, inoltre, è stato fatto dal popolo e per iniziativa del popolo, sotto la direzione delle organizzazioni popolari politiche e sindacali, in lotta contro il fascismo e per la liberazione del paese. Dagli esponenti delle vecchie classi dirigenti non abbiamo avuto che il 25 luglio e l'8 settembre: il primo fu in sostanza un tentati­vo di impedire che si iniziasse con la caduta del fascismo un profondo rinnova­mento della vita politica italiana, l'altra fu una fuga dinanzi alle proprie respon­sabilità e alla necessità di una lotta nazionale rinnovatrice. La resistenza e l'insur­rezione contro i tedeschi e i fascisti sono state organizzate essenzialmente per ini­ziativa dei partiti popolari, e a questi partiti si deve, quindi, se sono stati fatti determinati passi in avanti nella difesa dell'unità del paese e per la riconquista della sua indipendenza.

   Non è quindi per vano romanticismo rivoluzionario o garibaldino che noi esal­tiamo il movimento partigiano; lo esaltiamo come uomini politici, coscienti che essenzialmente ad esso dobbiamo il fatto che oggi tra i paesi che appartenevano al blocco fascista l'Italia ha una posizione che è, nonostante tutto, migliore di quella della Germania e del popolo tedesco. Se siamo riusciti a evitare la dura e tragica sorte della Germania, lo dobbiamo principalmente all'azione del popo­lano, dell'operaio, dell'intellettuale, del lavoratore che spontaneamente ha pre­se le armi, ha accettato la disciplina delle formazioni partigiane, è andato a bat­tersi per il proprio paese, ha dimostrato che eravamo ancora capaci di contribuire alla vittoria delle grandi nazioni democratiche. Perciò è triste, come italiani e co­me patrioti, dover registrare le immonde campagne di calunnie, di ingiurie, di diffamazioni, che vengono condotte contro il movimento partigiano da torbide correnti reazionarie e dalla loro stampa. E' triste dover constatare che persiste in certe parti dall'apparato dello stato la tendenza a fare il processo al movimento dei nostri partigiani, perché nell'una o nell'altra località essi sarebbero andati al di là della legalità fissata dai codici, come se si potesse fare il processo al popolo che prende le armi e lotta contro i traditori e gli invasori della patria, per la pro­pria indipendenza!

   Alla lotta popolare di liberazione, e in particolare alla unità che nel corso di essa si creò fra i partiti politici democratici antifascisti, si deve se sono state getta­te le basi di una nuova unità politica e morale e quindi di un rinnovamento della nazione italiana.

   Base e forma politica di questa unità sono stati i Comitati di Liberazione Na­zionale, contro i quali pure si sono scatenati gli attacchi della reazione, favoriti e appoggiati, purtroppo, da alcuni tra i partiti che fanno parte dei comitati stes­si, e in particolare dai liberali. Di fronte a questi partiti è nostro dovere difendere il movimento dei CLN non solo per quello che è stato e ha fatto, ma per quello che avrebbe potuto fare se non fosse stato in questo modo minato e tradito dal­l'interno. Il movimento dei CLN è stato il movimento politico popolare di più grande rilievo dei nostri ultimi secoli, più notevole, sia per profondità di ispira­zione politica, che per ampiezza di adesione popolare, tanto della Carboneria quanto della «Giovane Italia». Esso offriva alla democrazia italiana la possibili­tà di rinnovare il paese in modo molto più efficace e molto più rapido di quanto ora stiamo facendo. Il movimento dei CLN presentava alla nazione italiana quel­la che vorrei chiamare una grande scorciatoia sulla via della restaurazione dei principi di libertà e di democrazia e della soluzione di una gran parte delle tragiche, gra­vissime questioni che ancora stanno davanti a noi e che non riusciamo a risolvere.

   I paesi passati come noi attraverso la guerra e l'invasione straniera e nei quali è sorto un movimento di liberazione analogo al nostro, che hanno avuto il corag­gio di utilizzare a fondo la forza di questo movimento organizzato per fondare su nuove basi un solido regime di democrazia, questi paesi hanno progredito in modo molto più rapido di noi. Se avessimo anche noi saputo fondare tutta la nostra azione di governo sull'attività organizzata dei CLN che tanto prestigio, tanta autorità e tanta forza avevano acquistato nel corso della resistenza e della lotta liberatrice, oggi non ci dibatteremmo tra così gravi difficoltà. Prima di tutto non esito ad affermare che molto più agevolmente avrebbe potuto essere affrontata e risolta la questione del posto fatto nel mondo al popolo italiano e quindi la questione delle frontiere. Molto più agevolmente e con risultati molto migliori avremmo potuto affrontare e risolvere la grave questione della lotta contro la de­linquenza fascista che oggi rinasce, come pure avremmo potuto ordinatamente smobilitare il movimento partigiano, evitando che da esso uscisse la scoria di fe­nomeni nocivi di irrequietezza sociale e qua e là anche di banditismo. Si ricordi che a questo proposito i CLN avevano elaborato un piano di misure precise, che ci avrebbe evitato molti guai e che non si potè applicare unicamente perché il governo e il controllo alleati non ne vollero sapere e lo annullarono con un tratto di penna. Quando ci si rinfacciano, da parte degli alleati, certe esuberanze, è be­ne che ci si ricordi sempre a chi risale la responsabilità per quello che si poteva fare e che non è stato fatto. Persino nei campi di attività economica più delicati, come quello fiscale, si sarebbe potuto svolgere, con l'aiuto dei CLN un'opera di rinnovamento sostanziale di cui siamo oggi molto lontani. Non voglio fare la col­pa di tutto questo a nessun partito italiano in modo particolare, perché so che l'unità dei partiti italiani antifascisti per la realizzazione di un simile programma si sarebbe potuto, con la pressione e con l'appoggio del popolo, ottenere e man­tenere con facilità, qualora però non ci fosse stata la pressione in senso contrario e il deliberato proposito degli apparati del governo e del controllo alleati, i quali, non so per quale timore oppure non comprendendo questa nuova realtà della nostra vita nazionale, hanno fatto quanto potevano per disorganizzare il movi­mento dei CLN, per fermarlo nel suo sviluppo, per impedirgli di dare al governo del paese i mezzi per risolvere tanti e così difficili problemi. I liberali e gli altri sabotatori dei CLN dall'interno non sono stati niente di più che delle mosche coc­chiere. In realtà, chi ha impedito un nostro più rapido rinnovamento politico sono stati gli stranieri con la volontà dei quali abbiamo dovuto fare i conti.

   Sulla strada che ci è stato imposto di seguire che cosa siamo dunque riusciti a fare di nuovo e di buono? Prima di tutto desidero sottolineare la grande impor­tanza del fatto che abbiamo avuto da Napoli in poi, e cioè dall'aprile del '44, un governo di tipo democratico fondato sull'unità dei grandi partiti antifascisti, partiti che oggi sono ormai storicamente determinati e al di fuori dei quali, pri­ma delle elezioni, non si può governare l'Italia a meno che non si voglia fare un colpo di stato. Dal momento di quella che fu chiamata «la svolta di Napoli», l'Italia, per nostra iniziativa, ha avuto la possibilità di essere rappresentata nel mondo da un suo organismo esecutivo, responsabile della direzione della vita del paese; si è evitato quindi il pericolo che a tutti i danni che il regime fascista aveva fatto cadere sopra di noi si aggiungesse la lacerazione in campi irreconciliabili, ciò che molti purtroppo aspettavano e si auguravano; si è evitato che si scatenasse una guerra civile il cui risultato non avrebbe potuto essere altro che una nuova rovina. In questo modo abbiamo dato prova di saperci governare, di saper scegliere da noi la nostra strada, prova che dopo il fascismo dovevamo dare se non volevamo essere ridotti in una condizione ancora più tragica di quella nella quale ci troviamo ora.

   Se da questo risultato generale e quindi di principio scendiamo però alle cose concrete, appaiono numerosissimi gli elementi negativi che abbiamo il dovere di indicare in tutta la loro ampiezza, affinché tutti siano in grado di giudicare e di orientarsi per il presente e per il futuro.

   Gli elementi negativi, li riscontro soprattutto in due campi: in quello che ri­guarda la distruzione del fascismo e quindi la democratizzazione della nostra vita politica, e in quello che riguarda l'opera indispensabile di solidarietà nazionale per il sollievo delle miserie del popolo.

   A distruggere il fascismo siamo impegnati, fra l'altro, da espliciti patti inter­nazionali: ma dobbiamo distruggerlo perché questo è prima di tutto e soprattut­to interesse nostro. Dobbiamo distruggerlo in modo radicale se vogliamo che il nostro paese possa essere di nuovo considerato un paese civile. Orbene, è stato fatto a questo scopo tutto quello che era necessario? Credo di no, e lo dico aper­tamente. Sia ben chiaro però che non intendo parlare in modo particolare dell'e­purazione. In questo campo non è vero che non sia stato fatto nulla e non è vero, come adesso cercano di dire certi giornali reazionari, che tutto quanto si è fatto si sia concluso con un fallimento. Naturalmente si è lavorato in mezzo a enormi difficoltà, si sono dovute superare resistenze che venivano da tutte le parti e so­prattutto da quella parte donde meno avrebbero dovuto venire e cioè, nel perio­do successivo alla liberazione di Roma, da chi aveva nelle mani la direzione del governo che purtroppo in tanti modi ha dimostrato quanto fosse mal risposta la fiducia in lui. Ciò nonostante l'epurazione ha dato determinati risultati tutt'altro che trascurabili. Essa deve continuare e sarà continuata fino a dare tutti i ri­sultati che deve e può dare, cioè senza infierire contro la massa di coloro che furo­no ingannati. Appunto perché la nuova legge sull'epurazione significa che non si vuole infierire contro coloro che sono stati strumenti incoscienti della tiranni­de, appunto per questo l'abbiamo approvata. Questa legge ci permette di conti­nuare a colpire coloro che furono gli artefici della tirannide e gli strumenti co­scienti della corruzione e della rovina del paese. Quello che è mancato però e quello che manca tuttora nella lotta per distruggere il fascismo, è l'iniziativa di tutti gli organismi dello stato e la loro attività conseguente nella difesa delle li­bertà democratiche riconquistate e nel rintuzzare l'offensiva che viene condotta dai residui fascisti per annullare queste libertà e far risorgere la criminalità politi­ca fascista.

   Per questo motivo assistiamo alla rinascita di uno squadrismo, che non è anco­ra lo squadrismo del 1920 o del 1921, quando i poteri dello stato apertamente proteggevano l'azione dei banditi in camicia nera, ma che potrebbe diventare uno squadrismo di quel genere non appena la direzione del governo andasse nel­le mani non dico di gruppi reazionari, ma anche solo di gruppi conservatori. Esi­stono due tipi di questo squadrismo. Da una parte vi sono squadre clandestine fasciste di tipo puro, residuo delle brigate nere, guidate in modo più o meno aperto da gerarchi delle vecchie organizzazioni del Partito fascista repubblicano, non arrestati o rilasciati per espedienti che violano la sostanza delle nostre leggi. Costoro, seguendo una precisa direttiva data dallo Stato Maggiore di Mussolini gli ultimi giorni del suo funzionamento (i documenti esistono e sono anche stati pubblicati) tendono a svolgere un'azione terroristica, sia contro le organizzazioni democratiche, che penetrando nelle loro file. Esse tendono a provocare disordini e vorrebbero sfasciar l'apparato del nostro stato, per compromettere il nostro pre­stigio e il nostra avvenire. Ma vi è anche un altro tipo di organizzazione antide­mocratica clandestina, quella monarchica, di cui parlo qui non a scopo di vana agitazione, ma come risultato dello studio di documenti, rapporti, e informazio­ni precise, provenienti da tutte le parti d'Italia e che non pubblichiamo perché tutti comprendono che se li pubblicassimo metteremmo in guardia il nemico e ci priveremmo della possibilità di sorvegliarlo. E' un fatto che parallelamente ai gruppi fascisti sopra indicati esistono gruppi che si dicono monarchici, ma agi­scono con lo stesso metodo, con gli stessi obiettivi immediati e probabilmente con gli stessi scopi lontani dei primi. Questi secondi gruppi, però, purtroppo go­dono di appoggi abbastanza larghi da parte dell'apparato dello stato. Ci trovia­mo qui ancora una volta di fronte alla connivenza innegabile di fascismo e mo­narchia, connivenza che è stata alle radici del fascismo dall'inizio sino alla fine. E' necessario vedere il pericolo; è necessario che l'apparato dello stato in tutte le sue branche venga mobilitato per far fronte a questo pericolo, perché qui vera­mente è in giuoco non la vita dei dirigenti dell'uno o dell'altro partito; né l'inte­grità delle sedi di questa o di quell'altra organizzazione democratica, ma è in giuoco il prestigio, il buon nome e il futuro dell'Italia come paese civile. Siamo tutti uniti in un patto per l'eliminazione della violenza dalle competizioni dei partiti. Questo patto impone a tutti il disarmo, e noi per primi ci siamo impe­gnati e abbiamo lavorato per farlo realizzare da ogni formazione partigiana. Questo patto esige però anche che tutte le parti dell'apparato dello stato garantiscano non solo la libertà dei cittadini, la libertà di tutte le manifestazioni politiche, la libertà di organizzazione, di parola, di stampa, ma garantiscano pure che non venga tollerato il risorgere di organizzazioni terroristiche di tipo fascista, siano esse una filiazione delle vecchie brigate nere e siano nuovi gruppi di tendenza monarchica. Non è ammissibile che in uno stato civile e ordinato vi siano parti dell'orga­nismo dello stato che siano conniventi con elementi di queste organiz­zazioni, non è tollerabile che vi siano formazioni militari - si chiamino esse «Fol­gore» o «San Marco», ed abbiano esse dato qualsiasi contributo alla liberazione del nostro paese - le quali prendano la fisionomia di unità monarchiche o fasci­ste e svolgano un'attività che esse chiamano terroristica contro il popolo e contro le organizzazioni democratiche. Noi rispettiamo l'esercito, sappiamo che l'Italia democratica dovrà avere un suo esercito e un esercito ben organizzato. Dobbia­mo avere delle forze di polizia e anche un corpo di carabinieri. La repubblica democratica italiana avrà i suoi carabinieri e li tratterà bene, meglio di quanto non li abbiano trattati i passati regimi; ma oggi esigiamo che questa parte del­l'apparato dello Stato non soltanto sia imparziale, ma venga mobilitata e agisca con energia per stroncare ogni tentativo di rinascita della delinquenza e del terro­rismo fascista.

   Tutto questo vuol dire che nel nostro paese il fascismo non è distrutto ancora a fondo, perché sarebbe sufficiente si creassero determinate condizioni politiche perché riprendesse il sopravvento. Nel corso dell'ultima crisi di governo è stato detto che sarebbe stato sufficiente porre alla testa del governo uno dei vecchi uo­mini moderati o conservatori perché tutto ritornasse alla normalità. Noi pensia­mo invece che questo sarebbe stato sufficiente perché l'Italia riprendesse a muovere sulla stessa strada del 1920 e del 1921, quando a dirigere il dicastero della guerra, per esempio, vi era proprio uno degli attuali aspiranti più in vista alla Presidenza del Consiglio. Perciò quando sentiamo parlare della necessità che sa­rebbe urgente di liquidare «l'antifascismo» potremmo anche noi essere d'accor­do con questa formulazione se significasse che si dovrà a suo tempo riuscire a por­tare la lotta politica a un livello più elevato; ma il nostro accordo non ci può esse­re in nessun modo se, parlando di «liquidare l'antifascismo» si cerca di farci chiu­dere gli occhi davanti al pericolo fascista ancora e sempre presente, oppure di far dimenticare al popolo che, in questo campo, l'azione dei governi succedutisi fi­nora non è stata sufficiente.

   Egualmente insufficiente l'azione svolta sinora nel campo della solidarietà na­zionale. Qui però vorrei spiegare bene di che si tratta e che valore ha la nostra critica. Per noi, solidarietà nazionale non è soltanto opera di soccorso. Debbo ri­volgere una lode a nome di tutto il Congresso a quelle nostre organizzazioni che hanno saputo negli ultimi tempi svolgere azione efficace di soccorso a sollievo delle condizioni delle parti più povere della popolazione. Una lode speciale va data ai compagni della federazione milanese per la loro iniziativa, alla quale si sono associate altre numerose organizzazioni democratiche, per dare un ricovero in regioni meno sfortunate a migliaia di bambini che soffrono il freddo e la fa­me. I compagni che hanno preso questa iniziativa hanno reso al paese un grande servizio, certamente più grande di quello che gli ha reso quell'avvocato liberale che due mesi fa ha provocato una crisi politica, paralizzando per settimane e set­timane proprio alla soglia dell'inverno ogni utile attività governativa.

   Azione di solidarietà nazionale non vuole però dire per noi soltanto soccorso dato ai miseri, vuol dire attività organizzata dal governo e dai grandi organismi sindacali e popolari allo scopo di limitare i privilegi dei gruppi abbienti più ric­chi e di combattere la speculazione. Questi sono i compiti fondamentali di un governo che si proponga di fare opera di solidarietà nazionale. In questo campo i governi che si sono succeduti sinora hanno fatto tutti poco o niente. Poco o niente nel campo dell'industria, poco o niente nel campo dell'alimentazione. Per quanto riguarda l'alimentazione abbiamo preso, non una ma due volte, deliberazioni e approvato leggi per impedire il lusso sfrenato di certi spacci e di certi ristoranti, ma abbiamo avuto lo scorno di vedere che nessuna di queste leggi è stata mai applicata, soprattutto qui a Roma. Quel poco che si è fatto si riduce alle leggi agrarie promosse dal compagno Gullo per dare un po' di terra ai contadini, to­gliendola ai proprietari che non la coltivano, e ad alcune leggi finanziarie pro­mosse dal compagno Scoccimarro per colpire eccessivi arricchimenti e lussi eccessivi.

   Il bilancio dell'azione concreta di governo dalla liberazione in poi presenta dun­que enormi lacune, che mettono in luce la persistente debolezza della situazione politica italiana.

   Nell'ultima dichiarazione del Presidente del consiglio De Gasperi, abbiamo letto un'affermazione energica, che è stata accolta con gioia da ogni cittadino italiano, circa la volontà del governo di distruggere il fascismo e impedire che esso rinasca. Prendiamo in parola l'uomo che ha pronunciato queste parole e at­tendiamo che il governo che egli presiede faccia in questo campo realmente ciò che in questo momento, alla vigilia delle elezioni, è necessario fare. Ma di fronte al fatto che impegni precedentemente presi non sono stati adempiuti, di fronte al fatto che fascismo e banditismo monarchici trovano protezione e connivenza là dove non dovrebbero trovarla, di fronte al fatto che non riusciamo, nonostante la nostra volontà e la nostra insistenza, a far adottare misure che accentuino il carattere di solidarietà nazionale dell'azione governativa, ci riserviamo di sotto­porre tutte queste questioni al giudizio del popolo nelle prossime consultazioni elettorali. Siamo però contrari, anzi ci sembra strano che in questa situazione ci si venga a proporre come culmine dell'opera di questi due anni di approvare il voto obbligatorio. Secondo noi il voto obbligatorio è misura antidemocratica, perché tende a sostituire un regime democratico e liberale come quello a cui aspira la nazione, con un regime di sedicente democrazia, organizzata con cartolina rossa. Non è ammissibile che uno schieramento di maggioranza che poi sarebbe uno schieramento di metà contro metà tanto del governo quanto dell'Assemblea con­sultiva, si voglia imporre una riforma simile. Questa è cosa che non accettiamo e non accetteremo mai. Il governo il quale approvasse l'introduzione del voto obbligatorio, faccia conto di essere il giorno dopo dimissionario perché non con­terà più i comunisti nel suo seno.

   Ma questo è un problema parziale. Nel complesso, sta al Congresso esaminare il bilancio della nostra azione per la liberazione d'Italia e della nostra azione di governo nei suoi aspetti positivi e negativi. Sta al Congresso esprimere un giudi­zio e darci una direttiva, dirci quello che dobbiamo fare, come dobbiamo andare avanti, quale linea dobbiamo seguire. La conclusione prima che noi ricaviamo e credo il Congresso ricaverà, solidale con la Direzione del partito, è che col regi­me attuale non si può più andare avanti a lungo. Andare avanti con un regime nel quale esiste una paralisi effettiva del governo, per cui quando si tratta di pren­dere misure efficaci in qualsiasi campo, i partiti di sinistra che svolgono azione conseguentemente democratica si trovano di fronte a un continuo ricatto che li costringe a subire o l'inerzia governativa o persino misure antidemocratiche per evitare crisi che mettano a soqquadro tutta l'Italia, non è più possibile. Bisogna quindi andare alle elezioni della Costituente, e bisogna che nelle elezioni per la costituente gettiamo le basi di una più audace e più concorde opera di rinnovamento.

   Il popolo deve essere e sarà chiamato finalmente a manifestare la sua sovranità, eleggendo un'Assemblea Costituente. Di qui avrà inizio il nostro rinnovamento vero. Ma vi è ancora chi contesta la legittimità di questo atto. Mi hanno detto, per esempio, che vi è a Roma un palazzo, nel quale siede qualche cosa che dico­no si chiami il Senato, e che in un ufficio di questo palazzo starebbero arrivando migliaia di lettere di protesta contro la decisione di convocare la Costituente e contro la legge in cui questa decisione ha ricevuto una prima sanzione. Di fronte a un movimento simile forse non è inutile ricordare che l'impegno di una vota­zione popolare per decidere quale sarà la forma dello stato è prima di tutto un impegno internazionale, e quindi è un impegno che venne preso a Salerno, quando costituimmo insieme con tutti gli altri partiti della coalizione il primo governo di tipo democratico. Per gli smemorati sarà bene ricordare che l'impegno venne solennemente confermato in una dichiarazione che fu scritta di suo pugno pro­prio dal senatore Benedetto Croce. Una violazione di questo impegno mettereb­be in pericolo tutta la situazione italiana. Non si dimentichi, poi, che al di sopra degli impegni formali vi è il diritto che il popolo si è conquistato con venti anni di sofferenze e cinque anni di lotta aperta contro il fascismo di tracciare da sé le vie del proprio avvenire.

   La Costituente ci deve essere e ci sarà. Resta da vedere che cosa sarà questa as­semblea e che cosa dovrà essere la Costituente che ne uscirà. La questione non è semplice, soprattutto perché da parecchie parti si cerca di intorbidare le acque, né mancano coloro che, pur non arrivando a negare la legittimità della Costi­tuente, tentano di ridurne le proporzioni, di annullare il valore che la sua convo­cazione deve avere nella vita nazionale e quindi di ridurre l'importanza dei pro­blemi che la Costituente dovrà decidere. Si tende a ridurre tutto a questioni astratte di diritto, a formule costituzionali che si contrappongo ad altre formule costitu­zionali, di cui il popolo capisce poco o non capisce nulla. Con questi espedienti ci si sforza di ridurre tutto a una discussione astrusa a cui non partecipino le gran­di masse popolari. Contro questa tendenza dobbiamo combattere senza esitazio­ne. Sappiamo che esistono problemi di diritto costituzionale da affrontare e da risolvere. Abbiamo nelle file del nostro partito uomini competenti, che saranno capaci di dire la loro autorevole parola anche per la soluzione di questi problemi. Vi è però una questione da decidere in via preliminare, ed è di decidere e saper bene che cosa sarà politicamente la Costituente e che cosa dovrà essere la nuova Costituzione italiana.

   Di costituzioni ve ne possono essere di diversi tipi. Vi sono costituzioni le qua­li sanciscono in forma generale e giuridica conquiste rivoluzionarie già realizzate. Tali sono le grandi Costituzioni della prima Repubblica Francese, tali gli Atti Costituzionali Inglesi, tale la Costituzione americana. I diritti sanciti in questi documenti storici erano stati conquistati dal popolo con un movimento rivolu­zionario il quale era in pieno sviluppo nel momento in cui la Costituzione veniva scritta. Allo stesso tipo appartengono le due Costituzioni sovietiche: quella del 1924 e quella del 1936, le quali non sanciscono più soltanto i diritti astratti del­l'uomo e del cittadino, ma arrivano alla proclamazione e sanzione legislativa di quei nuovi diritti di tutti gli uomini al lavoro, al riposo, all'assicurazione sociale e all'educazione, che sono scritti nell'ultima di queste due Costituzioni, docu­mento che riassume le conquiste non soltanto di un atto rivoluzionario, ma di tutto un periodo di costruzione di una nuova società. Altre costituzioni, mentre stabiliscono alcuni principi nuovi, si ricollegano in pari tempo ad un passato alle volte lontano di vita democratica del paese e cercano, richiamandosi a questo pas­sato, di distruggere le sopravvenute formazioni reazionarie e dare nuovo impulso democratico alla vita nazionale. Tipo di questa costituzione fu la più famosa del secolo passato, sulla quale si modellarono gli Statuti di parecchi stati, la Costitu­zione spagnola del 1812, il cui prestigio e la cui vitalità derivano appunto dal legame con forme di vita democratica che avevano profonde radici nel popolo spagnolo. Infine altre costituzioni non sono né carne né pesce, e in questa cate­goria farei rientrare tutte quelle che vennero fatte in paesi ancora capitalistici do­po l'altra guerra, facendo eccezione però per la Costituzione spagnuola del 1931 che contiene effettivamente elementi nuovi, espressione delle conquiste realizza­te dal popolo spagnuolo nella sua lotta per la distruzione dei residui della dittatu­ra fascista di Primo de Rivera. Fatta questa eccezione le costituzioni pubblicate in paesi capitalistici tra le due guerre sono tutte di ispirazione conservatrice e rea­zionaria. Più che proclamare e difendere nuovi diritti, esse tendono a porre limiti ai diritti democratici e dare ai governi i mezzi legislativi per opporsi alle rivendi­cazioni sociali e al progresso sociale. Queste costituzioni sono lo specchio di un'Eu­ropa conservatrice, la cui preoccupazione principale è di sbarrare il passo ai nuovi principi affermati e realizzati dalla rivoluzione socialista vittoriosa. Nella Costi­tuzione tedesca di Weimar, per esempio, l'articolo più importante credo fosse il 48°, il quale diceva come si poteva rendere inefficace e distruggere la Costitu­zione stessa, e a quell'articolo si uniformarono a un certo momento tutti coloro che governarono il paese. Quel solo articolo diventò tutta la Costituzione della Germania prefascista.

   Ma quale Costituzione dobbiamo avere noi? Riconosciamo prima di tutto che grandi conquiste rivoluzionarie da sancire in un documento costituzionale dello stato non ne abbiamo ancora realizzate, anche se nuove esigenze di giustizia e di rinnovamento sociale vengono vigorosamente affermate dalla coscienza degli strati più avanzati del popolo, da operai, intellettuali e contadini. Quanto alla tradizione, vi sono scarsi appigli nella tradizione costituzionale del Risorgimento e il nostro Statuto attuale è documento di un liberalismo stentato e di evidente ispirazione legittimistica e conservatrice, che i costituzionalisti meno arretrati si sono sforzati di coprire parlando di costituzione di tipo elastico. Purtroppo, l'e­lasticità era così grande, che anche il fascismo ci potè entrare. Quanto al richiamo alla libertà dei Comuni medievali, esso ci riporta a qualcosa di molto lontano, e non soltanto nel tempo; ci riporta a uno stato il quale non riuscì a superare lo stadio dell'organizzazione puramente corporativa. Noi abbiamo però condot­to contro la tirannide e contro l'invasione straniera una lotta rivoluzionaria e na­zionale che nelle sue fasi diverse, dal periodo clandestino all'insurrezione d'apri­le, è stata combattuta dalle migliori forze della nazione. Con questa lotta è stato rovesciato il fascismo e sono state riconquistate le elementari libertà del cittadi­no. Questa riconquista dovrà trovare nella costituzione una sanzione definitiva e una difesa permanente. Abbiamo bisogno di una costituzione che seppellisca per sempre un passato di conservazione sociale e di tirannide reazionaria e non gli permetta di risorgere mai più, quindi di una costituzione la cui originalità consisterà nell'essere, in un certo senso, un programma per il futuro. Dovranno perciò essere posti dall'Assemblea Costituente problemi di rinnovamento non solo politico, ma economico e sociale, anche se non sarà possibile pretendere che tut­to questo entri direttamente nella Costituzione, poiché in questa possono entra­re solo i principi generali, orientatori di tutta la successiva attività di governo. Tutto questo potrà essere fatto solo se l'attività strettamente costituzionale sarà accompagnata dalla preparazione e approvazione di misure legislative le quali per lo meno abbozzino la soluzione di grandi e urgenti questioni economiche e so­ciali: la questione della terra e della riforma agraria, la questione dell'industria e delle riforme industriali, le garanzie e i diritti del lavoro e i principi della legi­slazione sociale.

   Di qui ricaviamo alcune conseguenze politiche pratiche. La prima è che l'As­semblea Costituente deve essere sovrana, perché qualora non lo fosse non potrebbe compiere la minima parte del suo enorme lavoro. Respingiamo dunque tutti quei complicati ragionamenti attraverso i quali ci vorrebbero convincere che l'Assem­blea Costituente dovrebbe essere una specie di senato, una riunione di sapiento­ni separati dalle correnti popolari, intenti a elaborare complicate massime giuri­diche mentre tutto il resto dovrebbe continuare ad andare avanti come è andato sinora, e quindi dovrebbe rimanere in vita un governo come quello di ora, con la sua pariteticità fra tutti i partiti, e dovrebbero rimanere in vita persino la Con­sulta e la Luogotenenza. La Costituente dovrà essere sovrana, avendo facoltà di deliberare su tutte le questioni che si presenteranno al paese nel periodo della sua esistenza, e quindi sovrana anche di determinare quale sarà il governo d'Ita­lia in quel periodo e di tenere questo governo sotto la sua direzione. E' sperabile che per la parte formale, relativa alla formazione di questo governo, si venga a un accordo di tutti i partiti del CLN in modo che su questo terreno non si produ­cano ora nuove lacerazioni. Non vediamo difficoltà insuperabili per arrivare a questo accordo, ma le difficoltà insuperabili sorgerebbero e sarebbero serie il giorno che si volesse negare la sovranità della Costituente e impedire che durante l'esistenza di essa si svolga una attività legislativa sotto il suo controllo o sotto la sua direzione.

   In questo modo credo siano giustamente poste e sia almeno accennata nelle grandi linee una giusta soluzione delle questioni politiche e giuridiche più am­pie, legate alla convocazione della Costituente, ai suoi poteri e alla sua attività.

   Ritornano ora le questioni di sostanza, per la soluzione delle quali bisogna met­tere in guardia contro ogni semplicismo, perché non verranno superate semplice­mente con la creazione di una nuova Costituzione, ma potranno esserlo solo con un'attività conseguente di governo, su una base migliore, nuova, più avanzata e più solida di quella su cui abbiamo lavorato fino ad ora.

   E qui dobbiamo rifarci al punto di partenza, cioè alle origini del fascismo e alle condizioni in cui esso ci ha ridotti. Per rinnovare l'Italia tre problemi sono da risolvere, quello dell'indipendenza, quello dell'unità e quello della democra­zia, cioè della libertà e del benessere delle masse lavoratrici.

   L'indipendenza del nostro paese abbiamo fatto già molto per riconquistarla, ma ho detto prima che non si può ancora ritenerla completamente sicura. Per riconquistarla e garantirla intieramente è necessario svolgere una particolare azio­ne internazionale, cioè avere una particolare politica estera.

   Quale deve essere la politica estera della nuova Italia democratica? Osserviamo innanzi tutto che la politica estera oggi non la fanno soltanto i Ministri e i Gabi­netti, come avveniva una volta, ma la fa tutto il paese, la fa l'opinione pubblica, la fanno i giornali, contribuisce ad essa attivamente, insomma, tutta la nazione, con tutti gli aspetti della sua attività. Questo dobbiamo tener presente nel giudi­care ciò che in questo campo è stato fatto sino ad ora. Le nostre critiche dunque, alle quali non vogliamo però togliere la punta che hanno, investono tutta una situazione e non soltanto responsabilità personali. E' nostra opinione che nel com­plesso l'orientamento dell'opinione del paese e soprattutto dell'opinione di de­terminati gruppi dirigenti della nostra politica estera non è stato giusto; sono af­fiorate in esso alcune storture fondamentali e principalmente due, le quali nella misura in cui si sono affermate e nella misura in cui hanno influenzato gli atti concreti del governo, hanno compromesso la causa del nostro paese e in special modo la causa dell'indipendenza d'Italia.

   La prima stortura deriva dalla convinzione secondo cui per affermarci di nuovo come nazione indipendente e riconquistarci una posizione nel mondo, dovrem­mo speculare sopra i dissensi fra le grandi potenze alleate. La seconda è l'ostilità preconcetta contro l'Unione Sovietica. Tutti e due questi errori vengono dal fa­scismo e tutti e due devono essere liquidati se vogliamo fare, come governo e come paese, una politica estera giusta. Tra l'altro mi permetto di osservare che queste due storture sono tra di loro contraddittorie, perché se si dovesse accettare l'affermazione secondo cui dovremmo schierarci con l'uno o con l'altro gruppo di Alleati per riuscire a migliorare la nostra posizione, mi pare evidente, una volta accettato il punto di partenza, che avremmo dovuto orientarci non verso le potenze occupanti ma verso quelle non occupanti. Infatti è delle potenze occu­panti che dobbiamo cercare di limitare i poteri. Naturalmente, non faccio mio questo ragionamento perché in contrasto con tutte le nostre concezioni di politi­ca internazionale, lo espongo soltanto per mettere in luce la potente contraddi­zione tra le due storture fondamentali che si sono manifestate nell'orientamento della politica estera italiana dopo la liberazione.

   Noi riteniamo che l'Italia abbia bisogna soprattutto di pace. Abbiamo biso­gno di pace per alcune generazioni, e bisogna che ci sia pace non solo nel nostro paese, ma in Europa e nel mondo intiero, perché se il nostro paese dovesse esse­re ancora una volta trascinato, direttamente o indirettamente, nella guerra, o an­che se dovesse solo svilupparsi un conflitto al di fuori delle nostre frontiere, non sappiamo dove potremmo andare a finire, anzi questa volta possiamo essere sicu­ri che sarebbe messa in forse l'esistenza stessa della nazione italiana.

   Non siamo utopisti. Sappiamo che per eliminare completamente i motivi di guerra, bisogna modificare la struttura economica della società. Sappiamo però anche che oggi si può preservare la pace con una politica determinata, che tenda a mantenere l'unità delle grandi nazioni democratiche, le quali hanno vinto il fascismo con la loro unità e con la loro unità devono ricostruire una Europa e un mondo pacifici, in cui tutti i popoli siano liberi e abbiano la possibilità di riconquistarsi il grado di benessere che è necessario alla loro esistenza. Per questo condanniamo e denunciamo con sdegno tutte le stolte e infami campagne che vengono sistematicamente condotte su una parte della stampa italiana, la quale va rovistando in non so bene quali giornali di quali reazionarie provincie europee o americane le più assurde notizie per dare l'impressione non solo della inevita­bilità, ma della imminenza di un conflitto tra le grandi potenze alleate. Prima ancora che finisse la guerra, già una parte della nostra stampa era orientata in questo modo e in questo modo cercava di orientare l'opinione pubblica. Al leg­gere questi giornali, sembrava che quando gli eserciti anglo-americani e sovietici si fossero incontrati nel cuore della Germania, avrebbe dovuto scoppiare fra loro una guerra fratricida. Perfino giornali che vorrebbero essere seri, come l'Osserva­tore Romano, alimentavano in modo irresponsabile queste campagne, le quali si sono poi rinnovate e si rinnovano continuamente, denunciando non solo la per­sistenza di uno spirito antidemocratico e fascista, ma l'influenza deleteria dei più reazionari ed aggressivi gruppi del capitalismo internazionale. Si cela qui il peri­colo di una nuova trasformazione del nostro paese in feudo di forze reazionarie non italiane, e si capisce che vogliano questa trasformazione quegli stessi gruppi reazionari che furono i fautori della politica dell'«asse» fascista. Se vogliamo che la nostra indipendenza sia salva ora e per sempre, dobbiamo chiamare tutti gli italiani ad opporsi con tutte le loro forze a questa nuova aberrazione.

   Chiarita questa questione fondamentale e pregiudiziale a tutte le altre, voglio dire alcune parole su alcuni aspetti e alcune proposte concrete di politica estera che formano oggi oggetto di appassionati dibattiti. Non credo sia nell'interesse del nostro paese aderire o farsi promotori anche in misura ristretta di un bloc­co di potenze di qualsiasi genere, sia esso mediterraneo o occidentale, o in qua­lunque modo si possa chiamare. Così pure non comprendo nulla di tutto quello che si dice circa una particolare funzione di «mediazione» che dovrebbe avere il nostro paese tra due blocchi contrastanti, i quali poi non si sa nemmeno quali siano in modo ben definito. Ritengo che un paese il quale è arrivato al nostro punto di distruzione economica e di sfacelo, non può fare una politica di blocco, perché a qualunque blocco aderisse, sarebbe in questo blocco il vassallo di qual­cuno, avrebbe su per giù la parte che l'Italia purtroppo ebbe nei primi decenni della Triplice e che non fu corrispondente né agli interessi, né alla dignità della nazione italiana. Gli atti concreti della nostra politica estera devono tendere alla ripresa di rapporti di amicizia con tutti i popoli e prima di tutto con quelli verso i quali abbiamo vincoli di riconoscenza per il contributo che hanno dato alla li­berazione di una parte del nostro territorio. Politica estera, quindi, di pace e di collaborazione con tutti i paesi democratici, ristabilimento di relazioni normali politiche e di affari con tutte le nazioni europee, e di amicizia e collaborazione con le tre grandi potenze a cui oggi spetta di rigore l'opera di ricostruzione di una Europa e di un mondo pacifico alla testa della grande organizzazione delle Nazioni Unite.

   Per motivi nazionali e internazionali, respingiamo ogni politica di ostilità ver­so l'Unione Sovietica e i suoi popoli e la denunciamo come causa diretta del peg­gioramento della nostra posizione internazionale.

   E' un fatto che se una parte della nostra stampa e dell'opinione pubblica non avesse fatto una politica antisovietica accanita di calunnie, di insinuazioni, di men­zogne, di provocazioni, e se fosse stato eliminato anche il sospetto che roba simi­le potesse influenzare i nostri governi o esprimere il loro pensiero, avremmo pro­babilmente potuto migliorare radicalmente la nostra situazione. Tutto si paga, in politica estera: noi paghiamo oggi i delitti del fascismo, ma paghiamo anche l'azione di coloro che continuano, sotto un'altra maschera, a sviluppare, in una parte della nostra stampa, una politica di tipo fascista. Noi non crediamo, però, che l'Italia debba fare una politica di amicizia verso l'Unione Sovietica per moti­vi ideologici: in genere, le ideologie non vengono prese in considerazione quan­do si tratta della politica estera. Dobbiamo fare una politica di amicizia verso l'Unione Sovietica per motivi nazionali, e per tener fede a una tradizione di dife­sa dei nostri interessi. E qui permettetemi ancora una volta un richiamo alla no­stra storia: nell'800, quando si è costituita l'unità d'Italia, fra tutte le nazioni europee ve ne è stata una che dal Congresso di Vienna fino al 1860-61, pur es­sendo lontana da noi, ha però sempre fatto una politica che tendeva a favorire la formazione di uno Stato unitario indipendente italiano. Questa potenza è sta­ta la Russia. La politica russa è stata, in questo campo, esclusa una breve parente­si del 1849, molto più conseguente che la politica dell'Inghilterra e della Fran­cia. Questa politica si è sviluppata dai consigli che lo Zar Alessandro inviava a Vittorio Emanuele I, spingendolo a chiedere al Congresso di Vienna la unifica­zione almeno dell'Italia Settentrionale in un solo stato fino alla nota di Gorciakov nel 1859, che tolse all'Austria ogni speranza di potersi opporre alla annessio­ne al Regno Sardo dell'Italia centrale [3]. Mi si dirà che questi fatti sono ignorati dai nostri storici, ma la cosa non stupisce, perché la nostra «storia» ufficiale è piena di falsificazioni. E' un fatto che nel biennio 59-'60, in questo miracoloso biennio in cui sembra di colpo uscire, da tutta una molteplicità di stati separati l'uno dall'altro, lo Stato italiano unitario, vi fu un popolo, il popolo francese, che versò il suo sangue per la causa della nostra liberazione e unificazione. Tutti gli italiani saranno in eterno riconoscenti di questo alla Francia. E' un delitto di Mussolini, del fascismo e della monarchia, aver dimenticato questa riconoscenza e tentato di distruggere le basi su cui si fonda l'amicizia tra l'Italia e la Francia. In pari tempo, però, bisogna riconoscere che dopo la fine della guerra del 1859, quando la Francia si era per i suoi motivi nazionali ritirata dal giuoco e quando fu giocata da Cavour la carta più audace, quella dell'annessione del centro della penisola al Piemonte, quello che decise della possibilità di fare l'Italia fu la para­lisi improvvisamente manifestatasi dell'esercito austriaco. Quella paralisi fu do­vuta al fatto che un'altra potenza, e precisamente la Russia, aveva mobilitato le proprie divisioni alla frontiera austriaca. Questi son fatti che dobbiamo tener pre­senti perché indicano non correlazioni ideologiche, ma coincidenze di interessi e posizioni nazionali che nella storia tendono a ritornare. Nell'azione che dovrà tendere a evitare che nel Mediterraneo noi diventiamo i vassalli di un grande im­perialismo straniero, noi non potremo che trovare l'appoggio della Russia. Lo ten­gano presente coloro che non comprendono perché l'accesso sovietico a una delle vecchie colonie italiane sia per noi cosa tutt'altro che da respingersi. La rivendica­zione di una permanente e stretta amicizia fra il popolo italiano e i popoli del­l'Unione Sovietica è coerente con la nostra lotta per l'indipendenza.

   Nel campo delle iniziative concrete di politica estera, riteniamo in sostanza che una sola debba essere la nostra direttiva: dobbiamo orientarci non per motivi ideo­logici, non per motivi di lotta politica interna, non perseguendo vani sogni di predominio, ma unicamente verso le potenze o i gruppi di potenze i quali favori­scano al massimo la riconquista e la difesa della nostra indipendenza. Questa è la direttiva fondamentale di politica estera dei comunisti italiani, i quali, tenen­do fede a questa direttiva, continuano in condizioni nuove la loro lotta per l'uni­tà e l'indipendenza della nazione italiana.

   Un aspetto particolare del problema dell'indipendenza è quello relativo alla relazioni economiche con l'estero. Dobbiamo rendere elogio a De Gasperi il quale per la prima volta, nelle sue recenti dichiarazioni di politica estera, ha chiara­mente detto che uno degli obiettivi della nostra politica nazionale è quello di riacquistare la facoltà di regolare da noi i nostri scambi con l'estero, di discutere liberamente del finanziamento eventuale estero delle nostre industrie e di tratta­re liberamente con tutti i paesi le condizioni della nostra emigrazione. Non è possibile che in questo campo si continui a negarci libertà e indipendenza, man­tenendoci nella situazione di un paese semi-coloniale. Non è per questo che si è fatta la guerra. In fondo se gli Alleati ci chiedessero di lasciare guarnigioni tra di noi per controllare che non rinasca il fascismo, sebbene con rincrescimento e amarezza pure dovremmo riconoscere la possibile legittimità della loro richiesta. Ma che possa essere limitata la nostra indipendenza e qualcuno possa avanzare anche solo il sospetto che ciò possa farsi non allo scopo di condurre a termine la liberazione del mondo dalle catene del fascismo, ma allo scopo di favorire gli interessi delle compagnie cinematografiche americane o di una società di vendita di apparecchi telefonici, è cosa che abbassa davanti al nostro popolo il prestigio delle Nazioni Unite. Per questo chiediamo ci venga restituita al più presto in questo campo la nostra sovranità.

   In questo come negli altri campi noi comunisti siamo solidali con tutti gli altri partiti democratici italiani nella lotta per ottenere al nostro paese condizioni di pace giuste, condizioni che pur tenendo conto, come sarà inevitabile, della tragi­ca eredità del fascismo, tengano però conto anche del contributo reale, effettivo che abbiamo dato alla sconfitta del fascismo e alla vittoria comune; tengano con­to che abbiamo organizzato più di 120 unità partigiane per tagliare la strada e aiutare la distruzione di venti divisioni tedesche, alcune delle quali furono co­strette alla capitolazione dai nostri partigiani e dalla insurrezione delle nostre cit­tà. Se a questo aggiungiamo lo sforzo e il sacrificio dei reparti dell'Esercito, della Marina, dell'Aviazione, e il contributo di lavoro e di resistenza dato da tutta la nazione, acquistiamo la convinzione che l'Italia democratica e antifascista si è con­quistati dei diritti i quali non dovranno essere misconosciuti, perché ciò, tra l'al­tro, potrebbe avere gravi conseguenze per lo sviluppo ulteriore della nostra vita democratica.

   E veniamo alla questione dell'unità, che prima di tutto comprende la defini­zione delle frontiere. Non è facile entrare nei particolari, perché molte cose non sono ancora chiare. Nella linea generale, siamo solidali con l'azione che tutto il paese deve svolgere per evitare che terre italiane ci vengano tolte. Ai nostri com­pagni e fratelli d'arme degli altri paesi d'Europa, abbiamo il dovere, come co­munisti, di dire che quando abbiamo preso le armi e abbiamo combattuto con­tro l'invasore tedesco e contro i traditori fascisti abbiamo anche combattuto per le nostre frontiere.

   Particolarmente grave fra tutte le altre è da considerare ogni richiesta di modi­ficazione delle frontiere settentrionali. Si tratta qui, infatti, dei rapporti del po­polo italiano con il germanesimo al quale dobbiamo sbarrare la porte, e per quanto grande sia stata la nostra gioia nel veder ricostituita una repubblica austriaca in­dipendente, non possiamo tuttavia dimenticare la distanza enorme che corre tra quello che questo popolo ha fatto e quello che ha fatto l'Italia per combattere hitlerismo e fascismo. La maggior parte delle divisioni SS operanti in Italia erano divisioni austriache, contro le quali ci siamo battuti con le armi alla mano e che abbiamo contribuito a cacciare dal nostro territorio. Elementi di queste divisioni pare siano rifugiati ora nell'Alto Adige e contribuiscano alla agitazione per la revisione delle nostre frontiere settentrionali. E' giusto infine che noi chiediamo garanzie contro il pericolo di rinascita di un germanesimo conquistatore e barba­ro come le chiedono tutti i popoli d'Europa che furono vittime dell'invasione hitleriana.

   Per quanto riguarda le frontiere orientali, la nostra posizione è stata falsata ad arte da nemici ed avversari, allo scopo di poter scatenare una campagna naziona­listica con la quale si sperava di metterci in imbarazzo. La manovra ormai è falli­ta. Noi abbiamo sempre affermato l'italianità di Trieste, ma in pari tempo ab­biamo affermato e affermiamo che la frontiera orientale deve essere tracciata in accordo col popolo jugoslavo, evitando ad ogni modo di farne oggetto di agita­zione nazionalistica. Abbiamo anche affermato sempre che vi è stato e vi è un grave errore nella nostra politica e nell'orientamento generale dell'opinione pub­blica italiana nei confronti con la Jugoslavia. Di questo errore la responsabilità più grave ricade senza dubbio su Bonomi, che il giorno in cui le truppe di Tito entravano a Trieste e ne cacciavano i tedeschi, faceva al CLN giuliano un discorso nazionalistico ripetendo la famosa frase del «grido di dolore». Era inammissibi­le che il nostro Presidente del Consiglio parlasse di «grido di dolore» proprio nel giorno in cui Trieste veniva liberata. Questo non poteva non complicare enor­memente la situazione, scavando un abisso tra l'Italia ufficiale e la Jugoslavia. La posizione da prendersi in quel momento era di salutare le truppe di Tito come liberatrici, il che esse erano in realtà, e invocare e preparare in pari tempo la solu­zione dei problemi controversi attraverso il contatto diretto e la collaborazione tra le due parti. A questo primo errore ha fatto seguito la scandalosa campagna di odio contro la Jugoslavia, nutrita di menzogne e calunnie e persino di incita­menti alla guerra, campagna che per nostra sciagura ancora continua.

   La situazione è ora seriamente compromessa, ma appunto per questo è nostro dovere insistere nell'affermare e dimostrare che non possiamo né fare né tollerare una politica di ostilità contro la Jugoslavia, perché questo sarebbe una continua­zione diretta della politica fascista e perché non possiamo passar sopra il fatto che la Jugoslavia è uno dei paesi che hanno dato maggior contributo alla lotta contro il fascismo, e che ha subito proprio da parte del fascismo italiano un'ag­gressione a tradimento, con l'accompagnamento di orrori, barbarie e persecuzio­ni innominabili.

   Particolarmente delicata è per noi la questione di Trieste. Gli operai di Trieste hanno infatti in maggioranza assunto un atteggiamento favorevole all'annessio­ne della città allo Stato Federale Jugoslavo. Vi è un contrasto netto tra questa posizione e quella che prendiamo noi. Ora, se non è eccessivamente grave il fatto che un contrasto esista tra il nostro partito e il Partito Comunista Jugoslavo poi­ché entrambi vogliono fare una politica nazionale in un quadro di difesa conse­guente degli interessi dei lavoratori, e non è quindi obbligatorio che dall'inizio abbiamo su ogni questione posizioni identiche, seria invece è la cosa quando si tratta degli operai di Trieste, città che noi affermiamo italiana.

   Noi comprendiamo lo stato d'animo dei lavoratori triestini. Essi vedono come è confusa la situazione italiana. Vedono qui tra di noi evidenti tendenze alla ri­nascita del fascismo, pensano che se domani Trieste fosse governata da un prefet­to italiano forse dovrebbe subire ancora una volta gli incendi delle Camere del Lavoro e dei giornali democratici e tutte le altre violenze che subì venti anni fa. Tutto questo lo comprendiamo. Comprendiamo la perplessità degli operai trie­stini; il fatto che essi non guardino con fiducia verso l'Italia come è ora, è cosa naturale. Non possiamo approvare, però, il passaggio da questa perplessità a una posizione separatista. La classe operaia non può risolvere in questo modo i propri problemi, né può in questo modo contribuire alla soluzione dei problemi della democrazia. Nell'altro dopo-guerra, per aver trascurato l'elemento nazionale vi furono movimenti operai che troncarono il loro sviluppo e dettero partita vinta alla reazione. Negare l'elemento nazionale non si può; né si può disconoscere che l'appartenenza di Trieste all'Italia è considerata dalla maggioranza come una questione vitale per la nazione. La classe operaia non può pensare di poter risol­vere la questione della vittoria della democrazia e nemmeno quella della vittoria del socialismo staccandosi dalla comunità nazionale. Non si rende democratico un paese così come si mangia un carciofo, staccandone una foglia dopo l'altra per aggregarla a una comunità più democratica. Procedendo a questo modo, non si può ottenere altro risultato che di rendere più difficile la lotta per la democra­zia, spingendo nel resto del paese una parte della popolazione a subire la direzio­ne dei partiti nazionalistici e reazionari. Compito degli operai di Trieste è di lot­tare insieme con noi contro le forze reazionarie italiane e straniere, e di servire come mediatori tra due popoli per trovare una soluzione tale della questione con­creta della loro città che elimini ogni tentativo di dissenso, spenga ogni scintilla di risentimento nazionalistico tanto dall'una quanto dall'altra parte e permet­ta in questa parte della nostra frontiera di fare opera permanente di pace e di rieducazione democratica. Noi vogliamo la pace, e in particolar modo la voglia­mo con i popoli della Jugoslavia. Per questo continueremo a combattere contro i residui dell'imperialismo fascista e contro il nazionalismo del nostro paese.

   La tradizione di Giuseppe Mazzini, il quale dell'amicizia tra i popoli italiano e jugoslavo fece un cardine della sua politica nazionale, è così da noi continuata nell'interesse d'Italia e nell'interesse della pace europea.

   La questione dell'unità è pure strettamente legata a quella della struttura del nuovo stato italiano. Ripeto qui quello che ho detto in principio: sappiamo che il nostro stato unitario nazionale esiste solo da una ottantina di anni o poco più. Esso è quindi ancora qualche cosa di fragile e che non bisogna mettere in pericolo con affrettati esperimenti e riorganizzazioni in senso federalistico. Non siamo fe­deralisti: siamo contro il federalismo; riteniamo che l'Italia deve essere politica­mente organizzata come stato unitario, con il necessario grado di centralizzazio­ne. Questa questione però ha per noi due aspetti: prima di tutto vi è l'aspetto siciliano e sardo, poi quello di tutte le altre regioni. Sicilia e Sardegna hanno un diritto particolare a una autonomia particolarmente ampia, perché devono essere riparati economicamente e politicamente i torti che sono stati fatti a queste regio­ni dalle vecchie classi dirigenti reazionarie italiane attraverso l'azione accentratri­ce e burocratica dello Stato monarchico. Salutiamo il fatto che la Consulta sicilia­na abbia approvato un primo progetto di Statuto di quella regione autonoma e ci proponiamo di dare un nostro efficace contributo all'ulteriore elaborazione di questo Statuto. Allo stesso modo si deve procedere per la Sardegna. Allo stesso modo però non si può procedere per le altre regioni d'Italia. Qui si tratta di con­cedere prima di tutto ampie autonomie locali ai Comuni. Quindi si tratta di far scomparire il sistema dei prefetti inviati dal centro e di sostituire ai prefetti, fun­zionari eletti su scala provinciale e se necessario su scala regionale. Il nostro regio­nalismo però, e lo diciamo chiaramente, ha dei limiti. Ci sentiamo completa­mente fuori dal nostro ambiente, quando partecipiamo a riunioni dove, discu­tendo della regione, si incomincia a parlare di frontiere, di capitali e persino di «sbocco al mare», e cioè, se la regione emiliana, per esempio, arrivi fino al Tir­reno e come vi possa arrivare, o se le Puglie devono avere una o tre capitali e così via. Tutto questo rievoca in noi la immagine di un'Italia divisa in tanti staterelli quante pressapoco le città, di un'Italia alla quale non vogliamo ritornare. Un'Italia federalistica sarebbe un paese nel quale risorgerebbero e finirebbero per trionfare tutti gli egoismi e particolarismi locali, e sarebbe ostacolata la soluzione dei problemi nazionali nell'interesse di tutta la collettività. Un'Italia federalisti­ca sarebbe un'Italia nella quale in ogni regione finirebbero per trionfare forme di vita economica e politica arretrate, vecchi gruppi reazionari, vecchie cricche egoistiche, le stesse che hanno fatto sempre la rovina d'Italia.

   Non siamo però contrari a che si affidi alle regioni l'adempimento di determi­nate funzioni, allo scopo di facilitare la soluzione concreta di determinati proble­mi agrari e industriali. Vediamo con interesse anche la elaborazione di piani di ricostruzione su base regionale e, quindi meglio adatti alle necessità delle popo­lazioni, ma difenderemo l'unità contro chi o per dottrinarismo malinteso o per spirito reazionario la metta in pericolo. L'unità politica ed economica del paese è stata una conquista faticosa di generazioni. Essa è un bene comune di tutti i cittadini e neghiamo che una parte sola del popolo italiano abbia il diritto di metterla in discussione contro l'interesse di tutti. Per questo siamo stati e siamo in Sicilia antiseparatisti. Per questo siamo antifederalisti convinti, nell'assumere questa posizione, di continuare le migliori tradizioni del movimento socialista italiano in quanto esso è stato sempre movimento unitario e ha contribuito a creare un'Italia nuova, nella quale fossero superate le vecchie rivalità regionali e tutta la vita della nazione si svolgesse su un piano più alto.

   La nuova Costituzione e l'attività legislativa che ne accompagnerà e seguirà la formulazione dovranno garantire al popolo italiano la democrazia, dovranno cioè garantire che il fascismo sarà distrutto sino in fondo, che ne saranno stroncate le radici e che un regime reazionario fascista o di tipo fascista non potrà risorgere mai più.

   Per ottenere questo scopo si presentano però soluzioni diverse e non tutte effi­caci e degne di considerazione. Prima di tutto è da esaminare la proposta di colo­ro i quali dicono che tutto si ridurrebbe a creare una specie di Alta Corte costitu­zionale, la quale dovrebbe garantire il rispetto permanente della Costituzione, e che i diritti fondamentali dell'uomo e del cittadino non saranno mai più né calpestati né distrutti. Non siamo in linea di principio contro nessuna misura di questo genere. Pensiamo però che una simile istituzione la quale ha un valore per quei paesi dove è storicamente sorta, in accordo con tutto il costume giuridi­co e politico, trasportata nel nostro probabilmente non avrebbe più nessun valo­re. Basta, per esserne convinti, riferirsi al passato, ricordando come il fascismo è sorto e si è affermato. La prima cosa che i fascisti fecero fu di violare sistematica­mente le leggi penali, usando violenza, incendiando, saccheggiando, uccidendo, facendo strage. Esistevano organismi cui fosse affidato il compito di reprimere questi delitti? Sì, esistevano; erano la polizia, la gendarmeria, i tribunali. I delit­ti fascisti, nonostante ciò, non furono perseguiti, e il fascismo trionfò. Esisteva­no, a un grado più alto, organismi incaricati di un controllo giuridico e ammini­strativo e persino di un possibile controllo costituzionale sull'attività governati­va? Ne esistevano per lo meno tre: la Suprema Corte di Cassazione, il Consiglio di Stato e la Corte dei Conti, ed essi avevano tutti i poteri necessari per constatare le incostituzionalità di qualsiasi atto del governo, nonché per scoprire, denunciare e colpire la corruzione fascista. Ebbene, nessuno di questi tre organismi ha agito. I fascisti hanno fatto tutto quello che volevano in tutti i campi. I tribunali non li hanno condannati. Le più incostituzionali delle leggi sono state tranquillamente applicate. I conti dei più ladri tra i ministri sono stati in tutta fretta registrati da quegli stessi funzionari che si scambiavano e continuavano a scambiarsi dieci­ne di lettere per discutere se la pensione di un invalido debba essere di 20 cente­simi più alta o più bassa. E' evidente che se vogliamo avere garanzie reali di difesa della democrazia dobbiamo cercarle in un'altra direzione.

   Certo, anche nel campo dell'amministrazione e della organizzazione dei pote­ri dello stato vi è molto da fare. Indispensabile è una riforma dell'amministrazio­ne, soprattutto allo scopo di combattere la corruzione e di elevare il livello di vita dei funzionari e impiegati statali, in modo che possano servire meglio lo sta­to e il popolo. Siamo per l'indipendenza della magistratura come garanzia per i cittadini e garanzia di serietà dell'ordinamento democratico. Soprattutto però riteniamo che in questo campo, se vogliamo avere garanzie e miglioramenti seri, dobbiamo moltiplicare i contatti degli organismi amministrativi e di governo con le masse popolari. Questi contatti non dovranno esistere soltanto il giorno in cui viene eletto il Parlamento, ma dovranno essere permanenti. Per questo deve es­sere posta all'ordine del giorno la eleggibilità almeno di una parte della magi­stratura; devono essere organizzate particolari forme di controllo popolari sugli organi dell'amministrazione dello stato; si può arrivare a sancire la revocabilità del mandato parlamentare, qualora gli elettori constatino che il loro rappresentante non ha tenuto fede agli impegni assunti e non serve la loro causa.

   Tutte queste però sono oggi questioni di contorno. Se si vuole dare in Italia solide fondamenta alla democrazia le questioni da risolvere sono essenzialmente tre: quella della monarchia, quella dei rapporti con la Chiesa e quella del conte­nuto economico del nostro regime democratico.

   Credo che parlando a un'assemblea di partito, e pur essendo rivestito di cari­che ufficiali, poiché ci troviamo ormai in periodo di preparazione di un'assem­blea come la Costituente, non violo nessun impegno se dico liberamente quale è il nostro pensiero. Storicamente ho già avuto occasione di dirlo fin dal primo giorno che ho parlato in Italia dopo il mio ritorno dall'esilio. L'Italia a differenza di altri paesi d'Europa, ha avuto la disgrazia di non avere una monarchia nazio­nale unificatrice quando la nazione ne avrebbe avuto bisogno per riuscire a rag­giungere più rapidamente la propria unità e la propria indipendenza dallo stra­niero. Invece abbiamo avuto e abbiamo una monarchia quando essa è stata ed è di intralcio allo sviluppo della nostra vita democratica. Politicamente, non è possibile che la monarchia sopravviva al fascismo: le corresponsabilità sono trop­pe e troppo gravi. Qui si va anzi al di là della politica, si entra in quel campo dove il giudizio politico diventa giudizio morale e dove, finito il periodo di emer­genza, le transazioni non sono più possibili. Coloro che alla testa dell'istituto monarchico, hanno in tutti i modi favorito l'avvento del fascismo al potere e che infine, costretti a separarsi da Mussolini, hanno però lavorato perché il fascismo scomparendo fosse soltanto messo in riserva e potesse ricomparire alla prima oc­casione, costoro hanno definitivamente compromesso l'istituto monarchico nella coscienza del popolo italiano. Se dopo tutto quello che è successo l'istituto mo­narchico dovesse sopravvivere, in modo inevitabile, qualunque possano essere le volontà dei capi di partito e dei dirigenti politici della nazione, si creerebbe una frattura, una lacerazione insuperabile, la quale comprometterebbe tutto il lavoro di rinnovamento e soprattutto renderebbe vana ogni lotta per l'indipendenza e per l'unità. L'istituto monarchico sarebbe costretto a cercare appoggi stranieri per darsi quell'autorità che più non possiede e così diventerebbe veicolo di influenze straniere e fautore di vassallaggio allo straniero. Sarebbe inevitabile la rivolta mo­rale d'una parte della nazione. L'indipendenza e l'unità sarebbero perdute. Per­duta sarebbe anche la democrazia. Se qualcuno non è ancora convinto di questo, osservi quale è stata la posizione e l'attività dei circoli monarchici in quest'ulti­mo periodo, quando la nostra lealtà nel rispettare l'impegno della tregua costitu­zionale è stata completa, e la nostra stessa politica offriva ampie possibilità di collaborazione sul terreno nazionale e democratico. Nonostante questo i circoli monarchici hanno continuato per la loro vecchia strada reazionaria e di tendenze fasciste. Non vi è stata lealtà da parte loro, tanto è vero che il movimento monar­chico si sta ora riorganizzando in modo clandestino esattamente come si organizzò il movimento dei primi gruppi fascisti. Tutti i giornali e tutti i movimenti i quali si sono dichiarati monarchici non hanno saputo far altro, dal momento della liberazione di Roma e fino ad oggi, che condurre una lotta conseguente contro la democrazia e porre ogni intralcio anche alla soluzione democratica più moderata dei problemi posti davanti al popolo italiano. Essi hanno preso la dife­sa dei residui del fascismo, hanno fatto di tutto per non lasciare che la democra­zia si consolidasse, hanno invocato la permanenza in Italia di eserciti stranieri per impedire che il popolo potesse far valere la sua volontà, hanno avvelenato l'at­mosfera politica, hanno seminato disordine, hanno fatto scendere la polemica po­litica al livello della calunnia, dell'ingiuria, del turpiloquio, hanno fatto salire le scale del Quirinale a ogni sorta di avventurieri di tipo fascista. In questo modo essi hanno dato alla monarchia il colpo di grazia. Si ricava infatti da tutto questo la conclusione che la collusione tra fascismo e monarchia del 1922, del 1924, del 1936, del 1939, del 1940 non è stata occasionale, ma è stata qualche cosa di orga­nico, di profondo.

   Se vogliamo liberarci completamente del fascismo dobbiamo liberarci della mo­narchia. L'alternativa: Italia monarchica o Italia repubblicana, si trasforma nel­l'altra: Italia repubblicana oppure Italia nella quale il fascismo in un modo o nel­l'altro sopravviverà o verrà fatto rinascere. Di fronte a questa alternativa, non vi è nessuno il quale possa esitare. Dichiarandoci repubblicani, noi sappiamo di rac­cogliere e continuare l'eredità della più nobile corrente del Risorgimento. Spetta oggi al movimento delle masse operaie e lavoratrici realizzare questa eredità, in unione con tutte le forze democratiche e antifasciste sincere. A coloro i quali ci chiedono, poi, e ce lo chiedono a scopo di chiarezza politica, quale repubblica vogliamo, rispondiamo senza esitazioni che vogliamo una repubblica democrati­ca dei lavoratori, vogliamo una repubblica organizzata sulla base di un sistema parlamentare rappresentativo, una repubblica cioè che rimanga nell'ambito del­la democrazia e in cui tutte le riforme di contenuto sociale siano realizzate col rispetto del metodo democratico.

   Credo che questa nostra dichiarazione possa servire a spezzare ancora un'arma nelle mani di quegli elementi reazionari i quali cercano di alimentare la confu­sione e l'imbarazzo facendo credere che instaurare nel paese un regime repubbli­cano voglia dire decidere il trionfo del disordine e del caos. No, oggi le cose sono proprio all'opposto. Disordini e caos potranno essere evitati tanto più rapidamente e meglio, quanto più rapidamente questa questione sarà risolta secondo la volon­tà delle forze popolari, mentre invece, qualora si impedisca alla volontà del po­polo di prevalere, veramente si potrà creare una situazione in cui il disordine e il caos diverrebbero qualche cosa di cronico.

   Se molto dipende dalla eliminazione rapida della monarchia, molto dipende pure da una giusta definizione dei rapporti tra lo Stato democratico e la Chiesa.

   Questi rapporti hanno nel nostro paese un rilievo particolare per tutte le con­dizioni del nostro sviluppo nazionale e dello sviluppo della Chiesa cattolica, e soprattutto perché ora si tratta di sradicare e distruggere per sempre il fascismo. E' vero che i capi della Chiesa cattolica hanno in determinati momenti preso posi­zione contro la tirannide fascista; sappiamo però che in altri momenti, che pur­troppo furono momenti di grande importanza per la vita e i destini del nostro paese, la loro posizione fu diretta a favorire il sorgere e l'avanzare del fascismo e la sua permanenza al potere.

   Naturalmente la Chiesa cattolica ha i suoi interessi di organizzazione universa­le e noi saremmo fuori posto se le chiedessimo di regolare la propria politica se­condo gli interessi del nostro paese e specialmente secondo quelli della democra­zia italiana. Quando ci trovano il loro tornaconto le gerarchie della Chiesa non guardano tanto per il sottile al carattere democratico del regime cui danno il loro appoggio. Poiché l'organizzazione della Chiesa continuerà ad avere il proprio centro nel nostro paese e poiché un conflitto con essa turberebbe la coscienza di molti cittadini, dobbiamo dunque regolare con attenzione la nostra posizione nei con­fronti della Chiesa cattolica e del problema religioso. La nostra posizione è anche a questo proposito conseguentemente democratica. Rivendichiamo e vogliamo che nella Costituzione italiana vengano sancite le libertà di coscienza, di fede, di culto, di propaganda religiosa e di organizzazione religiosa. Consideriamo queste libertà come libertà democratiche fondamentali, che devono essere restaurate e difese contro qualunque attentato da qualunque parte venga. Oltre a questo esi­stono però altre questioni che interessano la Chiesa e sono state regolate col patto del Laterano. Per noi la soluzione data alla questione romana è qualche cosa di definitivo, che ha chiuso e liquidato per sempre un problema. Al patto del Late­rano è però indissolubilmente legato il Concordato. Questo è per noi uno stru­mento di carattere internazionale oltre che nazionale, e comprendiamo benissi­mo che non potrebbe essere riveduto che per intesa bilaterale, salvo violazioni che portino l'una parte o l'altra a denunciarle. Questa nostra posizione è chiara e netta. Essa toglie ogni possibilità di equivoco e impedisce che fondandosi sopra un equivoco si possa avvelenare o intorbidire i rapporti fra le forze più avanzate della democrazia, che seguono il nostro partito e la Chiesa cattolica.

   Precisato questo punto, è però nostro dovere criticare e denunciare ogni inter­vento di autorità ecclesiastiche che esasperi e avveleni i termini della lotta politi­ca con una propaganda tipo «diavolo rosso» o cose di questo genere. Non siamo mai stati anticlericali nel senso deteriore di questa parola, ma non ammettiamo che la Chiesa possa diventare un'agenzia elettorale per una lotta politica tra par­titi democratici. Non ammettiamo che si esercitino illecite pressioni, arrivando fino all'intervento nella vita religiosa di membri del nostro partito, allo scopo di distrarli dalla professione delle idee politiche a cui essi sono legati. Non vo­gliamo che la lotta politica assuma il carattere di lotta di religione, e coloro i qua­li agiscono in modo che fatalmente dovrebbe portare a questo risultato, abbiamo il diritto e il dovere di denunciarli come elementi asserviti a interessi che non coincidono con quelli del popolo.

   Quando diciamo di volere un regime democratico repubblicano, sono molti coloro che credono poterci mettere in imbarazzo chiedendoci quale è la demo­crazia a cui aspiriamo e specialmente quali sono le riforme di natura economica che intendiamo realizzare. Vorrebbero far credere che determinate rivendicazio­ni economiche e sociali noi le vogliamo realizzare anche a costo della democra­zia. Il giuoco però è meschino. Noi infatti non solo affermiamo di volere una repubblica democratica di lavoratori, non solo rivendichiamo una Costituzione che garantisca libertà di parola, di stampa, di coscienza, di organizzazione eco­nomica e politica. Noi vogliamo pure che queste conquiste democratiche siano garantite seriamente, ed appunto per questo lottiamo per l'attuazione di alcune riforme economiche destinate a distruggere le radici della reazione e del fasci­smo. La nostra democrazia non può quindi essere una democrazia qualsivoglia, ma deve avere un contenuto di trasformazioni economiche molto precise.

   Ho già avuto occasione di spiegarlo altre volte, e particolarmente nelle cose dette alla nostra prima conferenza femminile. Prima di tutto non si deve dimen­ticare che il rivolgimento democratico che si sta compiendo nel nostro paese e che dovrà culminare, nella sua prima fase, nell'Assemblea Costituente, è un ri­volgimento democratico che si svolge in condizioni particolari, in un paese nel quale il fascismo non è stato ancora interamente distrutto. In secondo luogo non si deve dimenticare che in Italia le classi lavoratrici hanno conquistato un alto grado di coscienza politica e di organizzazione, e quindi avanzano rivendicazioni economiche sostanziali, esigendo che un particolare contenuto economico venga dato alla organizzazione democratica dello stato. Infine la nostra azione si svolge in un paese rovinato, dove si deve fare opera di solidarietà nazionale se si voglio­no alleviare sul serio le miserie del popolo, ma anche un'opera efficace di solida­rietà nazionale non si può fare se non si cambia qualcosa della struttura economi­ca del paese.

   Noi siamo dunque democratici in quanto siamo non soltanto antifascisti, ma so­cialisti e comunisti. Fra democrazia e socialismo non c'è contraddizione. Sappia­mo benissimo che rivoluzioni socialiste nel mondo ve ne saranno ancora, perché in quella direzione marcia l'umanità. Nessuno può far girare indietro la ruota della storia e qualora qualcuno, come han fatto i fascisti, lo tentasse, verrebbe travolto. Sappiamo pure a quale grado di maturità è ormai giunto in Europa il processo di trasformazione in senso socialista della struttura economica e sociale. Non solo da noi, ma in tutto il mondo è aperto il processo storico contro le classi dirigenti capitalistiche che hanno spinto il mondo alla guerra per la loro avidità e brama di dominio, e così ci hanno gettato tutti in un abisso di rovine e di mise­ria. Sempre più chiara si fa nei popoli la coscienza che soltanto ponendosi sulla via del socialismo, cioè della trasformazione dell'organizzazione della produzio­ne e degli scambi nel senso della solidarietà sociale e umana, si può sperare di ricostruire una civiltà e di preservare la pace. Noi siamo all'avanguardia di questa corrente ed è per questo che ci opponiamo fieramente a tutti coloro che vorreb­bero artificialmente elevare una barriera tra il nostro paese e gli altri paesi euro­pei, più avanzati sulla via delle realizzazioni sociali e particolarmente fra il no­stro paese e il grande paese il quale marcia vittorioso sulla via della costruzione socialista: l'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche.

   Quello che rappresenta l'Unione Sovietica per il nostro popolo e per tutti i po­poli non abbiamo bisogno di ripeterlo. Tutti gli uomini non accecati dall'odio e dall'egoismo di classe vedono nell'Unione Sovietica l'inizio di una nuova civil­tà, di una civiltà non più basata sull'egoismo di gruppi privilegiati, ma sulla col­laborazione di tutti coloro che contribuiscono alla produzione, sulla solidarietà e sull'aiuto reciproco di tutti coloro che fanno parte della società civile. La società sovietica è fondata non più sull'egoismo e sullo sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo. Essa è fondata, mi si permetta questa espressione, su quelle che furo­no un tempo le virtù evangeliche, sulle virtù dei poveri e dei lavoratori, che es­senzialmente consistono nell'aiutarsi gli uni con gli altri. Purtroppo le virtù evan­geliche non solo sono state dimenticate nel nostro mondo capitalistico, ma colo­ro stessi che avrebbero avuto come missione di diffonderle, si sono lasciati corro­dere dal verme dell'egoismo delle classi privilegiate di cui sono diventati il soste­gno. Né si dica che il progresso sociale che si realizza nella società sovietica è ottenuto a scapito dello sviluppo della persona umana, che anzi solo un dominio del­le forze economiche materiali quale si attua col socialismo consente alla persona umana di svilupparsi liberamente in tutti i campi. Poiché siamo coscienti di que­sto enorme progresso che si realizza nella società socialista, siamo contro, oltre che per le già esposte ragioni di politica nazionale, a ogni tendenza antisovietica nella nostra politica e nella nostra cultura. Le correnti antisovietiche del giorno d'oggi, da quelle idealistiche a quelle cattoliche, stanno adempiendo la stessa funzione che nella prima metà dell'Ottocento adempirono i gruppi conservatori e reazionari che si sforzarono in ogni modo di frenare in Italia la diffusione delle grandi idee liberatrici proclamate dalla Rivoluzione francese. Oggi come allora, vi è chi cerca in tutti i modi di elevare una barriera per impedire ogni ripercussio­ne nel popolo italiano di quel grande fenomeno rinnovatore che è stato la Rivo­luzione socialista. Nell'interesse del nostro paese, della nostra cultura e della no­stra civiltà, questa barriera deve essere abbattuta se non vogliamo continuare a essere una provincia arretrata dell'Europa e aspiriamo a metterci all'avanguardia del progresso economico e civile e del pensiero sociale rinnovatore. Noi vogliamo che anche l'Italia, come oggi fanno tutti i paesi civili, marci verso il socialismo.

   Se ricordate le conclusioni cui siamo arrivati nella indagine sulle radici del fa­scismo, vi appariranno chiare le linee generali delle trasformazioni economiche che noi proponiamo.

   Gli elementi nuovi, di carattere economico e sociale, che debbono essere intro­dotti nella nostra democrazia, devono tendere essenzialmente a dare al popolo maggior benessere e ad eliminare dalla direzione della vita economica quei grup­pi che già una volta, creando il fascismo, ci hanno portati alla rovina e ancora oggi frenano il nostro sviluppo economico e sociale. A questo scopo sono neces­sarie una riforma industriale e una riforma agraria delle quali io mi limiterò a indicare i criteri direttivi fondamentali.

   La domanda che ci si presenta spontanea quando si affrontano le questioni della nostra organizzazione economica e del futuro di maggiore o minore benessere che ci è riservato, è sempre la stessa: è vero o non è vero che l'Italia è un paese povero e quindi le è preclusa la via di un maggiore benessere dei lavoratori, e se è così, quali sono le cause di questa povertà e come possono venire eliminate? E perché l'Italia è un paese povero?

   A questa domanda diamo una risposta diversa da quella che dà la maggioran­za. Riconosciamo che è vero che l'Italia manca di certe materie prime e quindi di possibilità di organizzazione di industrie determinate; ma in una Europa e in un mondo organizzati secondo il principio della interdipendenza economica delle nazioni, anche questo elemento può diventare di importanza non essenzia­le per il livello di coscienza delle masse lavoratrici. La verità è che se siamo un paese povero, lo dobbiamo a tutta la nostra organizzazione, sociale ed economi­ca, tanto nell'industria quanto nelle campagne. Il lavoro è oggi da noi meno pro­duttivo che in altri paesi, e questo non soltanto in conseguenza della politica au­tarchica che era tutta basata sul principio di produrre ad alto costo pur di produr­re tutto quello che si produce altrove più a buon mercato, ma anche in conse­guenza di tutta l'azione svolta in precedenza dai gruppi reazionari dirigenti le classi industriali e agrarie italiane. La politica economica di questi gruppi ha avu­to come obiettivo fondamentale quello di consolidare i loro privilegi e accrescere ad ogni costo, a scapito della maggioranza produttrice e consumatrice, i loro profitti. Ciò è stato ottenuto con una politica doganale e con una politica salariale e sociale che hanno progressivamente ristretto il mercato interno e creato una si­tuazione in cui la produttività del lavoro e il livello di esistenza sono più bassi che negli altri paesi, mentre più alto è il costo di produzione. La nostra politica economica deve essere arrovesciata. Dobbiamo tendere a riorganizzare gradual­mente tutta la produzione nazionale sulla base di bassi costi di produzione, di una alta produttività di lavoro e di alti salari. Comprendo che una formula simile non contiene ancora un programma concreto: essa dà però una direttiva generale da applicarsi progressivamente con un lavoro di anni. Se riusciremo a riorganiz­zare la nostra produzione industriale e agricola secondo questo criterio, riuscire­mo veramente a rinnovare tutta la nostra vita economica.

   Un'industria dobbiamo averla. Vaneggiano coloro i quali pensano che l'Italia possa essere ridotta a un paese solamente agricolo, o a un paese nel quale vi sa­rebbero dei giardini e delle case di cura per i ricchi stranieri, e degli italiani che lustrerebbero loro le scarpe e vivrebbero di mance. La nostra industria è stata creata dai nostri operai, dai nostri ingegneri, dai nostri tecnici, dal nostro lavoro, e noi vogliamo e dobbiamo mantenerla e svilupparla. Non potremo essere né uniti né indipendenti se non avremo una sana e sviluppata industria. Naturalmente l'in­dustria dovrà essere riorganizzata non sulla base di un principio parassitario vec­chio stile, né sulla base del principio autarchico fascista. Alcune branche dovran­no essere ridotte o scomparire, altre, e soprattutto quelle che sono strettamente legate allo sviluppo agricolo e ai bisogni del mercato interno, dovranno ricevere nuovo impulso. Questo non si potrà fare senza un intervento dello stato, senza l'introduzione di elementi di organizzazione da parte dello stato democratico in tutta la nostra vita industriale. Lo stato dovrà quindi prendere nelle sue mani la grande industria monopolistica e rendere effettivo il suo controllo di tutto il sistema bancario.

   Nelle campagne, gli obblighi che ci poniamo sono la eliminazione della gran­de proprietà parassitaria, una limitazione della grande proprietà capitalistica, per agevolare il passaggio a forme di conduzione collettiva per cui in certe regioni, come nella pianura padana, i nostri lavoratori sono ormai particolarmente matu­ri, e infine una riforma radicale dei contratti agrari, per renderli più moderni e più giusti, più adatti alla nuova situazione del paese e alle aspirazioni delle mas­se. Elemento essenziale di questo programma è la difesa della piccola e media proprietà contro la rapacità dei grandi proprietari, delle banche, degli usurai e del fisco.

   Un simile programma industriale e agrario non si realizzerà certo con una leg­ge sola o con un paio di leggi. Esso richiederà una serie di misure legislative, con l'intervento sia dello stato che di organismi regionali, per la soluzione di singoli problemi nell'interesse del popolo e della collettività. Per questo vogliamo che sin da ora siano fatti intervenire rappresentanti operai e tecnici nella direzione della produzione industriale e agricola, perché soltanto attraverso una partecipa­zione democratica dei lavoratori a questa trasformazione economica possiamo ga­rantire che essa abbia luogo e si realizzi nell'interesse di tutti. Ed è qui che il nostro partito deve cominciare a svolgere, fondandosi sopra le sue forze, un'a­zione profonda di studio, di preparazione, di elaborazione di proposte e soluzio­ni concrete. Il Centro economico per la Ricostruzione ha già svolto un utile lavo­ro, chiamando alla collaborazione intellettuali e tecnici di ogni tendenza. Lo stesso lavoro deve farsi nel campo agricolo e voi dovete, da oggi sino alla convocazione della Costituente, mettervi alla testa di tutta una serie di iniziative, tanto nelle campagne quanto nelle città, in collaborazione con altre forze democratiche e soprattutto con gli elementi tecnici capaci di aiutarci nella elaborazione di pro­poste concrete di riorganizzazione economica secondo i principi sopra indicati. Filippo Turati nel 1919, in un suo famoso discorso, aveva avanzato parecchie pro­poste di questo genere, in modo frammentario e inorganico, però, come tutto ciò che facevano i riformisti. Noi dobbiamo estendere questo lavoro sistematica­mente, regione per regione, provincia per provincia, facendo arrivare all'Assem­blea Costituente, in forma di proposte concrete, quaderni di rivendicazioni ela­borati dal popolo intiero.

   Che carattere hanno, per concludere, le riforme che noi proponiamo? Hanno esse carattere di classe? Senza dubbio, nel senso che tendono a elevare il benesse­re e il tenore di vita delle classi lavoratrici, ma sono nazionali in quanto, sia ele­vando il benessere delle masse lavoratrici, sia tagliando ogni radice del fascismo, consentono un inizio di rinnovamento economico della nazione. A questo rinno­vamento economico deve accompagnarsi il rinnovamento politico e morale di tutta la società italiana in un nuovo spirito di solidarietà. All'opera di rinnovamento del paese abbiamo bisogno che collaborino con particolare ampiezza le donne. Senza l'emancipazione completa della donna, senza il contributo delle sue fre­sche energie, del suo entusiasmo, della sua sincerità, del suo ardore combattivo, non potremo fondare un regime democratico stabile e veramente nuovo, avanza­to, progressivo. Chiediamo alla donna di svolgere il ruolo necessario per la difesa della famiglia e per il suo risanamento dai mali che vi ha portato il fascismo. Sia­mo contrari come partito a ogni misura che possa indebolire questo elemento di organizzazione della società che è la famiglia e che tanta importanza assume nel­l'attuale stato di decomposizione e corruzione. All'opera di rinnovamento del paese abbiamo bisogno che collabori in modo particolare la gioventù, la quale non può non volere che il suo paese sia moderno, progredito, si ponga all'avan­guardia della civiltà. Vengano con noi e ci diano aiuto quei giovani che, ingan­nati, seguirono il fascismo credendo che il fascismo portasse a fare l'Italia più grande e oggi si accorgono di essere stati traditi. Collaborino con noi, ci diano aiuto; ritroveranno la fiducia in se stessi e nell'avvenire. All'opera di rinnova­mento del paese deve collaborare la scuola liberata da ogni servilismo e scoria fascista, tornata ad essere palestra di coscienza e di spiriti liberi.

   L'Italia era classificata nel passato tra le grandi potenze. I gruppi capitalistici che la dirigevano, spinti dalla stessa avidità che li animava nello sfruttamento dei lavoratori italiani, si proposero di accrescere la loro ricchezza e il loro potere con guerre coloniali e ingiuste guerre di aggressione e di conquista. Essi vollero far credere al popolo, e soprattutto alla gioventù che le nostre questioni econo­miche e soprattutto quella fondamentale di elevare il nostro tenore di esistenza, si potessero risolvere attraverso a queste criminali avventure di guerra e con la formazione di un impero. Era un vaneggiamento da squilibrati, anche se per in­tieri decenni gruppi intieri di scrittori furono mobilitati e pagati per far credere che questa fosse la strada giusta. In realtà per il popolo italiano proporci di risol­vere con la guerra e con le conquiste i problemi della sua esistenza non poteva significare altro che andare in rovina. Gli imperi che oggi esistono sono sorti in altre epoche, quando, e non per colpa del popolo italiano, l'Italia non era rappresentata nella gara e non poteva prendervi parte. Questi stessi imperi, del re­sto, sono arrivati oggi al punto critico della loro esistenza. In ben altro modo, dunque, si pone la questione delle sorti del nostro paese. Non so se torneremo e quando torneremo a essere considerati una grande potenza; sono però convinto che abbiamo la possibilità di tornare rapidamente a essere una grande nazione, un popolo grande per le sue capacità di lavoro e produttive, tanto materiali quanto intellettuali. Solo attraverso il trionfo delle forze del lavoro potremo ridare all'I­talia un posto degno di quello che ebbe nei secoli passati. A questa opera noi chiamiamo a collaborare tutti i buoni italiani: per raggiungere questo obiettivo vogliamo si ricostruisca una unità della nazione italiana attorno alle forze del la­voro. Per questo chiamiamo a collaborare con il nostro operaio, con questo ope­raio di così alta qualifica acquisita attraverso la esperienza di un artigianato seco­lare qualificato, con il nostro contadino assetato di terra e di libertà, le schiere dei tecnici, degli ingegneri, degli intellettuali e anche di quegli elementi delle classi possidenti i quali comprendono che possesso di beni non può e non deve più significare privilegio esercitato contro gli interessi del popolo nell'interesse esclusivo di una casta.

   Alla unità della nazione noi abbiamo lavorato sino ad ora e vogliamo conti­nuare a lavorare fino alla Costituente, durante la Costituente e dopo di essa. Tut­ta la nostra politica tende alla collaborazione stretta con tutte le forze democrati­che. Comprendiamo che oggi la funzione dei Comitati di liberazione sia ridotta dalla situazione stessa. Essi debbono però continuare a esistere e siamo disposti a discutere con tutti i partiti la possibilità di dar loro una iniziativa particolare nel campo della ricostruzione economica. Con tutti i partiti del CLN vogliamo mantenere legami di fraterna collaborazione nella lotta contro il fascismo e per la democrazia. Sia però ben chiaro che questi legami non possono significare ca­pitolazione circa i punti e obiettivi fondamentali della nostra azione politica.

   In modo particolare ci interessano per la definizione di una tattica nei loro con­fronti, tre partiti o gruppi di partiti: il Partito socialista, il Partito democratico cristiano, e i partiti veramente democratici che non sono né socialisti né demo­cratici cristiani. Col Partito socialista abbiamo un patto d'unità d'azione stretto nel 1934, rinnovato in seguito adattandolo alle nuove necessità della lotta. Que­sto patto ha già dato tali frutti benefici alla classe operaia e al popolo italiano che sarebbe criminoso pensare di metterlo in forse, di discuterlo, di limitarne la portata. E' evidente per noi che il patto deve essere sviluppato nel senso di arriva­re alla formazione di un partito unico dei lavoratori. Discuteremo in questo Con­gresso i modi di una possibile realizzazione concreta di questa nuova unità. Non abbiamo però nessuna intenzione di creare difficoltà o di suscitare pericolose di­scussioni in seno al partito socialista. Consideriamo il Partito socialista come un partito fratello; consideriamo la sua unità e la sua compattezza come un baluar­do della democrazia italiana. Discutendo della creazione di un partito unico del­la classe operaia, faremo quindi tutto il possibile perché questa nostra discussio­ne non possa da nessuno essere intesa come un tentativo di manovrare all'interno del Partito socialista con scopi di disgregazione.

   Per quanto riguarda la Democrazia cristiana, abbiamo condotto nei confronti di essa una politica determinata in modo coerente, offrendole di collaborare sul terreno politico come sul terreno sindacale. Vogliamo continuare questa politica. Non è però facile. L'amico De Gasperi, in una polemica condotta con me, parlando dei rapporti fra il nostro partito e il Partito socialista, mi poneva la doman­da se noi e il Partito socialista fossimo uno in due o due in uno. La risposta era facile a darsi. Mi pare sia più difficile rispondere alla domanda se sia uno o due il partito della Democrazia cristiana. Parlavo l'altro giorno con un dirigente poli­tico di rilievo, ed egli mi diceva che il male del partito democratico cristiano sta nell'essere come un pipistrello, per cui non si sa bene se sia uccello o topo. Da un lato leggiamo risoluzioni di organi dirigenti dove troviamo concetti e propo­ste che vanno nella stessa direzione in cui andiamo noi, il Partito socialista e altre forze democratiche. Sappiamo che queste proposte corrispondono alla volontà democratica di rinnovamento che prevale in una gran parte degli iscritti alla De­mocrazia cristiana. D'altra parte però è chiaro, e a questa conclusione siamo giunti anche per l'esperienza di governo, che è difficile coi capi democratici cristiani stringere un accordo concreto per il raggiungimento di questi obiettivi comuni. Ancora più difficile è ottenere da questo partito che dia prova di un vero slancio nella lotta contro il fascismo e per la democrazia. Quando è necessario schierarsi contro i residui fascisti e far opera di rinnovamento, esso si trova sempre dalla parte sbagliata, in contrasto con le sue stesse decisioni. E' necessario che soprat­tutto alla vigilia delle lotte elettorali la Democrazia cristiana precisi la propria posizione, chiarisca la propria politica, non di fronte a noi, ma di fronte a tutto il paese, affinché sia chiaro se esiste la possibilità non soltanto di accordi firmati sulla carta ma che non danno luogo a un'azione conseguente e sistematica di rea­lizzazione e di collaborazione, ma di impostare un lungo lavoro comune per la costituzione di un vero e solido regime di libertà e di progresso.

   Quanto alle forze sinceramente democratiche che non appartengono né al Par­tito socialista né alla Democrazia cristiana e cioè il Partito d'azione, la Democra­zia del lavoro, e la sinistra del Partito liberale, comprendente quei liberali che non rinnegano l'elaborazione di pensiero fatta da loro stessi nel periodo clande­stino, credo che la richiesta che deve essere loro fatta è di avanzarsi con più auda­cia sul terreno della lotta politica. Vi è posto per questi partiti in Italia, e non nel senso che essi si adoprino per togliere la classe operaia a quelli che sono i suoi partiti tradizionali, ma nel senso che si uniscano per formare un grande blocco di forze democratiche appartenenti a tutti i gruppi sociali e con le quali la classe operaia possa per un lungo periodo di tempo collaborare.

   Del tutto superato e inadeguato alla situazione appare invece il vecchio perso­nale politico dirigente dello stato italiano, incapaci di comprendere la nuova si­tuazione i vecchi uomini politici, superstiti dei vecchi gruppi precedenti il fasci­smo. In tutto questo periodo, se si eccettuano le vivaci polemiche napoletane di Benedetto Croce contro la monarchia, non v'è uno di questi vecchi che sia stato capace di farsi avanti e pronunciare parole rinnovatrici, quelle parole che il popo­lo aspetta oggi dai suoi dirigenti. Ho riletto in questi giorni il discorso pronun­ciato da Giolitti nel 1919 a Dronero, prima delle elezioni alla Camera dei depu­tati, e ho constatato con sorpresa che non vi è nessuno dei vecchi uomini politici italiani che oggi sopravvivono, il quale abbia saputo parlare in modo così avanza­to come parlò Giolitti in quella occasione. Questa è veramente la prova del falli­mento delle vecchie classi dirigenti, ma è pure la prova che vi è posto per forze nuove le quali comprendono la necessità di collaborare con noi alla costruzione di una nuova democrazia.

   Si avvicinano le elezioni. Il popolo dovrà votare. E' evidente che il popolo esprimerà col voto l'esigenza che l'Italia sia profondamente rinnovata. Nel passato questa volontà di rinnovamento si è ripetutamente manifestata. Già le elezioni del 1914 furono intese dal popolo come elezioni da cui dovesse uscire qualcosa di nuovo. Così nel 1919 l'elezione della Camera dei Deputati del dopoguerra fu compresa in sostanza come elezione per un'Assemblea Costituente, come Giolitti stesso fa­ceva intendere. Una volta e l'altra la volontà popolare di rinnovamento fu tradi­ta. Una volta e l'altra, in conseguenza di quel tradimento, il paese venne gettato nel disordine, nella confusione. Questa volta ciò non deve più accadere. Per que­sto è compito del corpo elettorale, cioè del popolo italiano, mandare all'Assem­blea Costituente uomini che diano assicurazione al popolo stesso che condurran­no a fondo l'azione per il rinnovamento economico, politico, sociale del paese. Noi chiederemo al popolo di votare per noi, per il Partito comunista, presentan­do il bilancio di tutto quello che abbiamo fatto per la salvezza del paese, per la sua liberazione, per la sua indipendenza, per la vittoria della democrazia, di­cendo chiaramente quale è il nostro programma per il futuro. Ma anche a quelli che non vorranno votare per i comunisti, noi consigliamo fin d'ora di votare per qualcuno che dia loro la garanzia di svolgere opera vera e seria di rinnovamento. Qualunque sia il partito per cui a seconda delle loro convinzioni vogliono votare, chiederemo agli elettori nell'interesse di tutta la nazione, di impegnare almeno su tre punti essenziali quei candidati a cui daranno il voto:


1) per la repubblica e contro la monarchia;

2) rottura radicale e di fatto con tutte le forze reazionarie da cui è sorto il fasci­smo, e volontà decisa di distruggere a fondo ogni residuo di fascismo e di impe­dire che il fascismo rinasca;

3) atteggiamento unitario nei confronti delle altre forze democratiche.


Se nell'Assemblea Costituente ci sarà una maggioranza di uomini i quali siano impegnati al rispetto di questi tre punti, la Costituente potrà iniziare bene la sua opera di rinnovamento e condurla avanti con una certa sicurezza di risultati. Invitiamo quindi il corpo elettorale a chiedere a tutti queste garanzie precise e negare il voto a chi non le dia.

   Elemento decisivo nel gruppo di forze politiche che vogliono un rinnovamen­to radicale del paese è senza dubbio il nostro partito, con i suoi iscritti, il suo slancio, la sua tradizione, la sua chiara linea politica. Gli iscritti al nostro partito superano oggi di gran lunga le previsioni che potevamo fare alcuni mesi or sono, al tempo della liberazione del Nord. Alla fine di ottobre, e nella prima metà di novembre essi erano un milione, 718 mila e 836. In queste ultime settimane, sulla base di dati non ancora interamente controllati, abbiamo superato la cifra di 1.760.000. Questi risultati li registriamo nonostante che non tutte le nostre organizzazioni siano ancora riuscite a organizzare una sezione di partito, in ogni villaggio o frazione di villaggio. Poniamo quindi, come primo ed elementare obiet­tivo generale di organizzazione quello di arrivare a creare prima della Costituen­te in ogni villaggio o frazione di villaggio una sezione di Partito comunista, certi che in questo modo arriveremo alle elezioni con una cifra di iscritti di circa 2 mi­lioni. L'aumento degli iscritti è stato particolarmente rapido negli ultimi mesi. Così in Sicilia siamo passati dal giugno all'ottobre da 80.000 a 138.000; nella Toscana da 147.000 a 239-000; in Calabria da 33.000 a 46 mila. Questo aumen­to impetuoso del numero degli iscritti è una prima grande prova di fiducia data dal popolo, in modo democratico, a quel partito che ha saputo conseguentemen­te combattere per la difesa dei suoi interessi.

   Con questo aumento del numero degli iscritti molte questioni nuove, sia poli­tiche che di organizzazione, si sono poste. Il partito ha assunto caratteri partico­lari, ben differenti da quelli che aveva quando era un piccolo gruppo di propa­gandisti dell'idea. Oggi siamo un grande partito politico il quale deve essenzial­mente porre come base della propria unità il suo programma politico e la sua disciplina. È un fatto che su 1 milione e 800 mila iscritti vi è senza dubbio una maggioranza di credenti. Questo fatto ha determinate conseguenze, poiché si­gnifica che nel partito già si realizza una unità politica strettissima di operai, di lavoratori, di intellettuali, di tecnici, sulla base di un preciso programma di rin­novamento politico e sociale, indipendentemente dalla convinzione religiosa e filosofica. Proporremmo al Congresso che questa situazione di fatto venga sanci­ta nello Statuto del partito, dove si deve dire chiaramente che possono entrare nel partito i cittadini italiani di ambo i sessi che abbiamo raggiunto una determi­nata età, indipendentemente dalla razza, dalla convinzione religiosa e dalle con­vinzioni filosofiche. Questo non significa in nessun modo che vogliamo liquida­re il nostro partito, le sue tradizioni gloriose e i principi che gli dettano la sua politica. Significa soltanto che, di fronte all'ampiezza e difficoltà dei compiti che dobbiamo assolvere, sentiamo che potremo adempiere la nostra funzione storica di dirigenti di tutto il popolo italiano sulla via di una democrazia antifascista e progressiva soltanto se apriamo in questo modo le file del partito, così da poter avere in esse tutti gli elementi che sono necessari per realizzare i contatti con tutti gli strati delle masse lavoratrici e adempiere verso di essi una funzione di direzio­ne. Siamo un partito che lotta per la democrazia e per il socialismo, ma siamo in pari tempo un partito nuovo, che si è rinnovato nella lotta, che ha conquistato più chiara coscienza della sua funzione nazionale, che sa che è posto alla nazione italiana un compito di rinnovamento di tale ampiezza che non potrebbe essere risolto se lo stesso Partito comunista non riuscisse ad adempiere una funzione di guida in tutti i campi della vita politica e sociale. La base dell'unità del nostro partito è prima di tutto la nostra linea politica, che deriviamo dai principi del socialismo scientifico marxista, principi che sono stati ormai confermati dalla espe­rienza di alcune generazioni. Per la realizzazione di questa linea politica impe­gnamo a combattere tutti i nostri iscritti, dando tutti il contributo che possono dare alla elaborazione della nostra esperienza e al miglioramento della nostra azione. Dobbiamo avere una forte disciplina, ma questa disciplina non può avere e non deve avere nulla di simile a una disciplina di caserma, di corpi morti. Deve essere una disciplina pratica, concreta, la quale si stabilisce nel lavoro e nella lotta, do­po la discussione alla quale è riservata attraverso la critica reciproca e il confronto delle opinioni diverse, la determinazione della linea del partito e il controllo del­la sua applicazione.

   Per il modo stesso come la nostra vita interna è organizzata siamo un partito democratico, in cui debbono prevalere nelle nostre file i principi della democra­zia, cioè la eleggibilità delle cariche, la responsabilità dei dirigenti di fronte agli iscritti e il controllo dell'azione dei dirigenti da parte degli iscritti. Non per nien­te, siamo il primo partito il quale, in vista delle elezioni per la Costituente, ha convocato il suo Congresso nazionale e lo ha fatto precedere da una serie di Con­gressi provinciali, svoltisi regolarmente in tutte le provincie d'Italia. A questi congressi hanno anche partecipato e collaborato migliaia e decine di migliaia di la­voratori. Alcuni di essi si sono svolti pubblicamente, cosicché il popolo ha potuto seguirne le discussioni in tutta la loro ampiezza. Tutti si sono svolti con la pre­senza dal principio alla fine, dove lo hanno voluto, dei rappresentanti di tutti gli altri partiti della coalizione democratica. Prima dei Congressi provinciali ave­vano inoltre avuto luogo in ogni località i Congressi di sezione e le riunioni pre­congressuali di cellula, il che vuol dire che tutta la massa di più di un milione e mezzo di iscritti ha discusso ed elaborato una linea politica che è quella che deve uscire da questa nostra assemblea. In questo modo centinaia di migliaia di lavoratori sono stati interessati a un'attività democratica di avanguardia. Com­piendo questo lavoro abbiamo dato una nuova prova a tutta l'Italia del carattere democratico del nostro Partito, della funzione democratica che adempiamo in seno alla nazione.

   E difficile far funzionare bene un partito di quest'ampiezza. I nostri vecchi quadri dirigenti, abituati al lavoro di piccoli gruppi, molte volte si trovano disar­mati di fronte alla complessità dei problemi nuovi che si pongono, del resto non solo a noi ma a tutti quei partiti italiani che hanno preso questo slancio nel loro sviluppo. Per superare le difficoltà, De Gasperi disse una volta ai suoi che il par­tito doveva prendere il carattere di una organizzazione industriale. Guardiamoci dal seguire questo consiglio. Il carattere delle nostre organizzazioni e del loro la­voro deve essere popolare. Esse devono cioè stabilire col popolo un contatto così largo che consenta l'utilizzazione di tutti i nostri iscritti per svolgere un determi­nato lavoro nella direzione fissata dal Congresso, dal Comitato Centrale, dagli organi dirigenti del partito e dagli organi dirigenti di ogni sua organizzazione.

   Questo è oggi il nostro partito, a cui tutti guardiamo, all'inizio di questo Con­gresso nazionale, con orgoglio e fierezza. Permettetemi però di dire che quando una forza politica si sviluppa nel modo come si è sviluppato il Partito comunista italiano in questi ultimi anni, anche l'orgoglio e la fierezza personale passano in secondo piano. Un partito che si sviluppa in questo modo, può raggiungere questo risultato soltanto perché rappresenta qualche cosa di vitale, di profondo, di storicamente necessario nella vita della nazione. Ognuno di noi sente che que­sto è vero. Noi abbiamo ereditato e portiamo avanti le migliori tradizioni del popolo italiano, dalle più lontane alle più vicine, le tradizioni migliori del Risor­gimento, quelle del movimento operaio socialista di cui ci sentiamo, per questa parte, i continuatori. Abbiamo resistito a tali prove, abbiamo combattuto e vinto tali battaglie, che tutti sentono che spetterà a noi dare una giusta soluzione alle più difficili questioni della vita delle masse lavoratrici e della nostra vita naziona­le. In questa confluenza delle tradizioni passate e delle speranze d'avvenire sta la nostra forza.

   Per questo il nostro partito ha così profonde radici nelle masse, per questo l'o­pera personale di ciascuno di noi, tutto quello che noi come singoli o nelle nostre organizzazioni abbiamo fatto per creare, organizzare, dirigere, animare, guidare nella battaglia il nostro partito, acquista un valore che supera le nostre persone. Dobbiamo far sapere al popolo italiano che esiste questo strumento nuovo di lot­ta, il Partito comunista, che è al suo servizio, che è al servizio della causa dell'u­nità, dell'indipendenza, del rinnovamento d'Italia.

   Vi ho dato, compagni, alcune linee fondamentali di un programma politico per la Costituente. Mi rincresce di aver dovuto essere lungo e di aver dovuto ciò nonostante trascurare alcuni aspetti, anche non privi di importanza. Vi invito a discutere, liberamente, a portare qui la vostra esperienza, a confrontarla con quella di altri compagni e di altre organizzazioni; vi invito a fare le vostre obiezioni, a dare tutto il vostro contributo per la migliore elaborazione del nostro program­ma politico, per trovare i migliori mezzi della sua attuazione. Questo è il compi­to che sta davanti al nostro Congresso. Se sapremo adempiere a questo compito, se usciremo di qui avendo dato al popolo italiano un programma attorno al quale si possa realizzare l'unità delle forze più avanzate della democrazia, sulla base del quale si possa lottare nel modo più efficace per l'unità e la rinascita della nazione, avremo ancora una volta servito con onore la nostra causa.

   Sono convinto che la forza per adempiere questo lavoro l'abbiamo, che dopo il Congresso il Partito comunista italiano avrà la forza necessaria ad affrontare le nuove battaglie che lo attendono e che in queste battaglie riporterà nuove e decisive vittorie, per il popolo e per l'Italia, per la democrazia e per il socialismo.


Note


[1] Ivanoe Bonomi (1873-1952), socialista e giornalista, fu con L. Bissolati all'«Avanti» e con F. Turati alla c Critica Sociale». Con i suoi scritti accentuò un socialismo riformista. Consigliere comunale a Roma nell'ammi­nistrazione Nathan, deputato dal 1890, fu con Bissolati espulso dal psi nel 1912 e diede vita alla nuova forma­zione socialista riformista. Fu ministro dei lavori pubblici nel 1916-17 e poi nel 1919- Ministro della guerra con Nini nel 1920 e con Giolitti nel 1920-21 e del tesoro nel 1921. Fu presidente del Consiglio nel 1921-22. All'op­posizione dopo la costituzione del governo fascista, non fu rieletto nel 1924 deputato e visse in ritiro. Dopo il 25 luglio 1943 fu capo del comitato nazionale delle correnti antifasciste e dopo l'8 settembre del Comitato cen­trale di liberazione nazionale. Dopo la liberazione di Roma fu nominato capo del governo il 9 giugno 1944. Dimessosi il 26 novembre del 1944 costituì un nuovo governo che durò dal 12 dicembre 1944 al 12 giugno 1945. Deputato della Costituente per l'Unione democratica nazionale, è stato dal 1948 alla morte presidente del Senato.

[2] Ferruccio Parri (1890-1981), attivo antifascista, varie volte arrestato e condannato, fu tra i fondatori del Partito d'azione e dopo l'8 settembre del 1943 fu tra gli organizzatori della lotta partigiana. Dal 19 giugno al 22 novembre del 1945 fu presidente del Consiglio. Uscito dal Partito d'azione nel 1946 fu tra i fondatori del nuovo Partito della democrazia repubblicana, confluito poi nel pri per il quale Parri fu senatore di diritto nella prima legislatura repubblicana. Lasciato il pri aderì al gruppo di Unità Popolare, rimanendo poi in una posizio­ne indipendente in seguito alla confluenza del gruppo nel psi.

[3] Alexandr Michajlovic Gorčakov (1798-1883), principe, uomo di stato e diplomatico russo, entrò giovanis­simo nel servizio diplomatico. Nel 1854 fu ambasciatore a Vienna dove si adoperò perché l'Austria rimanesse neutrale nella guerra di Crimea. Dopo la pace di Parigi nel 1856 successe a Nesselrode come ministro degli Esteri. Dopo la guerra russo-turca del 1877, il Congresso di Berlino del 1878 segnò la fine della sua carriera politica.