Il ruolo del Partito comunista nella storia d'Italia

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I nodi vengono al pettine
Il PCI tra questione operaia
e destalinizzazione

Premessa

  Il 7 giugno 1953, con la vittoria contro la legge truffa, il corso della situazione politica italiana cambia, seppure lentamente, e il PCI cerca di definire una strategia più adeguata ai nuovi rapporti di forza. La linea viene definita nel corso della IV Conferenza nazionale che si tiene a Roma dal 9 al 14 gennaio 1955.

   La conferenza è preceduta da alcuni fatti che davano il segno che all'interno del PCI si stava mettendo in moto un meccanismo di revisione della gestione del partito le cui conseguenze si sarebbero manifestate negativamente negli anni successivi.

   Intanto la novità è rappresentata dal fatto che la preparazione e la gestione della Conferenza non viene affidata a Pietro Secchia, che appunto dell'organizzazione era il responsabile, ma a Giorgio Amendola.

   Perchè questa scelta che si deve al segretario del partito Palmiro Togliatti? Era chiaro che egli già pensava di regolare dei conti politici che negli ultimi anni, in particolare nel 1947, erano rimasti in sospeso per l'agire di Pietro Secchia il quale si faceva portatore di istanze di lotta più decise e meno parlamentaristiche, senza però proporre alternative di carattere strategico.

   Il fatto grave che coinvolse Pietro Secchia fu la fuga del suo stretto collaboratore per le questioni della sicurezza Giulio Seniga con soldi e documenti riservati. Secchia ne pagò le conseguenze con la revoca dalla carica di responsabile dell'organizzazione e di vice segretario del partito che fu sancita appunto nel corso della IV Conferenza.

   Che la liquidazione di Secchia fosse una resa dei conti di Togliatti con un vicesegretario e responsabile dell'organizzazione scomodo è raccontato dal diretto interessato nelle "Memorie perchè si sappia la verità", del gennaio 1958, che riportiamo [qui]. Secchia sostiene infatti, in questo scritto, che i provvedimenti presi nei suoi confronti erano spropositati rispetto alle responsabilità sul fatto Seniga. Secchia non era un dirigente qualsiasi del partito, ma uno dei fondatori e un compagno non solo di assoluta affidabilità, ma anche di grande capacità operativa. Per grave che fosse l'accaduto, non si poteva non tener conto di questo. Se ci fu una rimozione dalle cariche di responsabilità dell'organizzazione e da vice-segretario le motivazioni erano ben altre. Ed ecco come egli stesso lo spiega: "Il traditore - sostiene Secchia riferendosi a Seniga - poteva rivelare ciò che voleva e tentare tutte le provocazioni immaginabili, ma non sarebbe minimamente riuscito nel suo gioco se non vi fosse stato un altro motivo per cui i dirigenti o alcuni dirigenti del partito avevano deciso di liquidarmi. Non arrivo a dire che senza quell'affare sarei stato colpito egualmente, ma l'affare del 25 luglio non è stata che l'occasione, un ottimo motivo che ha facilitato un processo che avrebbe avuto luogo ugualmente... sarei rimasto forse in direzione sino all'VIII congresso, poi, giunta l'ora del rinnovamento, la mia sorte era segnata... ma se non mi fossi trovato in condizioni di inferiorità, in un certo senso disarmato, messo in condizione di non poter agire in seguito all'affare Seniga, al momento del rinnovamento o prima avrei impegnato una lotta politica che non so come sarebbe finita."

   Ma quale lotta voleva ingaggiare Pietro Secchia? Qual era l'alternativa che avrebbe proposto? In merito ai dissensi col partito egli riassume così la situazione:"Un certo disagio lo sentii immediatamente un mese dopo la liberazione (giugno 1945) quando da Milano mi trasferii a Roma. Trovai un ambiente completamente diverso. I nostri inseriti già da tempo, quasi da un anno, nel lavoro parlamentare e ministeriale, tutti volti ad altri problemi. Compresi che per la seconda volta eravamo stati fregati. Che cosa volevo? fare la rivoluzione? No questa è la solita baggianata, la solita stolta accusa mossa da chi ha interesse a falsare le posizioni dell'avversario per poterle combattere e liquidare. Non penso affatto che nel 1945 si potesse fare la rivoluzione. Il nostro paese era occupato dagli angloamericani ecc. Condivido pienamente l'analisi fatta dal partito in quel periodo e le conclusioni cui è giunto... ma si trattava di difendere di più certe posizioni".

   Questo era dunque Pietro Secchia ed è bene che ne tenga conto chi per anni ha voluto individuarlo come una alternativa strategica a Togliatti e al togliattismo. Riassumendo la sua posizione si potrebbe dire: più durezza sì, ma con quale strategia? A nostro parere, aldilà dello spirito con cui Secchia avrebbe voluto affrontare il dibattito, il suo isolamento nel partito non era dovuto solo all'affare Seniga, quanto piuttosto al fatto che, pur manifestando insofferenza e dubbi, non aveva la capacità di delineare per il PCI un percorso più valido di quello intrapreso sotto la direzione di Togliatti la cui egemonia rimaneva inalterata.

   Ma qual era questo percorso, nel caso specifico, individuato alla IV Conferenza nel gennaio del 1955?

   Ormai i tre passaggi essenziali, la resistenza armata, la lotta per la Repubblica e la Costituente, la resistenza all'attacco del blocco reazionario della DC nel periodo 1948-1953 erano alle spalle. Il partito non solo aveva tenuto, ma aveva anche allargato il suo rapporto di massa e la sua presa in strati diversi e soprattutto in direzione degli intellettuali e delle tendenze democratiche della società che non accettavano la linea repressiva e clericale della DC e dei suoi alleati.

   Bisognava dunque decidere come andare avanti, e con quali obiettivi. Ancora una volta però all'ordine del giorno non era il socialismo, ma la costruzione di un fronte politico che avesse come capisaldi un governo di pace, di sviluppo della democrazia e di applicazione della Costituzione, di riorganizzazione dell'economia su una logica antimonopolistica, di difesa degli interessi della classe operaia.

   Creare però le condizioni perchè queste cose si realizzassero era una questione non a portata di mano, ma implicava una prospettiva di lungo periodo e un partito che avesse la saldezza di gestire questo percorso. La vittoria del 7 giugno 1953 era in grado di mettere in moto la situazione in questa direzione o era solo una premessa? Da questo punto di vista non si potevano fare previsioni senza fare i conti con la situazione oggettiva e con gli avvenimenti anche di ordine internazionale, ma soprattutto senza fare chiarezza sul fatto che un programma democratico avanzato, come i fatti italiani successivi dimostreranno, se lo si persegue veramente e non a parole, non è comunque un fatto di ordinaria amministrazione. Non è in altri termini solo un passaggio parlamentare, bensì di trasformazione sociale, e l'esperienza negativa del periodo '45-47 stava lì a testimoniarne le difficoltà.

   Intanto bisognava fare i conti anche con un brutto segnale che arrivava dalle fabbriche. Alla FIAT, nelle elezioni della commissione interna del marzo '55, i voti della FIOM passarono dal 64% al 36% e risultati analoghi si registravano in altre grosse fabbriche del Nord: un segnale con cui il PCI da allora in poi avrebbe dovuto fare i conti a fronte di un rilancio dell'economia capitalistica che imponeva un serio esame degli effetti che stava producendo tra la classe operaia. Il tema rimase all'ordine del giorno del partito per parecchi anni finchè la ripresa delle lotte operaie nel 1962, a partire proprio dalla FIAT (fatti di Piazza Statuto a Torino, [qui]) dette segnali nuovi, ma anche controversi rispetto alla interpretazione che ne dettero PCI e CGIL. La ripresa operaia si manifestò difatti fuori dai canoni previsti nella strategia del partito e del sindacato, con l'assalto alla sede della UIL di Torino. Il tappo del terrorismo antioperaio della FIAT era saltato, e con esso anche le tradizionali forme di lotta operaia, picchetti e cortei. Si anticipava così quello che avvenne a partire dal 1968 da cui la dirigenza comunista fu sostanzialmente spiazzata.

   La questione però che riaprì il discorso strategico del PCI furono gli avvenimenti del 1956: XX Congresso del PCUS, rivolta controrivoluzio­naria in Ungheria.

   I nodi vengono al pettine e a questo punto il PCI dovrà navigare in mare aperto e con onde molto alte. Anche se le vestali della particolarità del comunismo italiano cercavano di dimostrare che esso era immune dalle pecche del comunismo cattivo, quello denunciato da Kruscev al XX congresso del PCUS, per il PCI non c'era un porto sicuro in cui ripararsi dalla tempesta: quella del comunismo 'buono' era una illusione.

   Quella che si era aperta era una crisi complessiva del movimento comunista come era uscito dall'esperienza dell'Internazionale comunista e dal passaggio della seconda guerra mondiale con la vittoria dell'URSS sul nazismo e la presa del potere da parte del Partito comunista cinese. Che senso poteva avere il chiamarsi fuori o prendere le distanze dalla storia del movimento comunista e dalle contraddizioni che si erano aperte al suo interno e dire, 'noi che c'entriamo'? Non era una operazione possibile e il primo a pagarne le conseguenze fu proprio Togliatti che, man mano che l'antistalinismo e la controrivoluzione progredivano, fu di fatto cancellato dalla memoria dei comunisti 'rinnovati'. Non solo, ma l'operazione dei comunisti 'buoni' servì anche e soprattutto ad alimentare le forze revisioniste e controrivoluzionarie che dentro e fuori il PCI lavoravano per cambiare i connotati del partito e alle fine ci riuscirono, anche se questo portò in definitiva alla sua dissoluzione.

   L'VIII congresso (riportiamo [qui] la relazione introduttiva di Togliatti) e la polemica col Partito comunista cinese [1] furono i punti salienti della discussione che iniziò subito dopo il XX Congresso del PCUS, rispetto al quale Togliatti e il PCI presero le posizioni ben note.

   Essi concordarono innanzitutto sul giudizio su Stalin e quello che fu definito 'stalinismo' e 'culto della personalità', ma su questo si andò ben oltre, perchè Togliatti con la nota intervista a Nuovi Argomenti [2] introdusse il concetto di una necessaria democratizzazione delle strutture dello Stato dei Soviet portando di fatto l'interpretazione occidentale dentro gli avvenimenti del '56. Prescindendo dunque dal reale significato controrivoluzionario della svolta kruscioviana e dal modo in cui i problemi erano stati posti, il Togliatti dell'VIII congresso si infila in un tunnel dal quale il PCI non sarebbe più uscito che con la propria dissoluzione, avendo accettato il binomio antistalinismo-democrazia.

   Lo scontro che si era aperto nel movimento comunista dopo il XX congresso, seppure di una gravità estrema, non dava però ancora il senso di una modifica epocale della situazione e nessuno in quel momento poteva prevedere fatti come la rivoluzione culturale in Cina e la liquidazione dell'URSS e dei regimi socialisti dell'est Europa. Si rimaneva legati comunque alla difesa del campo socialista, di fronte anche a fatti come la controrivoluzione ungherese. Ma questo non poteva certamente bastare per consolidare una posizione strategica ormai compromessa.

   Sicchè nel proseguo degli avvenimenti, fino alla caduta del muro di Berlino e alla dissoluzione dell'URSS, il PCI continua a navigare nella tempesta con l'illusione che la cosiddetta via italiana al socialismo potesse essere un porto di approdo sicuro.

   Ma che cos'era questa via pacifica al socialismo che, assieme al concetto di coesistenza pacifica, era il postulato del XX congresso? Era una prospettiva concretamente definita o un modo per affermare il comunismo 'buono' contro l'interpretazione rivoluzionaria delle trasformazioni sociali?

   L'VIII congresso del PCI non sciolse questo nodo perchè la relazione di Togliatti, accanto ad affermazioni come quelle che seguono, non collegava la prospettiva con i mutamenti intercorsi nei paesi socialisti e nel movimento comunista internazionale.

   In questo modo obiettivamente si disarmava il partito di fronte a ciò che negli anni successivi sarebbe successo. Il nucleo del ragionamento di Togliatti rimaneva quello definito dal dopoguerra in poi.

   "Le obiezioni che si sentono fare - continua a sostenere Togliatti - sono che noi con questa azione tenderemmo a riformare, e non a distruggere il capitalismo e, d'altra parte, che si sono già avute riforme di struttura, certe nazionalizzazioni per esempio, senza che nei paesi che le hanno attuate si sia progredito verso il socialismo. La prima obiezione non regge, perchè, se fosse valida, dovrebbe esserlo anche contro qualsiasi altra rivendicazione, sia economica, sia politica, che non sia di un puro aumento di salario. La seconda, invece, pone tutta la questione della lotta che deve condursi, nelle condizioni presenti, da parte della classe operaia e delle masse popolari, guidate dai loro partiti, per affermarsi come fattore dominante della politica e della economia nazionali. Da sola, una nazionalizzazione può non significare grande cosa. Fatta in certi modi, può persino dare vantaggi a certi gruppi capitalistici, o a gruppi politici non progressivi. Ma le cose cambiano quando questa o altre misure di lotta contro il grande capitale monopolistico siano parte integrante di un'azione continua, di una lotta incessante, che venga condotta con decisione, da grandi organizzazioni politiche di massa, con l'appoggio di una parte notevole dell'opinione pubblica, per imporre, pur nelle condizioni attuali, una politica economica che sia a favore dei lavoratori e del ceto medio, che impegni il governo stesso, attraverso il parlamento, alla azione antimonopoli­stica". E più avanti Togliatti aggiunge: "Le questioni delle libertà, della democrazia del parlamentarismo e del socialismo sono quindi sempre poste, da noi, in relazione con il modo come si svolgono i contrasti di classe, con la lotta che viene condotta dalla classe operaia e dalle forze popolari che essa riesce a guidare, con i successi di questa lotta contro le classi dirigenti capitalistiche. Qui sta il più profondo punto di divergenza tra la nostra concezione che è rivoluzionaria, e la concezione riformistica, propria della socialdemocrazia".

   I fatti hanno dimostrato però che di fronte alla durezza e alla drammaticità di uno scontro di cui peraltro allora, nel 1956, non si avvertiva neppure la portata, il PCI, per sfuggire ad una crisi di identità si scopriva ancora diverso sperando con questo che la borghesia e l'imperialismo potessero tollerare la sua 'diversità'. Questa diversità non fu tollerata, i nemici del socialismo, dopo il crollo dell'URSS e del muro di Berlino, esigevano la resa senza condizioni.

   L'unico effetto che questa diversità comportò fu di accelerare i processi di trasformazione genetica del partito spingendo i suoi quadri e i suoi militanti ad assorbire una cultura, per più di trenta anni, che al momento della prova della verità, quello della Bolognina di Occhetto, non gli permise di reagire se non con la caricatura della Rifondazione comunista.

   Se questo è il senso generale, la chiave interpretativa degli avvenimenti, si tratta però di fare alcune precisazioni non di secondo piano per evitare quegli appiattimenti a cui ci ha abituati certa letteratura 'antirevisionista'.

   In primo luogo, e a scanso di equivoci, a questo punto della narrazione si tratta di chiarire bene che la trasformazione genetica non coinvolge, a nostro parere, il giudizio sul PCI rispetto alla sua storia precedente al '56. Se il partito comunista difatti è stato un grande partito dei lavoratori italiani ciò non è avvenuto malgrado la linea seguita fino a quella data, ma grazie a quella linea. Ai critici del togliattismo sfugge difatti il particolare che un partito di milioni di iscritti e di elettori, rimasto sempre sotto il tiro dell'avversario di classe (per ragioni interne e internazionali), non poteva che essere un partito di massa e di classe che svolgeva un ruolo di trasformazione sociale e che le scelte fino al 1956 non potevano essere associate a ciò che avvenne dopo.

   La crisi del PCI nasce difatti dalla via imboccata dopo il XX congresso del PCUS da parte del movimento comunista internazionale che minava ovviamente anche le prospettive future del partito comunista italiano a meno che questo partito non fosse stato in grado di capire fino in fondo ciò che stava avvenendo e di attrezzarsi di conseguenza. Ma un partito legato alla realtà italiana, delle dimensioni del PCI, non ha avuto e probabilmente non poteva avere né la forza né la capacità teorica di fare un passaggio di questo tipo il quale non poteva che essere un passaggio internazionale del movimento comunista, come quello relativo alla II guerra mondiale, e che non poteva nemmeno essere del tipo di quello proposto dai comunisti cinesi. Si può immaginare un partito come il PCI che scendeva in piazza coi libretti rossi? Che effetto avrebbe avuto nei suoi strati sociali di riferimento una scelta di quel tipo? Per cui la via percorsa fino a quel momento diventò, a nostro parere, un vincolo oggettivo anche di elaborazione teorica dal quale i suoi dirigenti a partire da Togliatti hanno la responsabilità di non aver saputo e voluto distaccarsi.

   Ma non bastava il riferimento al marxismo leninismo, faro e guida di ogni partito comunista, a risolvere le contraddizioni che si erano aperte? Più di uno ha provato a ragionare in questo modo, ma ci ha sbattuto la testa, come dimostrano le caricature di quelli che noi definiamo livornisti, quelli dei pellegrinaggi alla città dove il PCI fu fondato. Un partito comunista è e deve essere la guida di un processo reale di liberazione e questo processo ha i suoi tempi e le sue forme di espressione politica anche se questo avviene in un quadro generale. Se le due cose entrano in contraddizione avviene ciò che è avvenuto al PCI.

Note

[1] Su questo punto rimandiamo a quanto da noi scritto in premessa [qui] al famoso scritto attribuibile a Mao "Le divergenze tra il compagno Togliatti e noi", pubblicato nel fascicolo n. 2 della serie "La controrivoluzione in URSS e il movimento comunista internazionale", [qui] l'intero fascicolo.

[2] Parte dell'intervista è stata da noi ripresa [qui] col titolo "Criticare Stalin non basta" nel fascicolo "La via occidentale al socialismo", primo della serie "La divisione del movimento comunista internazionale: le spinte oggettive"; [qui] l'intero fascicolo.