Pietro Secchia

Relazione sulla situazione italiana
presentata a Mosca (dicembre 1947)

Da Archivio Pietro Secchia 1945-1973, a cura di Enzo Collotti, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Milano 1979 pp. 609-627. La nota introduttiva è di Collotti.



Nota introduttiva

  Si tratta di uno dei documenti fondamentali per comprendere il giudizio che Secchia diede della situazione italiana nel dopoguerra e i termini della sua collocazione politica. Le circostanze esterne nelle quali fu redatto il documento sono state esposte da Secchia stesso nella parte I del presente volume, Promemoria (p. 211) [1], alla data del 13-20 dicembre 1947. Per maggiore orientamento del lettore è opportuno aggiungere che l'ana­lisi compiuta da Secchia non faceva seguito soltanto all'esclusione dal governo delle sinistre, ma anche alle critiche che nel settembre del 1947 il Cominform aveva rivolto alla condotta del PCI. Ciò premesso il documento di Secchia presenta molteplici motivi di interesse, come già si è visto dalla nostra Introduzione. Senza riprendere una analisi più dettagliata quale è quella che abbiamo già compiuto, è tuttavia necessario ricapitolare alcuni punti essenziali senza i quali la intelligenza del documento sarebbe certa­mente lacunosa e parziale.

   Nel documento si incrociano le preoccupazioni di chiarire e di giustifi­care nei confronti dei sovietici gli sviluppi della situazione italiana, sia nei termini oggettivi dei rapporti di forza e della ripresa delle forze rea­zionarie, con l'individuazione nell'ottobre del 1945, nella crisi cioè del go­verno Parri, del momento di inversione della tendenza uscita vittoriosa dalla resistenza; sia sotto il profilo soggettivo delle debolezze e degli errori commessi dalle sinistre, dal PCI e dal movimento democratico nel suo com­plesso, e una serie di interrogativi posti ai sovietici, che hanno lo scopo di offrire elementi per l'elaborazione della strategia del PCI. L'analisi della battuta d'arresto delle forze popolari in Italia è chiara e senza riserve: il riconoscimento della propria debolezza di fronte al "sabotaggio concreto di ogni opera di ricostruzione economica da parte dei capitalisti" è uno dei motivi conduttori del discorso; esplicita anche la consapevolezza, appena attenuata dal forse che "forse in taluni casi ci siamo lasciati dominare troppo da queste minacce e dal pericolo della rottura, della guerra", ossia dalle minacce di guerra civile della DC e del fronte padronale. Il limite dell'azione delle sinistre è sintetizzato concisamente in questo risultato ne­gativo: "Sinora non siamo riusciti a consolidare queste posizioni e non sia­mo riusciti a realizzare nessuna modificazione di struttura della società capitalista italiana". I limiti così anticipati venivano resi ancora più espli­citi, per così dire a contrario, non appena il discorso affrontava il tasto delle prospettive: non si trattava di modificare l'obiettivo delle lotte - la democrazia progressiva e le riforme di struttura - ma piuttosto del me­todo della lotta ("Possiamo fidare soltanto... sulle progressive vittorie elet­torali?"): "Il pericolo dal quale dobbiamo guardarci è quello di cedere oggi una posizione, domani un'altra e trovarci poi nella condizione di non potere più avere l'iniziativa". Poiché la lotta sarebbe diventata sempre più difficile per l'accrescersi delle resistenze e delle pressioni e delle repressioni conservatrici, bisognava rovesciare la posizione difensiva sulla quale era per il momento attestato il movimento popolare: "Noi dobbiamo orientarci verso lotte più ampie, più dure, più decise", nella convinzione che vi fosse ancora la possibilità di riprendere l'offensiva, l'unica via del resto per op­porsi con successo alla tattica del carciofo adottata dalla DC per scalzare la classe operaia una dopo l'altra dalle posizioni raggiunte con la lotta di liberazione, non senza questo conclusivo riconoscimento: "Noi abbiamo ce­duto molto in passato, abbiamo ceduto troppo senza lotta; la situazione era difficile, forse era inevitabile cedere, ma il pericolo sta nel fatto che abbiamo già ceduto troppo senza combattere e questo crea scoraggiamento da una parte e baldanza del nemico dall'altra".

   Ma al lettore va richiamato anche un elemento che a tutta prima non appare esplicito e che tuttavia è fondamentale per intendere la divari­cazione che già allora si stava operando tra il modo di concepire la linea politica da parte di Secchia da un lato e da parte di Togliatti dall'altro. Scrive Secchia: "Si afferma anche che 'l'elemento favorevole a noi è so­prattutto il fatto che siamo usciti dal governo senza dare la parola d'ordi­ne dell'insurrezione, il che ha accresciuto il prestigio del nostro partito in determinati strati sociali'. Ma riteniamo non esatto questo giudizio" e con una espressione tipica del suo modo di ragionare conclude: "Dal non fare nulla al fare l'insurrezione ci corre". Solo che Secchia non sottolineava che l'impersonale "si afferma anche ecc." era riferito a Togliatti. Era stato per l'appunto Togliatti, nel Comitato centrale del luglio del 1947, in un rapporto estremamente problematico e che a nostro avviso rappresenta uno dei testi più importanti e più interessanti della elaborazione di To­gliatti di quel periodo, a proferire il giudizio che Secchia riteneva "non esatto" (cfr. la citazione che Secchia ne fa nel Promemoria, p. 205): un passo che lascia trasparire una divergenza non marginale, accanto ad altri fattori, ad esempio la valutazione sulla DC che Togliatti non avreb­be mai dato in termini così poco sfumati (Secchia: "partito comples­so... diretto dal Vaticano e dalle forze capitalistiche"... "non offre alcuna ga­ranzia di condurre una politica democratica"... "la DC rappresenta il peri­colo principale"). Severo anche il giudizio sul PCI ("una grande massa di iscritti inattivi, che non fanno niente") che va rapportato anch'esso al tipo di mobilitazione di massa che era per Secchia non soltanto un metodo di lotta ma il modo di avanzamento stesso del processo di democrazia nel nostro paese. Accennavamo ad un secondo elemento che emerge nel documento di Sec­chia: il tentativo di sondare le intenzioni o quanto meno le previsioni che i dirigenti sovietici nutrivano sull'evolvere della situazione internazionale, co­me fattore condizionante anche dello sviluppo della situazione italiana. Al­meno in due passi Secchia pose indirettamente il problema: si andava o no verso la prospettiva di una terza guerra mondiale? "Soltanto chi è in possesso di tutti gli elementi della situazione internazionale può dare una risposta sicura a tale domanda", osservava Secchia, con una chiara solle­citazione ai suoi interlocutori. E ancora più avanti: "La situazione nella quale ci muoviamo in Italia è determinata da due elementi fondamentali: la lotta acutissima di classe... e la lotta internazionale... Noi non abbiamo tutti i dati per prevedere se questa lotta internazionale si accentuerà nel prossimo avvenire ancora di più o se verrà attenuandosi attraverso accordi, sia pure temporanei, che diano luogo a spostamenti di posizione". Rispo­sero i sovietici a queste sollecitazioni? Dal breve resoconto che Secchia fa dell'incontro di Mosca nel Promemoria non si possono trarre conclusioni sicure. C'è una sola osservazione che richiama la nostra attenzione: "Giu­seppe (ossia Stalin) mi disse: voi la vostra situazione certo la conoscete meglio di me e siete voi che avete gli elementi per giudicare. Non espresse un'opinione, meglio, su un solo punto si espresse, naturalmente sempre con riserva". Di che cosa si trattava? A conferma dell'importanza che egli stes­so annetteva a questo documento, Secchia vi ritorna con insistenza e in particolare nel Quaderno n. 4 ne offre quasi una parafrasi (pp. 422-426) [2]. Ma il fatto più importante è che in questa stessa sede egli fornisce anche l'essenziale della risposta dei dirigenti sovietici, laddove scrive (p. 426):

   "Quando feci questa esposizione, prima a Andrei, che mi chiese di met­terla per iscritto, poi messa per iscritto fui convocato e mi trovai con Giuseppe, Viance, Gregorio, Andria, Laur., si discusse. Obiezioni: oggi non è possibile.

   Ma non si tratta di questo, non si tratta di porre il problema dell'insur­rezione, ma di condurre lotte economiche e politiche più decise, con mag­giore ampiezza. Ma, mi si disse, nella sostanza ciò che dici porterebbe ine­vitabilmente a quello sbocco. Oggi non si può. Dovete però rafforzarvi, prepararvi bene, ecc.".

   Si tratta di una risposta importante. Essa sembrerebbe denotare infatti che i dirigenti sovietici condividevano nella sostanza la linea difensiva por­tata avanti da Togliatti e non erano disposti a dare la loro copertura non a una linea insurrezionale, che certo non era quella che perseguiva Secchia, ma semplicemente a una linea di maggiore mobilitazione offensiva nel pae­se, proprio perché non credevano che si potessero allargare le conquiste popolari per mezzo delle lotte. Oscillavano perciò tra una tattica mera­mente difensiva, che d'altronde essi stessi avevano criticato, e lo sbocco imprevedibile e dichiaratamente impossibile di una insurrezione.


Note


[1] [qui].
[2] [qui].




La relazione

Mosca, 14 dicembre 1947

Situazione economica

Sono stati fatti in Italia notevoli passi in avanti nella ricostruzione dell'indu­stria, nella riorganizzazione dell'agricoltura, del commercio e degli scambi inter­nazionali.

   Nel settore della produzione di energia, da 17 miliardi di kWh di energia elet­trica prodotta nel 1941 si era scesi, in seguito alle distruzioni causate dalla guerra, a 11 miliardi di kWh nel 1945. Nel 1946 si era già risaliti a 15 miliardi e sulla base dei dati del primo semestre del 1947 si può ritenere che quest'anno ci si avvicinerà nuovamente alla cifra del 1941. In questo settore esiste un piano di sviluppo note­vole. Di fronte a una produttività degli impianti esistenti per circa 20 miliardi di kWh il progetto di nuovi impianti prevede una nuova produttività di 18 miliardi di kWh all'anno. Si tratta quasi del raddoppio della produzione attuale.

   Altra fonte di energia essenziale per la vita economica dell'Italia è il carbone, che presenta pure un notevole aumento della produzione. La produzione in Sarde­gna dal basso livello toccato negli anni 1944-45 è salita sino a 100.000 tonnellate men­sili e le cifre più recenti indicano che è stato raggiunto il 95 per cento della pro­duzione in rapporto al 1942. La disponibilità generale del carbone è però ridotta alla metà in seguito alla riduzione delle importazioni.

   La capacità produttiva dell'apparato industriale italiano non è stata molto dan­neggiata dalla guerra, le distruzioni più importanti si sono avute nella zona indu­striale di Napoli adibita prevalentemente a produzione bellica. In gran parte que­sti danni sono stati riparati e le industrie belliche sono già state riconvertite in industrie di pace.

   La produzione è però ancora sempre limitata rispetto all'anteguerra e alla ca­pacità degli impianti, per la scarsezza di materie prime, specialmente di combu­stibili. Per la produzione siderurgica, oltre alla scarsezza di combustibile vi è la deficienza di minerali e di rottami derivanti in parte da restrizioni internazionali dovute alle difficoltà valutarie e dei trasporti.

   Malgrado queste difficoltà la ripresa produttiva, anche nel settore siderurgico che sta alla base di tutta l'industria italiana e della meccanica in particolare, è promettente. Secondo i dati più recenti la produzione di acciaio ha raggiunto nel maggio scorso le 170.000 tonnellate, cifra massima raggiunta dal 1943 ad oggi. Per la ghisa, che è il settore produttivo maggiormente danneggiato dalla guerra, la produzione tocca le 40.000 tonnellate.

   Malgrado i progressi sensibili la produzione, stando alle cifre del primo seme­stre del 1947, rappresenta il 34 per cento della produzione del 1938 per la ghisa e il 66 per cento per l'acciaio ed è assai al di sotto del fabbisogno nazionale. Il fab­bisogno normale è di oltre 2 milioni di tonnellate di acciaio all'anno, cifra che non è lontana dall'essere raggiunta, ma che deve essere notevolmente superata per far fronte alle esigenze della ricostruzione.

   L'industria meccanica, altra branca essenziale dell'apparato industriale italia­no, trova ostacolo nella sua ripresa nella deficienza di combustibili e di metalli ferrosi e non ferrosi, mentre troverebbe condizioni favorevoli allo sviluppo sia per il notevole fabbisogno del mercato interno, sia per le richieste dei mercati esteri.

   La riconversione industriale della produzione bellica a quella di pace è stata quasi completamente attuata, dal punto di vista tecnico, sebbene la produzione sia sempre al di sotto della capacità produttiva degli impianti, in media al di sotto del 25 per cento. Tuttavia il progresso dal 1945 ad oggi è stato notevole.

   Alcuni settori, specie quelli degli utensili, presentano una congiuntura favore­vole anche per l'esportazione.

   La produzione di automobili segna un incremento rilevante: da 1.752 autovet­ture prodotte in marzo si è passati a 2.258 in maggio. Gli indici rispetto al 1938 sono passati dalla media del 26 per cento del 1946 al 46 per cento nel mese di mag­gio di quest'anno.

   Più lenta è la ripresa in un altro settore importante, quello edilizio. Le costru­zioni hanno superato la media mensile del 1934 e 1938, ma sono del tutto insuffi­cienti al fabbisogno attuale.

   Notevole l'attività svolta nella ricostruzione ferroviaria e stradale. Migliaia di chilometri di strade sono stati ricostruiti, migliaia di ponti stradali e ferroviari. Su 2.844 grandi ponti distrutti alla fine di aprile dell'anno in corso già ne erano stati ricostruiti 1.840.

   Il livello generale medio della produzione ha toccato in settembre il 73 per cen­to di quella che era la media mensile del 1939.

   Questo progresso è stato essenzialmente risultato del lavoro e dei sacrifici del popolo e del contributo decisivo portato dai lavoratori, dagli operai, dai tecnici, dai contadini, dagli intellettuali.

   Benché la produzione industriale abbia portato a un livello generale relativa­mente alto nei confronti del 1939, vi sono gravi fenomeni che pesano sulla rico­struzione e sull'economia italiana e precisamente la situazione instabile della bi­lancia dei pagamenti e dell'equilibrio economico.

   In passato le esportazioni italiane coprivano il 60-70 per cento del costo delle importazioni. Il deficit era coperto dal movimento turistico, dalle rimesse degli emigranti, dalla bilancia attiva dei noli e dalla progressiva liquidazione delle scar­se riserve auree.

   La situazione era gravissima nell'immediato dopoguerra, in quanto l'esporta­zione di merci era ridotta a cifre irrisorie. Nel 1945 e anche nel 1946 la nostra bi­lancia dei pagamenti è stata saldata grazie agli introiti straordinari di carattere assistenziale come i fondi UNRRA. I dati dei primi mesi del 1947 sono indicativi circa il deficit della bilancia commerciale:


  importazioni (in milioni di lire)   esportazioni (in milioni di lire)
  gennaio        19.279    13.701
  febbraio      22.286    12-778
  marzo       40.779    15.663

   Quest'anno il deficit della bilancia potrà essere saldato con i residui UNRRA, ma con questo non si risolve il problema di dare un equilibrio stabile alla bilancia dei pagamenti, un equilibrio cioè basato sulla nostra attività economica.

   Un altro elemento grave dell'economia italiana è la progressiva svalutazione della lira, con il conseguente minor potere di acquisto delle masse lavoratrici.

   L'aumento del livello della produzione sia nell'industria che nell'agricoltura non è seguito dall'aumento dei salari. Mentre aumentano fortemente i profitti per gli industriali non vi è un adeguato aumento della retribuzione della manodopera. Inoltre l'aumento dei salari non corrisponde all'aumento dei prezzi. Nell'agricol­tura il costo dei mezzi di produzione è aumentato di 6-7 volte nel 1944 rispetto al 1938, di 14 volte nel 1945 e di 21 volte nel 1946. I prezzi dei prodotti venduti dal­l'agricoltura sono aumentati di 12 volte nel 1944, di 24 volte nel 1945, di 36 volte nel 1946.

   I salari nel 1944 erano soltanto 9 volte quelli del 1938, nel 1945 19 volte, nel 1946 più di 26 volte. Nell'industria i salari degli operai nel gennaio 1945 erano circa 6 volte quelli dell'anteguerra, ma i prezzi erano 30 volte di più di quelli dell'ante­guerra. Nel marzo di quest'anno i salari nominali erano 30-35 volte quelli dell'an­teguerra, ma per contro i prezzi dei prodotti industriali sono 40-50 volte quelli dell'anteguerra.

   Ne consegue la diminuzione dei salari reali, il cui valore nominale non segue l'ascesa dei prezzi. Secondo un calcolo recente rispetto al 1938 la remunerazione reale può essere così stabilita: operai manovali 79, operai specializzati 59, impie­gati di seconda categoria 43, impiegati di prima categoria 37.

   Il ritmo del processo inflazionistico, visto anche soltanto sotto l'aspetto dell'au­mento dei mezzi monetari sul mercato, è rappresentato dalle cifre della circolazio­ne che è passata da 370 miliardi nel gennaio 1945 a 642 miliardi nell'agosto 1947.

   Altro dato negativo è che l'aumento della produzione non ha portato ad una diminuzione della disoccupazione operaia e bracciantile, né ad un sollievo della miseria e dei bisogni delle masse lavoratrici.

Situazione politica

La situazione politica creatasi nel secondo semestre di questo anno in seguito alla nostra esclusione dal governo è certamente seria e presenta aspetti di indub­bia gravità. La situazione nuova creatasi è caratterizzata dal mutamento del carat­tere e della struttura politica del governo.

   Dalla liberazione in poi si erano succeduti in Italia dei governi di larga unità nazionale, dei governi che comprendevano i rappresentanti dei partiti della classe operaia e dei lavoratori e dei partiti democratici e repubblicani. L'attuale governo invece esclude dal proprio seno quasi tutti i rappresentanti di questi partiti e in primo luogo i rappresentanti del partito comunista e del partito socialista. Del­l'attuale governo invece fanno parte rappresentanti di partiti che stanno alla de­stra della democrazia cristiana e rappresentanti di gruppi capitalistici conserva­tori e reazionari.

   L'attuale governo ha inoltre ottenuto i voti all'Assemblea costituente di partiti di destra che non sono neppure rappresentati nel governo, come i qualunquisti e i monarchici. Questo governo si regge cioè con i voti di partiti di destra che sono voti decisivi.

   Ci si trova quindi di fronte ad uno spostamento radicale della situazione poli­tica per quanto riguarda il governo. Sino alla metà di quest'anno, dalla liberazio­ne in poi, il paese era stato governato da un blocco di forze politiche che compren­devano i rappresentanti delle classi possidenti e i rappresentanti delle classi lavo­ratrici, con l'esclusione dei gruppi più reazionari come i monarchici e i qualunqui­sti. Dal giugno in poi invece il paese è governato da un blocco di forze politiche nel quale le classi lavoratrici sono in gran parte escluse (vi sono rappresentate soltanto nella misura in cui può rappresentarle il partito della DC) ed hanno parte prevalente le classi possidenti, conservatrici e reazionarie.

   Come si è prodotta l'attuale situazione? Quale carattere ha e quali pericoli pre­senta la situazione attuale? Quali prospettive si aprono davanti a noi comunisti italiani?

   Sarebbe un errore se esaminassimo la situazione che si è creata soltanto tenen­do presente le condizioni del nostro paese. Noi ci rendiamo conto di trovarci di fronte al risultato di una offensiva delle forze conservatrici e reazionarie che vie­ne condotta non soltanto nel nostro paese, ma su scala internazionale. Se ci na­scondessimo questo elemento commetteremmo un grave errore di analisi politica e non comprenderemmo quali sono i fatti e le forze che hanno agito per determi­nare l'attuale situazione italiana.

   Immediatamente dopo la guerra, come sapete, si era creata in Europa e anche in alcuni paesi al di fuori dell'Europa una situazione particolare caratterizzata da una spinta popolare, da una spinta diretta e organizzata da forze politiche demo­cratiche di avanguardia, la quale tendeva a provocare delle profonde trasforma­zioni nella struttura economica, politica e sociale dei paesi europei, allo scopo di dirigere la ricostruzione economica e politica seguendo una linea di democrazia conseguente e progressiva. Questa spinta ha avuto luogo sotto il segno dell'unità antifascista. Le trasformazioni che dovevano essere compiute erano di natura poli­tica ed economica. Venivano aperte le vie del potere ai partiti più avanzati della classe operaia. Questi partiti e le forze sociali da essi rappresentate partecipavano al potere politico con un programma determinato che si riassumeva nella lotta per distruggere i residui del fascismo e sul terreno economico-sociale nella lotta per realizzare quelle riforme le quali dovevano impedire una rinascita fascista ed im­perialista. Si trattava di lottare essenzialmente per realizzare la riforma agraria in primo luogo, e in secondo luogo una lotta contro i gruppi capitalistici mono­polistici.

   La disfatta del nazismo in Germania e del fascismo in Italia, la soppressione materiale degli strumenti di aggressione dell'imperialismo, la distruzione dell'eser­cito tedesco, lo sfacelo di quello italiano avevano creato condizioni favorevoli allo sviluppo delle forze democratiche e le forze reazionarie che avevano subito tali colpi non erano state in grado di opporre una efficace resistenza alla partecipazio­ne al potere dei partiti della classe operaia e dei lavoratori. Ma oggi la situazione è notevolmente cambiata. Se lasciamo da parte la situazione dei paesi d'Europa dove gli eserciti dell'Unione Sovietica hanno dato un aiuto alle forze democratiche e di avanguardia e hanno assicurato una stabilità politica, nei paesi dell'Europa occidentale le forze reazionarie del grande capitale e dell'imperialismo dal 1945 in poi si sono gradatamente riorganizzate e sono andate rinsaldando sempre più il loro potere. Queste forze si sono appoggiate sugli eserciti di occupazione anglo­americani e sono state aiutate con ogni mezzo dall'imperialismo anglo-americano. È iniziata l'offensiva delle forze reazionarie contro i partiti popolari e contro i go­verni che erano espressione dei larghi blocchi democratici e antifascisti.

   In conseguenza dell'atteggiamento assunto dalle forze conservatrici anglo-ame­ricane e della situazione creatasi vi è stata pure in parecchi paesi d'Europa una svolta della socialdemocrazia. Gran numero di partiti socialisti hanno abbando­nato la politica di unità col movimento comunista e quella politica di larga unità democratica che aveva permesso il sorgere di governi rappresentanti blocchi di forze borghesi e popolari.

   Anche in Italia la socialdemocrazia ha realizzato la sua svolta, portando la scis­sione nel febbraio di quest'anno in seno al PSI e dando vita ad un partito che par­tecipa oggi ad un governo dal quale sono esclusi i comunisti e i socialisti, ad un governo che conduce una politica di asservimento all'imperialismo americano e alla volontà dei ceti conservatori e reazionari italiani.

   A questo punto occorrerebbe inserire una serie di considerazioni sulla politica che l'imperialismo americano sta conducendo per conquistare rapidamente e soli­damente delle posizioni di dominio tali che lo portino ad affermarsi come forza dirigente di tutto il mondo capitalistico. Ma ritengo superfluo questo esame e l'esame delle contraddizioni insite nella politica di egemonia dell'imperialismo ame­ricano, perché si tratta di cose note. Però è di qui che bisogna partire per esami­nare la nostra politica e fissare le nostre prospettive.

   La prospettiva di una terza guerra mondiale è da considerarsi come una pro­spettiva reale e imminente? Soltanto chi è in possesso di tutti gli elementi della situazione internazionale può dare una risposta sicura a tale domanda. Noi rite­niamo che questa prospettiva non può oggi essere considerata imminente, però non sottovalutiamo i pericoli esistenti nella situazione, l'aggressività dell'imperia­lismo e specialmente di quello americano.

   La tendenza della situazione a svilupparsi verso una nuova guerra oggi è fre­nata da una serie di elementi di cui il principale è l'esistenza in tutti i paesi euro­pei di un forte movimento democratico dei lavoratori e in alcuni come in Italia anche di un forte movimento comunista. Se la prospettiva di un nuovo conflitto mondiale, a nostro modo di vedere, non deve essere considerata come imminente, ci rendiamo conto però della realtà di una prospettiva di acutizzazione della lotta delle forze imperialistiche e specialmente di quelle dell'imperialismo americano.

   Il modo come si sviluppa la situazione politica in Italia, come d'altronde in altri paesi d'Europa, Francia, Belgio, ecc., è direttamente legato all'offensiva del­l'imperialismo e a quella prospettiva.

   La lotta delle forze più aggressive dell'imperialismo per conquistare nel nostro paese posizioni di dominio economico e politico urta, è vero, contro i sentimenti nazionali e di indipendenza; però noi non dovremmo farci delle illusioni in pro­posito, innanzitutto perché questo risentimento, per avere peso ed efficacia, do­vrebbe manifestarsi non soltanto tra i lavoratori, ma soprattutto in una parte al­meno delle classi possidenti. In secondo luogo è molto più facile suscitare un mo­vimento di difesa dell'indipendenza nazionale contro un imperialismo come quello tedesco che è venuto nel nostro paese a saccheggiare, a distruggere, ecc. e nei con­fronti del quale le antiche tradizioni hanno avuto e hanno la loro influenza, che non invece condurre una lotta per l'indipendenza nei confronti dell'imperialismo americano che si presenta in Italia dicendo che ci dà tutto quanto ci occorre: aiuti, capitali, materie prime, ecc. Senza dubbio l'opera di penetrazione dell'impe­rialismo americano susciterà malcontento e risentimenti, creerà condizioni favore­voli allo sviluppo della lotta democratica, ma questo processo non sarà certo mol­to rapido.

   Potevamo evitare il rafforzamento delle posizioni del capitalismo nel nostro paese? Era assai difficile, a nostro modo di vedere, evitare questo processo di ri­presa e rafforzamento delle posizioni conservatrici e reazionarie, perché mancava la possibilità che nel nostro paese la lotta politica potesse svilupparsi all'infuori dell'influenza e dell'intervento delle forze straniere. Le cose sarebbero andate senza dubbio diversamente se noi non fossimo stati un paese sconfitto e occupato dagli anglo-americani.

   Questo non significa che anche da parte nostra e del movimento democratico in generale non siano stati commessi degli errori, senza i quali noi avremmo po­tuto mantenere determinate posizioni di forza o almeno mantenerle più a lungo.

   Qual è stata la tattica seguita dalle forze capitaliste nel nostro paese per ricon­quistare determinate posizioni di predominio? Da una parte hanno cercato con ogni mezzo di provocare ad ogni occasione una rottura del fronte democratico nazionale e di spingere il paese verso la guerra civile. D'altra parte hanno cercato di impedire che i governi che si fondavano sul blocco di forze democratiche potes­sero sviluppare una politica anticapitalista. Ogni volta che noi comunisti assieme ai socialisti e alle altre forze democratiche cercavamo di strappare determinate misure di ordine economico e politico che avrebbero fatto progredire la demo­crazia, immediatamente le forze conservatrici insorgevano e ci si minacciava con la rottura della situazione, che avrebbe provocato la guerra civile, l'intervento straniero, ecc. Le forze democratiche furono perciò costrette a segnare il passo. D'altra parte con la stessa minaccia ci si impediva l'avanzata e la conquista di solide posizioni sul terreno politico.

   Forse in taluni casi ci siamo lasciati dominare troppo da queste minacce e dal pericolo della rottura, della guerra. La lotta di classe contro i lavoratori e le forze democratiche i capitalisti l'hanno condotta in forme e in direzioni diverse che non sono soltanto la resistenza alle rivendicazioni degli operai e dei contadini.

   Su questo terreno, anzi, data la possanza dell'organizzazione sindacale, la sua compattezza, i capitalisti non si trovano sulle posizioni più vantaggiose per con­durre la lotta. Ma essi hanno scelto un altro terreno: quello del sabotaggio con­creto di ogni opera di ricostruzione economica. Essi si sono rifiutati di rinunciare ad una parte, sia pure piccola, dei loro profitti a beneficio della ricostruzione del paese.

   Il governo, ad esempio, prende un provvedimento sull'imposta patrimoniale? I capitalisti, i ceti possidenti reagiscono facendo aumentare i prezzi. L'aumento dei prezzi crea una nuova situazione economica nella quale l'imposta patrimoniale viene svalutata e l'aliquota fissata dal governo allo scopo di incidere sulla ricchezza dei capitalisti perde la sua efficacia perché diventa una aliquota insignificante.

   Attraverso il sabotaggio economico e il gioco dei prezzi gli industriali sono sempre riusciti ad annullare in tutto o in parte le misure che il governo stava prendendo per limitare i loro profitti o per farli partecipare economicamente al­l'opera di ricostruzione.

   Sarebbe un errore se sottovalutassimo l'importanza delle conquiste raggiunte dalla liberazione ad oggi. La classe operaia e le classi lavoratrici hanno conqui­stato posizioni mai raggiunte in passato.

   Abbiamo ottenuto immediatamente dopo la liberazione il blocco dei licenzia­menti, che ha salvato milioni di operai dalla disoccupazione durante il lungo pe­riodo della riconversione industriale dall'industria di guerra a quella di pace. Si è ottenuta la scala mobile per l'adeguamento automatico del salario al costo della vita, conquista molto importante, specialmente in un periodo di svalutazione della moneta e di penuria di merci.

   Su iniziativa del ministro comunista dell'Agricoltura è stata votata una legge che concede delle terre incolte o mal coltivate ai contadini senza terra; questa legge, malgrado il sabotaggio e la resistenza dei proprietari terrieri, è riuscita in parecchie località dell'Italia meridionale a minare le basi dei vecchi rapporti semi-feudali dei proprietari fondiari con i contadini.

   Vasti movimenti di mezzadri hanno imposto la ripartizione dei prodotti non più a metà, ma al sessanta per cento.

   Sono stati costituiti non soltanto nel nord, ma anche in alcuni centri dell'Italia meridionale (Taranto, Napoli), nelle più importanti aziende industriali, i consigli di gestione, organismi che pongono il problema della partecipazione e del con­trollo da parte dei lavoratori alla direzione delle aziende e della produzione; an­che se sino ad oggi questi organismi non sono ancora stati riconosciuti legalmente.

   Siamo riusciti a conquistare la repubblica e questa conquista rappresenta qual­che cosa di sostanziale per il popolo italiano, per il modo stesso come è stata con­quistata e perché con questa lotta il popolo italiano ha voluto marcare la propria volontà di profondo rinnovamento politico, economico e sociale della società italiana.

   Queste realizzazioni e le posizioni conquistate non debbono essere sottovalu­tate, però è altrettanto chiaro che sinora noi non siamo riusciti a consolidare que­ste posizioni e non siamo riusciti a realizzare nessuna modificazione di struttura della società capitalista italiana. Soltanto la realizzazione di alcune modificazioni di struttura rappresenterebbe qualcosa di effettivamente nuovo e darebbe stabilità alle posizioni sinora conquistate e che sono tuttora minacciate.

   Come siamo giunti all'attuale situazione?

   Al momento dell'insurrezione nazionale del nord Italia avevamo con noi la mag­gioranza della popolazione italiana, quanto meno la maggioranza della popolazione attiva, ed esercitavamo una grande influenza anche su larghi strati della popola­zione non attiva. Per conquistare questa maggioranza ed i successi politici già accennati noi avevamo lavorato sulla base della formula politica dei CLN, i quali erano l'organizzazione di un blocco di forze nazionali costituitosi con l'obiettivo di liberare il paese, abbattere il fascismo, distruggere le sue tracce ed opporre una unità del popolo italiano anche alle forze degli "alleati liberatori" in seguito tra­sformatisi in occupanti anglo-americani.

   I CLN raggruppavano partiti che rappresentavano si può dire tutte le classi sociali italiane, dalla classe operaia sino a strati della borghesia rappresentati dalla DC, dalla democrazia del lavoro e soprattutto dal partito liberale.

   In seno a questo blocco di forze si svolse sempre una lotta politica tra le forze avanzate della democrazia e le forze conservatrici ed anche reazionarie; tra la classe operaia ed i partiti che la rappresentavano e le masse lavoratrici influenzate e legate alla classe operaia da una parte e dall'altra i partiti ed i gruppi che erano sotto l'influenza delle forze conservatrici e reazionarie.

   Questi CLN rappresentarono per un certo tempo, soprattutto nel nord dell'Ita­lia, una forza democratica attraverso la quale le masse lavoratrici partecipavano alla soluzione dei problemi politici ed economici del paese, iniziavano la loro opera di partecipazione alla direzione dello stato. Era una forma di democrazia, in un certo senso di potere popolare dal basso.

   Ma purtroppo la formula dei CLN non era riuscita ad affermarsi in tutta l'Italia meridionale ed in una parte dell'Italia centrale. In più di metà dell'Italia i CLN esistevano soltanto di nome e funzionavano soltanto come organismi di collega­mento tra i partiti, non avevano alcuna base tra le masse; questo fatto ha influen­zato tutta la situazione politica italiana. Facilitò la reazione italiana, appoggiata dall'imperialismo straniero, dalle autorità di occupazione, nella sua opera tesa ad impedire il consolidamento e lo sviluppo dei CLN.

   I CLN dell'Italia meridionale e delle isole erano influenzati e diretti in modo decisivo dalle forze borghesi conservatrici. Per questo ad un certo momento la for­mula dei CLN perse la sua efficacia, i CLN cessarono di funzionare, il che significa che si ruppe, cessò di esistere quel blocco di forze politiche che aveva portato alla liberazione del paese e che lo aveva diretto nei primi mesi dopo la liberazione.

   Eliminato il governo Parri, le forze conservatrici, servendosi della DC e dei li­berali, attraverso una serie di crisi di governo, dalla fine del 1945 ad oggi elimi­narono via via dal governo i partiti che vi collaboravano sino ad arrivare, alla fine del maggio scorso, ad estromettere, con la complicità di Saragat, su ordine del Dipartimento di stato americano, i comunisti e i socialisti dal governo.

   Anche dopo la fine del governo di unità nazionale abbiamo avuto per un certo tempo un governo (tripartito) che con tutte le sue manchevolezze e i suoi difetti rappresentava la maggioranza degli italiani.

   I democristiani avevano avuto, alle elezioni politiche del 2 giugno 1946, 8 mi­lioni di voti, noi comunisti assieme ai socialisti 9 milioni. Il governo tripartito rap­presentava quindi 17 milioni di elettori su 23. Inoltre il governo tripartito aveva l'appoggio degli altri partiti della sinistra democratica (repubblicani, azionisti, demolaburisti) che rappresentavano altri 3 milioni di elettori. Il cosiddetto governo tripartito rappresentava dunque 20 milioni di elettori su 23 o poco più.

   I governi succedutisi al potere dal 1944 sino al maggio 1947 erano dei governi unitari, di solidarietà democratica e nazionale, garanzia di pace per l'Italia. Di crisi in crisi De Gasperi è venuto via via riducendo ed eliminando le forze che collabo­ravano con lui. Prima il governo era formato da sei partiti, poi da quattro, poi da tre, poi da uno solo. Oggi il governo d'Italia è un governo di minoranza, non rap­presenta più 20 milioni di elettori, ma ne rappresenta a mala pena 10 o 11.

   Come dobbiamo giudicare ciò che è avvenuto? La progressiva eliminazione delle forze democratiche dal governo culminata con l'esclusione dei comunisti e dei socialisti nel maggio scorso?

   Non c'è dubbio, come ha affermato il compagno Togliatti al CC del partito nel luglio scorso, che ciò ha rappresentato una sconfitta della democrazia; questa sconfitta le forze democra­tiche l'hanno subita sul terreno governativo parlamentare e non nel paese; possiamo sem­pre affermare e dimostrare che mentre il paese si è spostato in una direzione, l'asse go­vernativo parlamentare si è spostato in un'altra direzione; potremo sempre consolarci dimostrando che le cose stanno così e potremo dimostrare che la situazione governativa parlamentare non risponde alla situazione democratica del paese. Però sta di fatto che questa situazione di avanzata della democrazia esistente nel paese non siamo riusciti a farla valere sul terreno governativo parlamentare, il che rappresenta senza dubbio una sconfitta.

   A creare questa situazione, oltre alle cause oggettive già indicate, che limita­vano e condizionavano fortemente l'avanzata della democrazia in Italia, hanno sen­za dubbio contribuito anche debolezze che erano insite nella natura stessa dello schieramento democratico, e deficienze, manchevolezze ed errori dei partiti demo­cratici e dello stesso nostro partito.

Quali sono queste debolezze e questi errori?

  Debolezza dello schieramento democratico era la paura delle masse popolari, la paura dei comunisti, per cui gli stessi partiti democratici di sinistra erano presi dal panico ogni volta che noi proponevamo di far intervenire le masse per soste­nere determinate posizioni politiche ed esigere dal governo determinate misure.

   Le prevenzioni anticomuniste erano così forti che le elezioni del giugno 1946, malgrado la decisiva posta in gioco, monarchia o repubblica, malgrado noi comu­nisti portassimo il contributo decisivo di forze e di voti a favore della repubblica, furono condotte sotto il segno dell'anticomunismo. La campagna elettorale ebbe una netta impronta anticomunista, una parte dello stesso partito socialista scese, durante la campagna elettorale, sul terreno dell'anticomunismo e riteniamo che tale campagna abbia fatto perdere a noi comunisti ed allo schieramento repubblicano nel suo complesso almeno un milione di voti.

   Per quanto riguarda i nostri errori: anche il nostro partito condivide la re­sponsabilità, assieme agli altri partiti democratici, di non aver valorizzato suffi­cientemente il movimento partigiano, di non aver opposto una sufficiente resisten­za all'allontanamento dei partigiani dai posti di direzione dello stato e della vita nazionale.

   Avremmo dovuto batterci con maggior forza per tenere in vita i CLN quali organismi democratici che facilitavano la partecipazione delle masse popolari alla vita politica e alla direzione del paese.

   Non abbiamo risposto con un movimento di massa alla manovra dei liberali concordata con i dirigenti della DC per mettere in crisi il governo. Il rovesciamento del governo presieduto da Ferruccio Parri segnò l'inizio della controffensiva da par­te delle forze conservatrici e reazionarie che si proponevano di impedire lo svi­luppo di un regime democratico, che avevano per obiettivo la restaurazione del regime capitalista.

   Nella nostra azione di governo vi sono state senza dubbio debolezze ed errori, determinate posizioni non sono state difese come avremmo dovuto, altre abbiamo abbandonate senza impegnare troppo la necessaria lotta.

   In certi momenti ci siamo lasciati dominare troppo dalla minaccia di rottura da parte delle forze conservatrici, in qualche momento ci siamo forse lasciati do­minare troppo dal pericolo della guerra civile.

   Specialmente al momento della nostra esclusione dal governo, come già ebbe a dire il compagno Longo alla riunione dell'Informbureau del settembre scorso, "il nostro partito è stato particolarmente debole quando noi siamo stati esclusi dal gover­no e gettati nell'opposizione. In tale circostanza la nostra opposizione si è manifestata soprattutto in modo verbale nella stampa e nei comizi". E' soltanto in questi ultimi mesi che una serie di manifestazioni rivendicative e di azioni di massa hanno dato maggior vigore alla nostra lotta contro il governo. Questa lotta però rimane anche oggi sul piano essenzialmente rivendicativo e sindacale e non si è ancora trasformata in una grande lotta popolare con degli obiettivi politici precisi.

   Non soltanto nel momento della nostra esclusione dal governo, ma in generale noi non sappiamo sufficientemente legare l'azione sul piano parlamentare con l'azione extraparlamentare delle grandi masse.

   Ci sono dei compagni che osservano che De Gasperi avrebbe avuto piacere se noi, nel momento in cui stavamo per essere esclusi dal governo, avessimo orga­nizzato lo sciopero generale, perché cosi avrebbe potuto dimostrare che noi ci po­nevamo sul terreno extralegale, sul terreno della violenza, abbandonavamo il ter­reno della democrazia parlamentare.

   Si afferma anche che "l'elemento favorevole a noi è soprattutto il fatto che siamo usciti dal governo senza dare la parola d'ordine dell'insurrezione, il che ha accresciuto il prestigio del nostro partito in determinati strati sociali".

   Ma riteniamo non esatto questo giudizio, perché non si trattava già di dare la parola d'ordine dell'insurrezione, ma di organizzare una grande mobilitazione di popolo, prima ancora che fossimo esclusi dal governo. Dal non fare nulla al fare l'insurrezione ci corre. Ci siamo fatti mettere fuori dal governo senza una grande protesta di massa, senza proclamare uno sciopero generale di ventiquattro o di quarantotto ore.

   È vero che non era facile avere un successo in tale pressione dal basso, perché per avere successo avremmo dovuto poter mobilitare delle forze e delle masse di­verse da quelle che seguono il nostro partito. Poiché le manifestazioni erano dirette contro i dirigenti della DC noi avremmo dovuto poter mobilitare anche delle forze della DC; una pressione del genere avrebbe potuto far oscillare De Gasperi e i suoi compari che stavano infliggendo quel duro colpo alla democrazia italiana.

   Ma proprio perché era De Gasperi che prendeva l'iniziativa di escluderci dal governo era difficile mobilitare contro tale iniziativa le masse democristiane. In­fatti, poiché si era mandato a dire al congresso della CGdL che si teneva a Firenze, che la Confederazione dovesse organizzare una grande manifestazione per recla­mare che i partiti dei lavoratori restassero al governo, non riuscimmo a far acco­gliere la nostra proposta perché i dirigenti DC facenti parte degli organismi diret­tivi della CGdL si proclamarono subito contrari a tale manifestazione e dissero che se l'avessimo fatta malgrado loro essi sarebbero usciti immediatamente dalla CGdL, avremmo cioè avuto la scissione sindacale.

   Malgrado queste ed altre difficoltà reali, ritengo però che non avremmo dovuto lasciarci estromettere dal governo senza impegnare una forte lotta di massa, anche se forse sarebbe stata una battaglia persa. Con ogni probabilità, anzi, sarebbe stata una battaglia persa, ma vi sono delle battaglie che occorre combattere anche se si sa di perdere immediata­mente. Esse servono per il domani. In ogni caso ritengo che si perda di più ogni volta che si cedono posizioni importanti senza dar bat­taglia.

   Le proteste a mezzo della stampa e dei comizi servono a poco. Avevamo già avuto l'esempio dell'ottobre 1945, all'epoca del rovesciamento del governo Parri. I nostri avversari constatarono allora che le manifestazioni delle masse a base di grandi comizi non portavano a nulla di positivo e si convinsero che noi non pote­vamo andare più avanti, non eravamo in grado di assestare dei colpi più forti e realizzarono una sterzata a destra. È da allora, dall'ottobre 1945, a mio parere, che comincia il declino del prestigio dei partiti popolari e l'afflusso verso la DC.

La forza del movimento democratico

  L'accenno al declino del prestigio dei partiti popolari può apparire in contrad­dizione con quanto affermato prima, che noi abbiamo sì subito (con la nostra esclusione dal governo) una sconfitta sul terreno parlamentare, ma che le nostre posizioni sono molto forti nel paese. Non c'è contraddizione perché quando parlo di inizio del declino ne parlo in confronto alla fase più alta dell'ondata rivoluzio­naria, dell'ascesa del movimento democratico, che va, a parer mio, dall'aprile al­l'ottobre 1945. Ma senza dubbio le forze del movimento democratico in Italia sono tuttora possenti ed in grado di impedire la realizzazione dei piani reazionari degli imperialisti americani e dei loro servi, De Gasperi e soci.

   Dopo il risultato delle elezioni per la Costituente del 2 giugno 1946, nelle quali noi comunisti assieme ai socialisti ottenemmo il 42 per cento dei voti (comunisti 19 per cento, socialisti 23 per cento), abbiamo avuto nell'autunno del 1946 e nella primavera di quest'anno le elezioni amministrative, nel corso delle quali noi co­munisti abbiamo allargato ancora la nostra influenza e abbiamo conquistato i comu­ni di Torino, Genova, Venezia, Bologna, Firenze, Reggio Emilia, Modena, Livorno, Pisa e tanti altri ancora.

   Nelle elezioni del 2 giugno a Torino noi comunisti eravamo al terzo posto, nel novembre siamo stati i primi, a Genova eravamo al secondo posto e siamo diven­tati i primi e così potremmo citare molti altri casi analoghi. Nell'aprile di que­st'anno abbiamo avuto le elezioni regionali in Sicilia dove la DC ha perso, rispetto al 2 giugno, oltre trecentomila voti che sono stati guadagnati dal Blocco del popolo.

   Ma a parte i risultati elettorali che, a mio modo di vedere, non riflettono mai da soli l'influenza e la forza reale dei partiti d'avanguardia in un paese capitalista, abbiamo i dati della forza delle organizzazioni democratiche che sono signifi­cativi.

   La Confederazione generale del lavoro all'inizio di quest'anno contava più di sei milioni di aderenti. Nelle recenti elezioni ai posti dirigenti della CGdL i candidati comunisti hanno raccolto il 58 per cento dei voti, quelli socialisti il 22 per cento, i democristiani il 19,2 per cento.

   Nella Confederterra la corrente comunista ha avuto il 67 per cento dei voti, nella Federazione degli operai metallurgici (FIOM) il 63 per cento, il 71 per cento nel sindacato edile.

   Il movimento cooperativo si è pure molto sviluppato, esso conta nel paese tre milioni di cooperatori organizzati in seno alla Lega nazionale della cooperazione, che si oppone all'organizzazione nazionale delle cooperative di ispirazione demo­cristiana.

   Nelle cooperative raggruppate nella Lega nazionale la corrente comunista ha ottenuto alle recenti elezioni il 70 per cento dei voti.

   Esiste inoltre l'Unione donne italiane (UDI) con mezzo milione di aderenti, il Fronte della gioventù che raggruppa 273.000 giovani, l'Associazione nazionale parti­giani d'Italia (ANPI) con 200.000 aderenti in gran parte ex partigiani.

   La nostra influenza si estende inoltre in seno a parecchie altre organizzazioni di massa culturali, ricreative, sportive e di ex combattenti. In molti capoluoghi di provincia noi facciamo parte dei comitati direttivi dell'Associazione degli ex com­battenti; anche nel comitato direttivo e nella segreteria nazionale di questa asso­ciazione siamo rappresentati.

   Accennerò a parte alla forza del partito comunista. Il quotidiano del partito che si pubblica in quattro edizioni tira 340.000 esemplari al giorno; il settimanale 65.000 copie e la rivista ideologica del partito, "Rinascita", 40.000 copie al mese.

   Disponiamo inoltre di una decina di quotidiani fiancheggiatori.

   Malgrado difetti e debolezze che ancora esistono e larghe possibilità di svilup­pare ancora la nostra influenza, tuttavia queste cifre dimostrano che i legami del nostro partito tra le masse sono abbastanza forti.

   Recentemente sono state combattute delle forti lotte, potremmo dire le prime grandi lotte dopo la liberazione del paese. La lotta dei salariati agricoli della valle Padana ha impegnato per parecchi giorni più di un milione di lavoratori. Uno scio­pero di protesta di ventiquattro ore ha mobilitato compatti seicentomila metallur­gici. Il 20 settembre in tutte le grandi città hanno avuto luogo imponenti manife­stazioni di protesta contro il carovita.

   Poiché dopo l'esclusione dal governo dei comunisti e dei socialisti i fascisti han­no rialzato la testa e si sono dati ad assalire sedi comuniste, senza che De Gasperi e Scelba applicassero l'articolo 17 del trattato di pace che interdice ogni attività fascista, i lavoratori hanno assunto direttamente la difesa delle loro sedi e a Tori­no, Milano, Varese, Venezia, nelle Puglie, in Sardegna e in Sicilia vi sono state grandiose manifestazioni di protesta; non solo, ma i lavoratori hanno risposto as­saltando i covi delle organizzazioni fasciste e monarchiche. L'indignazione popolare contro le mene fasciste ha assunto una tale ampiezza che nel corso di una setti­mana gli operai del nord, i braccianti delle Puglie, i contadini e i minatori siciliani hanno rigettato i fascisti nella clandestinità ed hanno costretto il governo De Ga­speri a procedere a numerosi arresti di fascisti e nostalgici che avevano compiuto atti di violenza contro le sedi dei partiti comunista e socialista.

   Sotto la spinta delle masse il governo De Gasperi ha pubblicato, il 3 del cor­rente mese, la decisione di creare una commissione incaricata di elaborare la legge sui consigli di gestione. È il primo risultato della lotta impegnata dalla classe ope­raia per salvaguardare i suoi diritti, lotta che terminò con un congresso che ha recentemente riunito settemila delegati di officina di tutta Italia.

   Seguendo l'esempio degli operai, i contadini italiani sotto la guida delle loro organizzazioni stanno preparando il loro congresso nazionale che deve essere una vera assemblea costituente per la questione agraria.

Gli altri partiti

  Poche considerazioni sugli altri partiti italiani per avere un'idea dello schiera­mento delle forze.

   La democrazia cristiana. Sino al 2 giugno del 1946 questo partito era stato con noi, aveva collaborato con noi, non aveva trovato nulla che offendesse i principi, la morale e la religione nel collaborare assieme ai comunisti prima nei CLN e poi al governo. Già al 2 giugno la sua posizione fu equivoca, ma da allora in poi la sua evoluzione a destra andò sempre più accentuandosi e ha finito per prendere un'al­tra strada.

   La DC è un partito complesso, esso raggruppa uomini di diversi ceti sociali, capitalisti ed operai, grossi agrari e contadini poveri, possidenti e ceti medi profes­sionisti. Vi sono anche nelle sue file operai, contadini, lavoratori ed esercita la sua influenza su larghe masse di lavoratori, anche se non iscritti al partito.

   Ma da chi è diretto questo partito? È diretto dal Vaticano e dalle forze capita­listiche, è lo strumento delle alte gerarchie ecclesiastiche, di quelle gerarchie che hanno preparato l'avvento del fascismo; è diretto pure dagli attuali circoli diri­genti reazionari degli Stati Uniti. Tale partito non offre alcuna garanzia di condurre una politica democratica. Questo è il partito di cui la borghesia italiana aveva bi­sogno per condurre l'azione preliminare necessaria al ritorno ad un regime rea­zionario.

   Nella DC e attorno alla DC si sta realizzando ancora una volta quell'unità delle forze capitalistiche ed agrarie che vogliono mantenere e rafforzare il proprio dominio nel paese. Gli industriali italiani sussidiano e appoggiano in primo luogo tale partito. Costa, il presidente dell'Associazione degli industriali, è membro autore­vole dell'Azione cattolica e impone una taglia agli industriali italiani per poter finan­ziare il partito e i giornali della DC.

   Naturalmente il nostro atteggiamento non è semplice nei confronti di questo partito, perché da un lato dobbiamo lottare decisamente contro la politica che i suoi dirigenti, De Gasperi in testa, conducono, dall'altra dobbiamo lavorare per mantenere ed allargare i contatti con i lavoratori cattolici. De Gasperi cerca di creare un clima di guerra tra noi e i lavoratori cattolici, tra noi e la periferia della DC. Non dobbiamo permettere che egli riesca a realizzare questa manovra, dob­biamo cioè porre attenzione alle sue provocazioni.

   Non dobbiamo cioè confondere la politica di De Gasperi e dei dirigenti conser­vatori della DC con l'intero partito. Sappiamo che il partito della DC è anche l'or­ganizzazione politica delle masse cattoliche e cioè di quelle che, entrando nella vita politica, non riescono a separare completamente la questione politica e sociale da quella che è la coscienza religiosa. Uniscono le due questioni e quindi hanno un orientamento politico che è sempre legato ad un determinato orientamento politico-ideologico.

   Dobbiamo mantenere ed allargare i contatti con i lavoratori cattolici, anche per impedire la scissione sindacale per la quale i circoli reazionari della DC stanno lavorando.

   Qualunquismo-fascismo. Il partito qualunquista non è ancora un partito di go­verno, ma è un partito che appoggia il governo. Si tratta, e per i suoi quadri e per il suo programma, di un partito fascista, anche se non innalza apertamente la ban­diera del fascismo. Svolge anche un'azione clandestina di costituzione di squadre armate. Questo partito estende la sua influenza soprattutto a Roma e nell'Italia meridionale, dove ha saputo raccogliere un certo seguito di massa. In Sicilia DC e qualunquismo hanno caratteristiche rassomiglianti; tanto nella DC che nel qua­lunquismo in Sicilia troviamo alla testa i proprietari fondiari e i loro agenti e alla base delle forze popolari di piccola e media borghesia che possono essere in parte anche forze progressive. Per questo motivo nel sud e nelle isole, pur lottando con­tro il qualunquismo, la lotta la conduciamo sul terreno politico, cercando anche dei contatti con i suoi aderenti. Nel nord Italia invece la nostra azione è tesa ad impedire qualsiasi penetrazione e affermazione del qualunquismo.

   Il pericolo principale oggi non viene però dal qualunquismo, dal neofascismo, dai legittimisti, dai fascisti, ma viene dal partito della DC. Nella loro propaganda contro di noi non c'è differenza, fanno a gara a chi è più anticomunista.

   Ma la DC rappresenta il pericolo principale perché è al governo, e perché ha dietro di sé la forza del Vaticano, della grande industria e dell'America, ed è un partito che può meglio ingannare le masse, condurre una politica reazionaria con una mascheratura democratica.

   I liberali. Era un tempo il partito della grande borghesia italiana, oggi ha per­so molto del suo prestigio e della sua influenza. Non ha più alla sua testa uomini come Carandini ed altri con i quali avevamo sempre avuto delle polemiche e delle lotte politiche anche aspre, i quali, anche se non accettavano l'impostazione che noi diamo alla lotta per la democrazia, comprendevano però la necessità di deter­minate trasformazioni sociali. Questi uomini non sono più oggi alla testa del par­tito liberale, che è diretto dal gruppo che è più apertamente espressione del ceto reazionario capitalistico-agrario semifeudale italiano. È comunque un partito che oggi ha scarsa influenza nel nostro paese, molti voti gli vengono portati via dalla DC

  . I socialdemocratici. Il partito socialdemocratico o saragattiano, sorto all'inizio di quest'anno con la scissione nel partito socialista provocata da Saragat, è un partito che ha per ora scarsa influenza. La sua influenza è limitata soprattutto al nord, tra i ceti medi ed anche certi gruppi di "aristocrazia" operaia.

   Saragat è stato uno degli artefici della crisi politica ed anche della nuova situa­zione governativa sorta nel maggio scorso.

   La posizione di questo partito vorrebbe essere quella di porsi in mezzo fra due blocchi, fra il blocco di sinistra-popolare che comprenderebbe comunisti, socialisti e i loro eventuali alleati, ed il blocco di destra di liberali, conservatori, qualunqui­sti, democristiani e monarchici. Da questa funzione di mediazione che questo par­tito dice di voler esercitare dovrebbe uscire un governo a direzione socialista. Se la cosa fosse possibile noi non saremmo contrari. È evidente che un governo in Italia che fosse sotto l'influenza socialista, che facesse una politica socialista avreb­be senz'altro il nostro appoggio.

   Ma il modo come di fatto Saragat conduce la sua politica significa ben altra cosa, significa che questo governo a cosiddetta direzione socialista dovrebbe essere il governo che spezzerebbe ulteriormente il partito socialista, gli farebbe rompere l'unità d'azione con noi, condurrebbe una politica di divisione dei lavoratori ten­dente ad isolare i comunisti nel paese, non sarebbe un governo a direzione socia­lista, ma un governo anticomunista.

   In realtà la politica che il partito socialdemocratico sta facendo non tende altro che ad allargare la base del governo democristiano per dargli un poco di verni­ciatura socialdemocratica. Si dice sia imminente l'entrata dei socialdemocratici nel governo della DC.

   L'entrata dei socialdemocratici e dei repubblicani nel governo di De Gasperi non riuscirà a mascherare la sostanza reazionaria della politica di questo governo, dimostrerà soltanto che questi due partiti hanno rinunciato molto presto ad assol­vere la funzione di mediazione fra i due blocchi.

   Il partito repubblicano. Si tratta di un piccolo partito, non ha carattere nazio­nale, estende la sua influenza soltanto in alcune regioni, principalmente in Roma­gna, in parte nelle Marche e in alcune altre province italiane. Influenza strati di ceti medi, professionisti ed anche di contadini.

   Sino a qualche tempo fa, nella valutazione della situazione del paese, dei peri­coli che vi sono e delle prospettive, il partito repubblicano si trovava d'accordo con noi comunisti, specialmente per quanto riguardava lo sviluppo della democrazia e la lotta per l'indipendenza nazionale; si pronunciavano anch'essi contrari a rice­vere dei prestiti americani se questi erano condizionati dalla rinuncia alla nostra indipendenza politica. Adesso il partito repubblicano ha fatto un repentino volta­faccia, non se ne comprendono ancora i motivi politici, e sembra stia per entrare nel governo assieme ai saragattiani. Si tratta di un'altra frangia che si aggiungerà al governo della DC. Prima aveva una frangia di destra, in avvenire, se le informa­zioni sono esatte, avrà anche una frangia di sinistra.

   Il partito socialista. Questo partito è conosciuto, non occorre soffermarvisi molto. Gode di larga influenza tra la classe operaia ed i lavoratori. È legato a noi dal patto di unità d'azione e ritengo abbia valore decisivo la nostra alleanza col partito socialista. Se noi riusciamo a mantenere salda l'alleanza col partito sociali­sta la nostra lotta per la creazione di un blocco di forze democratiche sarà enor­memente facilitata; qualunque siano gli sviluppi della situazione italiana, l'alleanza con il partito socialista ci dà modo di influenzare la maggioranza della classe ope­raia e gran parte delle classi lavoratrici.

   Il giorno in cui si creassero il disaccordo, la disunione, divergenze su una serie di problemi con il partito socialista, allora la nostra lotta in Italia diventerebbe assai più difficile e assai più difficile sarebbe il raggiungimento dei nostri obiet­tivi.

   Oggi questi rapporti sono buoni e dobbiamo lavorare per migliorarli. Non dobbiamo però farci delle illusioni, non abbandonarci alla faciloneria perché se oggi questi rapporti sono buoni al centro e alla periferia, non possiamo chiudere gli occhi su ciò che sta avvenendo negli altri paesi. La pressione internazionale si eser­cita anche sul partito socialista italiano, specialmente da parte del Labour Party. Questa pressione potrebbe accentuarsi oggi e potrebbe accentuarsi anche per opera degli elementi del partito d'azione che sono entrati e stanno entrando nel partito socialista. Dobbiamo cioè fare attenzione che se noi non lavoriamo bene per legarci soprattutto la periferia del PSI il blocco col partito socialista potrebbe rivelarsi più debole di quanto non crediamo.

   Il partito comunista. Il nostro partito conta oggi 2.279.000 iscritti, esso estende la sua influenza su scala nazionale, seppure è più forte nell'Italia del nord e nel­l'Italia centrale e particolarmente in Emilia, in Toscana e nell'Umbria. La diffe­renza tra nord e sud esiste ancora, ma è meno grande di prima. Siamo un grande partito di massa, seppure non ancora dappertutto. Non lo siamo ancora nell'Italia meridionale, dove soltanto il 2-3 per cento della popolazione attiva è iscritta al par­tito. Sono noti non soltanto la forza, ma anche i successi nello sviluppo e nell'azio­ne del nostro partito. Vorrei però indicare alcune debolezze.

   Vi è una certa indifferenza del partito per quanto riguarda la comprensione e la discussione della sua linea politica, per quanto riguarda l'acquisizione della sua ideologia. Si studia, si discute, si dibatte poco. Le questioni ideologiche e di linea politica interessano scarsamente. Si tratta di un fenomeno abbastanza grave al quale dobbiamo porre attenzione.

   Se la cifra degli iscritti al partito è imponente, tuttavia tra le federazioni che al maggio di quest'anno non avevano ancora raggiunto il numero di iscritti dell'an­no scorso vi erano nei primi quattro posti quattro capoluoghi di provincia: Milano, Torino, Genova e Venezia, quattro città industriali, soprattutto le prime tre. Il che indica che nel nostro partito vi sono dei punti deboli e che questi punti deboli si trovino proprio nei centri industriali è un fenomeno che ci deve preoccupare.

   Se questo dato lo avviciniamo ai risultati delle elezioni del giugno 1946 diventa ancora più preoccupante. Le elezioni del giugno 1946 hanno indicato debolezze par­ticolari nelle regioni del nord e precisamente in Piemonte, nella Lombardia e nel Veneto.

   Anche nel Mezzogiorno, dove abbiamo fatto dei passi in avanti, le cifre del re­clutamento si traducono, esclusa la Sicilia, in un reclutamento di cinquantamila uomini e donne e le percentuali di iscritti al partito in rapporto alla popolazione in queste regioni continuano ad essere delle percentuali bassissime.

   Ma il difetto più grave del nostro partito mi sembra essere una grande massa di iscritti inattivi, che non fanno niente. Ora una grande massa di iscritti inattivi, specialmente in un periodo in cui abbiamo cessato di essere un partito di governo, rappresenta un pericolo. Questa massa che non lavora a un certo momento cesserà di essere una massa passiva, ma diventerà una massa che se ne va. Ed una massa che se ne va, anche se si tratta della parte passiva del partito, sarebbe una perdita seria perché potrebbe favorire l'offensiva dell'avversario. Un problema serio che si pone davanti al partito comunista italiano è quello di rendere attiva la maggio­ranza dei suoi iscritti, renderli attivi soprattutto nella lotta.

   Ho accennato ad alcuni difetti seri del partito, occorre dire qualcosa anche sui sindacati.

   I sindacati. Già ho messo in luce la forza della CGdL, però anche qui non do­vremmo vedere soltanto gli aspetti positivi. Intanto il pericolo maggiore che mi­nacci la CGIL è la scissione sindacale.

   Nella misura in cui la lotta politica ed economica si aggrava i democristiani accentuano la loro azione scissionista nei sindacati, si oppongono spesso alle azioni di massa, minacciano ad ogni pie' sospinto la scissione, ostacolano e talvolta impediscono lo sviluppo delle lotte perché noi talvolta, per evitare la rottura, veniamo al compromesso, vi rinunciamo. Al congresso dei sindacati nel giugno di quest'anno a Firenze i dirigenti sindacali democristiani hanno disapprovato una mozione che autorizzava i sindacati a proclamare lo sciopero politico.

   Oggi i dirigenti democristiani dei sindacati si sono fatti sempre più difensori e protagonisti della politica reazionaria e antioperaia di De Gasperi. Essi cercano di sabotare ogni azione di lotta e di spezzare l'unità dei lavoratori. Non è possibile dire sino a quando riusciremo ad impedire la scissione sindacale, certo essa è molto minacciata e costituisce il più serio pericolo che minaccia il movimento sindacale e democratico italiano.

   Un'altra deficienza dell'azione sindacale è che per molti anni gli operai, i lavo­ratori ed anche molti compagni non hanno condotto delle lotte, si sono disabituati alla lotta. Anche le conquiste che si erano fatte dopo la liberazione sono state fatte sull'ondata del successo del 25 aprile, non sono state ottenute con grandi lotte sin­dacali. Scala mobile, blocco dei licenziamenti, ecc. sono stati ottenuti in un certo senso dall'alto. Soltanto dopo che siamo usciti dal governo si sono combattute delle grandi lotte degli operai e dei contadini, prima avevamo rinunciato a delle lotte sindacali che avremmo dovuto condurre. Abbiamo ad esempio capitolato di fronte all'argomento non giusto che veniva portato da molti in Italia che non si possono aumentare i salari perché altrimenti aumenterebbero i prezzi.

   Dobbiamo porre molta attenzione al sindacato perché la sua azione diventerà sempre più importante e credo che nella prospettiva dovremo affrontare lotte dure e difficili.

Prospettiva.

Non voglio essere pessimista, tutt'altro, ma credo che il partito comunista italiano commetterebbe un errore grave se dalla sua politica di alleanze politiche e di classe traesse una conseguenza che portasse alla sottovalutazione del­la gravità della lotta di classe e dei pericoli che sono insiti nella situazione italiana.

   La situazione nella quale ci muoviamo in Italia è determinata da due elementi fondamentali: la lotta acutissima di classe che si svolge nel nostro paese e la lotta internazionale che si svolge tra le forze della libertà e del socialismo e le forze reazionarie imperialiste.

   Noi non abbiamo tutti i dati per prevedere se questa lotta internazionale si accentuerà nel prossimo avvenire ancora di più o se verrà attenuandosi attraverso accordi, sia pure temporanei, che diano luogo a spostamenti di posizione.

   Noi non abbiamo la presunzione di affermare che il nostro paese, l'Italia, sia al centro di questa lotta internazionale, però io credo sia molto vicina al centro di questa lotta (al centro vi è la Germania, non noi). Siamo uno dei paesi ai quali più guardano gli imperialisti americani, inglesi, francesi. E evidente che la nostra prospettiva non può essere vista in modo indipendente e slegato dallo sviluppo degli avvenimenti e della situazione internazionale.

   Ci troviamo, a nostro modo di vedere, in un momento molto delicato e direi anche decisivo della vita e della storia del nostro paese. Personalmente penso che si tratta di decidere oggi se impegnarci in battaglie decisive o meno. Il seguire oggi una strada piuttosto che un'altra può avere conseguenze decisive per lo svi­luppo della democrazia in Italia nei prossimi anni.

   Possiamo ritornare al governo? Oggi non ne vedo la possibilità e ritengo che dati gli attuali rapporti di forza può passare anche molto tempo prima che si crei­no possibilità di un nostro ritorno al governo.

   Propongo io di cambiare la nostra prospettiva o di lavorare con le due prospet­tive? No, io non propongo di cambiare l'obiettivo di lotta per un regime di demo­crazia progressiva, di lottare per portare avanti la democrazia. Ma come noi por­tiamo avanti la democrazia in una situazione quale si è creata nel nostro paese?

   Non dobbiamo illuderci, i dirigenti della grande borghesia italiana e della DC con De Gasperi alla testa impiegheranno tutti i mezzi per colpire il nostro partito e le forze democratiche, per portare la divisione nel movimento operaio e nel mo­vimento socialista. Possiamo fidare soltanto sullo sviluppo e sulle progressive vit­torie elettorali? Ma avendo il governo nelle loro mani le elezioni ce le prepareran­no sempre in modo tale da decurtare i nostri successi e da impedirci successi decisivi.

   Già dopo l'esclusione nostra e dei socialisti dal governo i grandi industriali han­no preso l'offensiva, hanno deciso lo sblocco dei licenziamenti, non vogliono più riconoscere i consigli di gestione. Il governo ha scatenato la sua offensiva contro le nostre organizzazioni, la polizia perquisisce le sedi comuniste, permette la pub­blicazione di giornali fascisti, si perseguitano e arrestano i migliori combattenti della classe operaia.

   E' vero che queste misure reazionarie non hanno impressionato i comunisti, la classe operaia ed i lavoratori che hanno risposto con forti lotte; però questo indica l'orientamento del governo.

   Non credo che essi pensino ad una restaurazione del fascismo in Italia, questo non è loro possibile. Un'azione violenta tendente a mettere il partito comunista, il partito socialista ed i partiti democratici nell'illegalità sarebbe destinata al falli­mento. L'azione violenta tipo fascista contro di noi darebbe immediatamente slan­cio e sviluppo alle forze democratiche. I lavoratori difenderebbero con le armi le libertà conquistate.

   Il pericolo è un altro ed è che il governo De Gasperi, d'accordo con i grandi industriali, con gli agrari, conduca una politica tesa ad impedire oggi un movi­mento di massa, domani a strappare una piccola conquista, dopodomani un'altra, cercando di dividere i lavoratori, facendo agli uni qualche concessione, mostrando i denti agli altri. Il pericolo dal quale dobbiamo guardarci è quello di cedere oggi una posizione, domani un'altra e trovarci poi nella condizione di non poter più avere l'iniziativa.

   La tattica che l'avversario persegue è quella di ridurre la forza del nostro par­tito, di isolarlo da altre forze, di staccare a poco a poco da noi quelli che possono essere i nostri alleati. La loro mira è quella di portare la scissione in seno ai sin­dacati ed alle organizzazioni di massa.

   Ripeto, non propongo di abbandonare la nostra prospettiva di lotta per uno sviluppo democratico, dobbiamo però avere coscienza che questa lotta diventa più difficile, sarà sempre più difficile il creare un blocco di forze democratiche in grado di rovesciare l'attuale situazione.

   D'altra parte noi non possiamo restare sulla difensiva o in attesa degli eventi. Se noi non riusciremo ad andare avanti andremo indietro, perché sulla cresta del­l'onda non ci si ferma. E la cresta dell'onda secondo me è già passata, l'abbiamo toccata nell'ottobre 1945, poi è cominciato il declino. Il 2 giugno del 1946 ha già segnato una flessione, la vittoria repubblicana fu di misura, la migliore votazione per il partito socialista rivelava che stavano entrando sulla scena politica forze sino allora inerti e forze non di avanguardia. Cominciarono sin dal 1946 ad avere la loro influenza ed il loro peso gli strati più arretrati, meno coscienti, più oscil­lanti, più legati al riformismo.

   Noi dobbiamo orientarci verso lotte più ampie, più dure, più decise. Dobbiamo avere coscienza che il nemico che è riuscito ad impossessarsi di tutto il potere non rimarrà inattivo, lo impiegherà contro di noi. Quando l'attacco del proletariato non è coronato dal successo, ci insegnava Lenin, la borghesia passa alla prima oc­casione al contrattacco.

   Orientarci a lotte più dure e più ampie e più decisive non significa rinunciare alla politica delle alleanze. Anche se nel prossimo avvenire dovessimo essere im­pegnati in una lotta diversa da quella legalitaria, in una lotta violenta contro i gruppi reazionari, affinché tale lotta possa avere successo dovrà essere condotta con ampie azioni unitarie, con le più larghe alleanze delle forze democratiche.

   Noi lottiamo per realizzare le riforme di struttura, per la pace, per le libertà; si tratta di obiettivi democratici, però questa lotta non possiamo combatterla soltanto in Parlamento; ritengo sia necessario, oggi più che mai, sottolineare che deve essere combattuta soprattutto fuori dal Parlamento. Non si tratta di avviarci verso avventure, ma non dobbiamo lasciare consolidarsi l'attuale governo De Gasperi che si avvia a diventare un regime. Dobbiamo avere la consapevolezza del pericolo che esso rappresenta, dobbiamo avere la consapevolezza che noi l'offensiva del nemico la possiamo fermare soltanto con la lotta. Se non riusciremo a dare delle ampie battaglie unitarie sul terreno economico, sindacale e politico, se noi ci lasceremo strappare altre posizioni, ad una ad una, saremo portati ad un certo momento a non poter più essere una forza decisiva, a dover contare soltanto più su di un fat­tore esterno. Noi abbiamo ceduto molto in passato, abbiamo ceduto troppo senza lotta; la situazione era difficile, forse era inevitabile cedere, ma il pericolo sta nel fatto che abbiamo già ceduto troppo senza combattere e questo crea scoraggia­mento da una parte e baldanza del nemico dall'altra.

   Il pericolo della situazione italiana sta nel fatto che le forze conservatrici e reazionarie con alla testa De Gasperi e la DC non adottano la tattica della lotta frontale, ma quella del carciofo, strappano una foglia oggi ed una foglia domani, ci tolgono oggi un diritto, domani una posizione, dopodomani attuano un'altra mi­sura reazionaria e di passo in passo insensibilmente siamo portati a cedere ter­reno ed a trovarci in posizione sempre più critica. Il pericolo sta nel fatto di non apprezzare appieno il valore delle posizioni che di volta in volta si perdono, di ragionare all'incirca in questo modo: "non vale la pena di impegnare una grande battaglia per una questione che non è fondamentale e che può compromettere tutto, vedremo poi". E così di posizione in posizione, che considerate ad una ad una possono non essere di grande importanza, si finisce poi, nel complesso, col perdere le posizioni decisive. Un regime clericale, allo stesso modo di quello fasci­sta, non lo si realizza di colpo. Oggi la situazione italiana è tale che a mio modo di vedere possiamo ancora prendere l'offensiva, vi sono le forze per farlo e se il nemico cercasse di sbarrarci la strada con la violenza, malgrado le misure che con l'aiuto dell'imperialismo americano già ha preso, tuttavia noi disponiamo ancora di un potenziale di forza tale che saremmo in grado di spezzare ogni loro violenza e di portare i lavoratori italiani al successo decisivo.

   Per contro ho il timore che, malgrado il gran numero di nostri iscritti al par­tito e ai sindacati, le posizioni nei comuni, nelle province, in Parlamento, la larga influenza che abbiamo, ecc. se non ci impegniamo con decisione, se il governo De Gasperi dovesse consolidarsi, si creerebbe per noi una situazione sempre più dif­ficile, una situazione di cedimento e di ritirata tale che ci porterebbe via via a per­dere tutto e ad aver perso tutto, a trovarci in un regime diverso, di tipo reazio­nario, senza neppure avere dato battaglia.