Da "Enrico Berlinguer", Edizioni l'Unità, 1985, pp. 95-107.
[Gli incontri] furono tre: il primo alla vigilia di Natale del '71, l'ultimo un mese prima del rapimento. Ma lo scambio di opinioni e di giudizi politici era continuo ed i colloqui vennero preparati minuziosamente. L'elezione di Leone e un'offerta che il leader dc non potè accettare. La «solidarietà nazionale» e le difficoltà nella Democrazia cristiana. Quando il presidente dello scudocrociato annunciò che sarebbe sceso in campo di persona.
Gli incontri diretti e personali di Berlinguer con Moro sono stati tre: 24 dicembre 1971, 5 gennaio 1978, 16 febbraio 1978. Tutti e tre gli incontri, sui quali si è costruito e sviluppato un rapporto che ha inciso sulla vita politica italiana, sono avvenuti in casa del consigliere di Stato Tullio Ancora, amico personale di Moro, e hanno avuto come testimoni lo stesso dottor Ancora e chi scrive queste note (i primi appunti li avevo cominciati a stendere, d'accordo con Enrico, un mese prima della sua morte e poi li avevo abbandonati). Sui due testimoni è anche ricaduto il compito di tenere i rapporti tra Berlinguer e Moro - rapporti fatti ora di brevi messaggi di cortesia, ora di riflessioni e annotazioni sul quadro politico - negli intervalli tra i colloqui personali diretti: sei anni tra il primo e il secondo colloquio, interrotti tuttavia, sia da incontri ufficiali, alcuni dei quali di un certo rilievo, sia da contatti alla Commissione esteri della Camera, sia, appunto, da uno scambio di messaggi, abbastanza assiduo in taluni periodi.
Uno degli incontri ufficiali - nel marzo del 1976 - segnò una grande novità e vale la pena di ricordarlo subito: per la prima volta infatti, dopo la rottura del 1947, Aldo Moro, nella sua veste di presidente del Consiglio, invitò a palazzo Chigi il segretario del Pci per consultarlo su provvedimenti economici ancora da adottare. Erano giorni drammatici in cui le riserve valutarie della Banca d'Italia erano scese ad un minimo storico e, di fronte all'emergenza, il Psi e il Pri (in particolare La Malfa) suggerirono a Moro di consultare formalmente il maggior partito d'opposizione. Di fatto Ugo La Malfa, a partire dal 1975, aveva spesso, per suo conto, proceduto a questo tipo di consultazione, nella sua qualità di vicepresidente del Consiglio e coordinatore della politica economica. E non era mancato chi aveva detto che proprio questa consuetudine di consultare i comunisti, introdotta da La Malfa, aveva finito con l'irritare il Psi - che fino ad allora era considerato un tramite fra governo e noi - e aveva contribuito a indurre De Martino a scrivere la famosa lettera del 31 dicembre 1975 che pose fine al governo bicolore Moro-La Malfa aprendo la strada al breve monocolore Moro «con tecnici». Con Ugo La Malfa, tuttavia, si era sempre trattato di incontri ufficiosi. Questa volta, nel marzo 1976, l'incontro fu diverso ed ebbe anche una sua solennità formale (il punto di vista della Banca d'Italia fu illustrato da Ossola). Se esso assunse un valore emblematico e fornì, già prima delle elezioni del '76, il segnale di un mutamento profondo in corso, non andò tuttavia, nella sostanza, al di là di uno scambio di idee su misure congiunturali di emergenza che il Pci si impegnò a non ostacolare, pur rilevandone i limiti.
I tre incontri personali di cui qui per la prima volta si parla (del terzo, quello del 16 febbraio '78, ha dato notizia anche Andreotti nel suo recente libro «Visti da vicino»), anche se toccarono a volte questioni congiunturali e specifiche, ebbero invece tutti un solo tema di grande portata e respiro: come uscire dalla difficile crisi morale, politica ed economica cui l'Italia era giunta.
Prima di dire di essi (e di un quarto colloquio, del 24 novembre 1977, cui Berlinguer non partecipò, ma di cui egli fu attento regista) è opportuno forse spiegare perché Ancora e Barca furono i testimoni di tutti gli incontri e i «canali» del lungo e ininterrotto dialogo a distanza.
Il dottor Ancora non aveva alcun ruolo nella Dc. Ma credo che fu scelto da Moro proprio per questo, oltre che, ovviamente, per la piena fiducia che l'ex allievo godeva dal suo professore di diritto. Non si dimentichi che Moro aveva iniziato nel 1968 quella che fu chiamata la «traversata del deserto». Nel Consiglio nazionale della Dc, novembre 1968, Moro aveva rotto con la sua vecchia maggioranza ed aveva scelto una «collocazione autonoma». Tra le motivazioni di questa collocazione - che lo avevano portato ad un certo isolamento - ce n'era una che anticipò tutto il suo atteggiamento successivo e che vale la pena di ricordare testualmente perché è su di essa che si incardinò, poi, il rapporto con Berlinguer, quando questi divenne, nel 1969, vicesegretario del Partito comunista italiano: «L'esito delle elezioni che ha in parte convogliato nelle file comuniste le forze della protesta e del radicale rinnovamento, aggiunge attualità ad un rapporto dialettico che è un doveroso atto di coraggio della coalizione e strumento essenziale del suo affermarsi in un impegnativo confronto con il Partito comunista in ordine ai problemi vitali della nostra società, tenendo conto delle attitudini di ciascuna forza politica a darne soluzioni nuove e valide». Di questa posizione personale ed autonoma di Moro il dottor Ancora divenne, fuori di ogni gioco di corrente, attento interprete e intelligente, riservato, amichevole ambasciatore.
Ci si può chiedere perché questo ruolo non fu mai affidato a coloro che furono e apparivano i principi collaboratori di Moro: Sereno Freato, Nicola Rana, Corrado Guerzoni. Non so spiegarlo e non voglio mescolare supposizioni alla cronaca dei fatti. Quello che so è che in tanti anni di contatti con Moro io ho visto Sereno Freato una sola volta: recatomi, nel corso del 1975, a palazzo Chigi per incontrare il presidente del Consiglio fui raggiunto dal dott. Freato il quale mi comunicò che Moro si era sentito male ma desiderava lo stesso vedermi e mi pregava di attendere. Ci furono, per quanto mi risulta, ripetuti tentativi dei collaboratori di Moro di sostituirsi al dottor Ancora, ma furono tutti ignorati o esplicitamente respinti da Moro. Tullio Ancora fu dunque l'unico ambasciatore fino al giorno in cui, successivamente al 24 marzo 1978 (giorno in cui Berlinguer, dopo il rapimento dello statista, ebbe un cordiale incontro con la signora Moro, che lo scongiurò di fare molta attenzione alla sua sicurezza) i collaboratori di Aldo Moro, prigioniero delle brigate rosse, comunicarono al Pci che i contatti con la famiglia Moro dovevano passare solo per il loro tramite con esclusione del dottor Ancora. Lo stesso invito fu fatto direttamente a Tullio Ancora, che fu tuttavia chiamato dalla famiglia Moro il 29 aprile per ricevere una lettera di Moro a lui indirizzata con preghiera di illustrarne il contenuto a Enrico Berlinguer (vedi esposizione di E. Berlinguer alla Commissione di inchiesta sulla vicenda Moro in data 9 settembre 1980).
Quanto al mio ruolo di ambasciatore è sufficiente dire che esso cominciò quasi per caso, nel marzo 1968, quando ebbi l'incarico dalla presidenza del gruppo del Pci della Camera (ero allora vicepresidente e in tale veste avevo contatti con il governo) di cercare di ottenere la revoca del mandato di cattura per alcuni giovani universitari coinvolti nei fatti di Valle Giulia e nei successivi scontri con la polizia. Dopo essermi inutilmente rivolto ad alcuni ministri, mi rivolsi all'on. Moro, allora presidente del Consiglio, e ottenni quanto richiesto dopo che riuscii a convincere i dirigenti del movimento a dare alcune garanzie. Da quel giorno scoprii un Moro in parte diverso da quello conosciuto nell'aula di Montecitorio e ne nacque un rapporto cordiale, facilitato dall'amicizia che si sviluppò con il dottor Ancora. È bene ricordare che Moro seguì con particolare attenzione i fatti del 1968; ebbe incontri (di cui volle tenermi informato) con dirigenti dei movimenti giovanili parlamentari ed extraparlamentari e tutto ciò influì certamente sulla sua decisione di collocarsi all'opposizione dentro la Dc. Berlinguer ebbe la stessa attenzione per quei fatti; ne ricavò giudizi convergenti con quelli di Moro sulla «democrazia difficile» e sulla necessità di non ignorare le attese e le indicazioni che dal '68 venivano, quasi a testimonianza di un passaggio di fase strutturale, e quando nel 1969 divenne vicesegretario del Pci cominciò a vedere in Moro un possibile interlocutore. Dovevano tuttavia passare due anni prima che avvenisse un incontro diretto tra i due uomini.
In quei due anni una nuova comune preoccupazione aveva intanto indotto Berlinguer e Moro a iniziare un dialogo a distanza: il timore che la legge sul divorzio dividesse l'Italia in due - laici e cattolici - nel momento in cui altri gravi motivi di divisione di natura internazionale (Vietnam) e interna (l'affiorare minaccioso della violenza armata; l'aggravarsi della crisi economica) andavano attaccando le basi della convivenza democratica.
Nel marzo del 1970 Moro aveva ricevuto un incarico esplorativo per formare il governo. Appena ricevuto l'incarico aveva inviato un promemoria riservato alla Santa Sede per esplorare la possibilità di superare, con un accordo cui la Dc partecipasse, lo scoglio del divorzio. La mancata risposta del Vaticano aveva contribuito in modo determinante a far desistere Moro dal tentativo. La legge sul divorzio fu approvata il 1 dicembre 1970, senza e contro la Dc, e cominciò a mettersi in moto la macchina del referendum abrogativo.
Berlinguer temeva che il referendum ricreasse steccati religiosi e ideologici. Moro aveva la stessa preoccupazione. Anche da questo comune timore prese avvio, per iniziativa di Berlinguer, la ricerca di una soluzione positiva che senza nulla togliere alla grande conquista civile conseguita, consentisse in qualche modo di sanare il «vulnus» che il Vaticano riteneva fosse stato unilateralmente portato agli accordi concordatari.
La posizione di Moro era decisamente a favore della ricerca di un accordo. Ma la sua posizione personale era difficile: egli era - fece osservare - solo un membro di diritto della direzione della Dc e non intendeva, per correttezza, sovrapporsi o scavalcare gli organi del suo partito. Non si sottrasse tuttavia al difficile compito di individuare e preparare un possibile terreno di trattativa, informandone per correttezza il presidente del Consiglio, Emilio Colombo (Moro era allora ministro degli Esteri). Fu così che per la prima volta esponenti comunisti furono invitati al ricevimento dell'11 febbraio all'ambasciata italiana presso la Santa Sede. Attraverso varie vie vennero effettuati sondaggi con monsignor Benelli e con Paolo VI. È sulla base di questo lavoro preparatorio direttamente e indirettamente ispirato da Moro, e che da parte comunista vide in particolare impegnati Berlinguer, Bufalini e Natta (il dottor Ancora dette un suo specifico contributo anche giuridico, tenendo i contatti non solo con me ma anche con esponenti di altri partiti), che prese poi corpo la trattativa difficile dei partiti (comitato Bozzi) per una modifica alla legge sul divorzio. Le oscillazioni del Vaticano e quelle personali del segretario della Dc Forlani, ne impedirono la positiva conclusione nonostante la «larga concordanza di valutazioni» (comunicato del 15/11/1971) raggiunta da tutti i partiti divorzisti e taluni incoraggiamenti venuti dal Vaticano.
Mentre la trattativa sul divorzio proseguiva, andava intanto montando sulla stampa la campagna di previsioni e pressioni relativa alla elezione del Presidente della repubblica, prevista per dicembre. La campagna indicava due possibili candidati: Fanfani e Moro e attribuiva ai comunisti la decisione di votare Moro.
In realtà la direzione del Pci non aveva mai preso una simile decisione. Gli unici contatti erano stati presi con il Psi e con il Psiup per cercare di concordare una posizione comune della sinistra. Preoccupato che la ben orchestrata campagna di stampa creasse equivoci, Berlinguer, che pure riteneva Moro l'unico candidato democristiano eventualmente votabile, alla fine del mese di ottobre del 1971, mi chiese di incontrare Moro e di esporre con chiarezza la posizione del Pci: «Nel momento attuale nessuna decisione e nessun impegno da parte nostra verso partiti e nomi».
Ecco testualmente la bozza di argomenti o «scaletta» concordata in ogni parola con Berlinguer e che fu sviluppata nel colloquio con Moro:
«1) Errore fare oggi del problema della presidenza il problema preminente rispetto a tutti gli altri e l'unico punto di riferimento nell'orientare scelte. Nostra posizione: intervista Berlinguer. Nel momento attuale nessuna decisione e nessun impegno da parte nostra verso partiti e nomi.
2) Giudizio su situazione politica: situazione seria, grave. Non si può andare avanti così. Contraddizioni acute sul terreno sociale e sul terreno economico. I problemi che contraddizioni aprono non risolvibili su linea di "stabilizzazione" e di "statica composizione" dei dissensi interni agli schieramenti e ai partiti. Risolvibili solo da processo, da linea di movimento che modifichi strutture, formule politiche, stessi partiti. Ogni tentativo di "stabilizzazione" fuori di uno sviluppo democratico, di uno spostamento a sinistra sia pure per gradi, aggrava nel medio periodo contraddizioni e rischi. Occorre affrontare con decisione riforme e svolta politica: quadripartito va superato. Orientamento della Dc, sua piattaforma, definizione di una sua maggioranza sono elementi importanti del processo. In ogni caso al centro di ogni scelta e decisione deve essere la valutazione della situazione politica: ciò che essa è e la direzione in cui si pensa che debba e possa evolvere.
3) Per valutare meglio questione concreta:
- - si ritiene possibile continuare il quadripartito?
- - in nome di quale politica ci si intende muovere? Riforme?
- - Quale valutazione della Dc? Esiste una maggioranza per linea di movimento? Quali ripercussioni su unità della Dc di tentativi di "stabilizzazione" o, di contro, della scelta di una linea di movimento?»
Ho riportato integralmente la «scaletta» perché il punto 2 e il punto 3 di essa furono i punti politici ripresi poi da Berlinguer nel primo rapporto diretto con Moro, quello che avvenne il pomeriggio del 24 dicembre 1971 nella casa di Tullio Ancora, in via Ghirza.
Il momento in cui il colloquio avvenne era particolarmente teso e drammatico. Per giorni e giorni si erano fronteggiati nel Parlamento riunito per l'elezione del Presidente della repubblica due schieramenti: quello delle sinistre attorno al nome di De Martino (il primo dicembre 1971 Luigi Longo, dopo un incontro con una delegazione del Psi, aveva dichiarato: «Abbiamo espresso la nostra adesione alla proposta di una candidatura socialista per la presidenza della repubblica») e quello democristiano attorno al nome di Fanfani. Constatata l'impossibilità per Fanfani di raggiungere il quorum la Dc - al fine di evitare convergenze su altro candidato o l'affiorare di «candidature d'aula» - aveva deciso di astenersi dal voto (per quattordici volte i democristiani si astennero, umiliando se stessi e il Parlamento). Nel tentativo di sbloccare la situazione una delegazione del Pci, guidata da Berlinguer, aveva incontrato una delegazione della Dc guidata da Forlani. Ecco la dichiarazione di Berlinguer al termine dell'incontro (18 dicembre 1971): «Abbiamo ripetuto alla delegazione della Dc che siamo pronti a superare l'attuale contrapposizione. A tal fine è necessario lasciare da parte i discorsi generici e venire a proposte e indicazioni concrete. Per questo abbiamo chiesto, in primo luogo alla Dc di esprimere le sue valutazioni su una nuova candidatura socialista. A questa stessa esigenza di concretezza noi ci siamo ispirati anche per ciò che riguarda l'ipotesi di una nuova candidatura democristiana».
A questo incontro erano seguiti contatti diretti di Berlinguer con esponenti dei vari partiti e tra essi con Forlani. Forlani insisteva per avere dal Pci una rosa di nomi: Berlinguer, al punto in cui erano giunte le cose, insisteva, d'accordo con De Martino (il Psiup aveva già avanzato negli incontri le candidature di Moro e Zac-cagnini) per discutere ormai un solo nome.
Il 21 dicembre, vista l'impossibilità di sbloccare la situazione, De Martino aveva rinunciato alla candidatura con una nobile lettera in cui auspicava un accordo «in virtù del quale il Presidente eletto possa realizzare il momento unitario nella garanzia dei vari interessi che si scontrano nella realtà italiana». Subito dopo le sinistre avevano fatto conoscere a Forlani la disponibilità a votare Aldo Moro.
Il 22 a tarda sera Forlani convocò a Montecitorio i gruppi parlamentari dc e fu discussa una rosa di nomi tra cui quello di Moro. Quando in un clima di contrasti - nel quale era chiara tuttavia la prevalenza di questa candidatura su quella di Leone - Forlani e An-dreotti tolsero la seduta e rinviarono il voto all'indomani risultò chiaro che Forlani non voleva a nessun costo Moro presidente. Fu quando alcuni giornalisti portarono questa notizia a Berlinguer, rimasto a passeggiare fino a notte sulla piazza di Montecitorio, che si concordò di incontrare Moro. L'incontro fu fissato per il 24, subito dopo le decisioni che la Dc avrebbe assunto e, di fatto, dopo le prime votazioni negative sul nuovo candidato.
Quando arrivammo in via Ghirza, Moro era già in casa del suo amico. Il primo impatto non fu particolarmente facile. Berlinguer e Moro avevano in comune la timidezza e la estrema riservatezza. E avevano anche in comune la consapevolezza e la fierezza di rappresentare due grandi forze (nell'unico appunto che ho conservato di quella riunione è scritto: «Sembrava l'incontro di due capi di Stato»). Berlinguer confermò a Moro la dichiarata disponibilità del Pci a votare il suo nome e Moro fece un lieve inchino allargando le braccia in segno di ringraziamento. Poi espresse il dubbio che ormai fosse troppo tardi per modificare il corso delle cose, mentre Berlinguer si dichiarò leggermente più ottimista.
Poi Berlinguer riprese i temi del messaggio che aveva inviato a Moro nell'ottobre. La presidenza della repubblica era importante ma non era tutto. Ciò che occorreva era uscire dalla stagnazione e affrontare, attraverso la ricerca di convergenze, alcune tra le grandi questioni aperte. Il termine «compromesso storico» non fu mai usato. Berlinguer, che ha sempre posto estrema cura affinché le parole dette in privato corrispondessero a quelle dette in pubblico (e anche questo lo accomunava a Moro) parlò in quella occasione di «alternativa democratica», negli stessi termini in cui ne aveva parlato al Comitato centrale del novembre precedente («La costruzione di una alternativa democratica, la lotta per la formazione di una nuova maggioranza passano attraverso un mutamento profondo della linea attuale e degli equilibri interni della Dc»).
Moro espresse il suo rispetto e la sua attenzione per la politica che il Pci andava seguendo, ribadì la sua convinzione di non ritenere possibile un governo in cui sedessero insieme Pci e Dc, ma convenne sull'esigenza di operare per determinare convergenze su alcune grandi questioni. E disse quello che poi avrebbe più volte ripetuto in pubblici discorsi: la società è andata radicalmente cambiando, guai a perdere gli strumenti per guidare questo movimento storico. Per questo le spinte innovatrici che venivano dal Pci non potevano essere ignorate. Su un punto Moro fu fermo, sia a proposito dell'elezione del Presidente della repubblica sia a proposito del futuro. Certamente c'era stato nella Dc un processo di appiattimento ma era tutta la Dc unita che doveva superarlo. Egli non sarebbe stato mai l'uomo della rottura. Essa avrebbe giovato solo alla destra e indebolito la democrazia. Indubbiamente la Dc poteva, tuttavia, essere molte cose diverse.
Berlinguer pose due temi che gli erano a cuore: la questione della guerra nel Vietnam e la questione del divorzio. Ma non ci fu un approfondimento specifico su di essi; solo l'accordo di tenersi a contatto per seguirli, come poi avvenne.
Il colloquio registrò un solo momento di confidenza. Quando fu posta - non ricordo da chi - la questione se fosse meglio un governo monocolore o un governo di coalizione. Moro si dichiarò assolutamente contrario ai governi monocolore e accennò a episodi di consigli dei ministri trasformati in realtà in riunioni di capicorrente dc o delegati di capicorrente.
L'incontro si concluse con gli auguri di Berlinguer a Moro per il Quirinale. Ma quando tornammo a Montecitorio per la votazione serale Leone riuscì a superare il quorum.
Il colloquio non era dunque riuscito a modificare il corso delle cose: aveva posto tuttavia le basi di un rapporto che continuò fino alla notte che precedette il rapimento di Aldo Moro.
Quando Berlinguer e Moro tornarono ad incontrarsi il quadro politico era profondamente mutato. C'era stata la vittoria del referendum sul divorzio e il 1974 aveva visto la fine dell'isolamento di Moro. La «traversata del deserto» si era conclusa e il 23 dicembre 1974 Moro era tornato alla presidenza di un governo Dc-Pri con vicepresidente La Malfa. Nel discorso programmatico Moro si era pronunciato per un «confronto dai limpidi contorni» con il Pci e il confronto, anche grazie a La Malfa, fu particolarmente aperto sui problemi economici. La Dc scontava intanto il contraccolpo della sconfitta del referendum. Nel '75 una nuova maggioranza aveva vinto il congresso e Zaccagnini era divenuto segretario. Poi era venuta la lettera di De Martino del 31 dicembre 1975, la crisi e il governo monocolore (quinto governo Moro), conclusosi con lo scioglimento delle Camere (3 maggio 1976) e le elezioni anticipate.
Su tutto questo periodo solo alcune lievi annotazioni sui rapporti tra Berlinguer e Moro, entrambi attenti all'estremo a non sostituire mai o a mettere in ombra i rapporti normali e istituzionali a livello parlamentare. Berlinguer e Moro si incontrarono più volte a livello ufficiale: particolarmente rilevante, oltre al citato incontro del marzo 76, l'incontro del 5 maggio 1977 tra una delegazione del Pci e una delegazione della Dc nell'ambito dei tentativi volti a ricercare un accordo programmatico.
Oltre ai temi economici uno dei temi ricorrenti del dialogo a distanza fu quello della guerra nel Vietnam (uno degli incontri a tale proposito con Moro lo ebbi insieme a Riccardo Lombardi). Altri temi furono quelli del terrorismo e dell'aborto. Sul terrorismo non si andò al di là di qualche scambio di pareri e di riflessioni, in particolare in occasione del rapimento Sossi e dell'uccisione del procuratore Coco. Berlinguer e Moro sostanzialmente concordavano oltre che sull'esigenza di adeguate misure, sulla necessità di estendere la mobilitazione democratica popolare e approfondire l'indagine politica relativa agli scopi e ai fini eversivi delle organizzazioni terroristiche. Sull'aborto Moro prese una posizione diversa da quella assunta sul divorzio. In coscienza - fece sapere - non si sentiva di operare per mediazioni. Fece tuttavia conoscere il suo apprezzamento per la posizione assunta dal Pci (intervista di Bufalini all'Unità del 7 dicembre 1975 che riconosceva l'aborto come «una necessità brutta e dolorosa») e fu estremamente preoccupato quando di nuovo la Dc prima, in aula con Piccoli, e la Chiesa poi, con il comitato per il referendum, scelsero la via dello scontro frontale.
Il giudizio di Berlinguer e di Moro tornò a coincidere nel giugno del '76 sul risultato elettorale: qualcosa era cambiato profondamente e bisognava tenerne conto. E per tenerne conto Berlinguer e la direzione del Pci posero apertamente il problema dell'ingresso del Pci nel governo. Andreotti dà testimonianza a tale proposito di un colloquio con Moro del 7 luglio '76 (Diari 1976-1979): «Moro mi ha parlato oggi con una apertura che dopo i tempi della Fuci non avevamo mai più avuto tra noi... E indispensabile - ritiene Moro - coinvolgere in qualche maniera i comunisti... e questo momento deve essere gestito da uno come me che non susciti interpretazioni equivoche all'interno e all'esterno». Ma la Dc, tutta la Dc, resiste ad ogni ipotesi di maggioranza parlamentare con i comunisti.
Nasce così, con Andreotti, il governo della non sfiducia di comunisti e socialisti. Moro, dopo averlo preparato, si ritrae dall'intervenire e dall'in-terferire. I contatti con Berlinguer si fanno più radi. In risposta ad un mio biglietto d'auguri (Aldo Moro era stato nominato nell'ottobre '76 presidente del Consiglio nazionale della Dc) scrive: «Il compito che mi è stato assegnato non è in senso proprio operativo. Non mancherò però di dare ogni possibile contributo per la soluzione della grave crisi nella quale ci troviamo».
Per oltre un anno prevale tuttavia la «non operatività» anche quando il Psi, d'accordo con il Pci, prende l'iniziativa (febbraio '77) di incontri tra i partiti della «non sfiducia» per un confronto politico e programmatico al fine di superare una situazione che si va facendo sempre più difficile anche per il montare della violenza (il 7 febbraio '77 Lama è aggredito all'Università; il 12 maggio ci sarà a Roma una delle più violente manifestazioni di «autonomi»). All'iniziativa del Psi segue l'iniziativa della Dc di aprire una vera trattativa programmatica.
L'avvio non è facile. Esso coincide infatti con la messa in stato di accusa davanti al Parlamento di Mario Tanassi e Luigi Gui. Moro fa sapere a Berlinguer che difenderà personalmente Gui della cui probità è certo. Berlinguer risponde che il Pci non vuole assolutamente condannare a priori Luigi Gui ma che esige, per la stessa difesa della democrazia minacciata, che piena luce sia fatta: per questo si batterà per il rinvio a giudizio. Lo scontro aperto ed il ruolo che Moro assumerà in difesa di tutta la Dc non facilitano il rapporto tra Berlinguer e Moro, ma neppure l'interrompono.
Il terrorismo armato è subentrato alla violenza e sia Berlinguer che Moro ne intendono il pericolo e la portata.
A livello di governo, nonostante alcuni risultati positivi (avvio di un certo risanamento finanziario, riforma dei servizi di sicurezza, inizio della riforma sanitaria) le cose non vanno bene: la crisi incombe ancora sul Paese in tutta la sua gravità e la classe operaia ne paga il prezzo.
È in questo quadro che va avanti faticosamente la trattativa programmatica a sei. La posizione del Pci è chiara ed è stata fatta conoscere sia ad Andreotti che a Moro: «Bisogna assolutamente evitare lunghi elenchi di cose da fare. L'esperienza dei governi di centro-sinistra non deve essere ripetuta». L'opinione personale di Berlinguer è che si debbono adottare talune misure per venire incontro agli strati più poveri (un suo biglietto chiede di esaminare la possibilità di adottare prezzi politici per alcuni prodotti di largo consumo e per i quali sono già in atto misure di sostegno: pane, pasta, latte) e che si debba invece concentrare la trattativa su pochi grandi problemi creando nel Paese un clima politico nuovo. Ma, partita bene, la trattativa programmatica si sminuzza in comitati e sottocomitati gestiti da specialisti che producono in taluni casi proposte anche interessanti, ma che concorrono tutte a formare un lungo elenco che non delinea una strategia e non accenderà alcuna speranza. In essa vengono anche coinvolti sempre più, a livello di governo, i sindacati: spinte pansindacaliste e tentativi abili di corresponsabilizzazioni si sposano.
Il 24 giugno 1977 l'accordo programmatico è comunque ratificato senza entusiasmo dalla riunione plenaria dei sei partiti dell'arco costituzionale: Berlinguer è presente come segretario, Luigi Longo e Moro come presidenti. La mozione che recepisce l'accordo è approvata in Parlamento il 12 luglio 1977.
Un fatto nuovo interviene nell'ottobre 1977: parlando a Mosca al congresso del Pcus Berlinguer respinge apertamente ogni ipotesi di partito guida. L'affermazione è per noi ovvia, ma anche per la sede in cui è fatta suscita anche eco. Moro esprime in privato il suo interesse e il suo apprezzamento. La Malfa afferma pubblicamente che è ormai impossibile contestare il diritto del Pci ad entrare a far parte della maggioranza. Il 18 novembre 1977 Moro raccoglie anche lui pubblicamente in un discorso a Benevento, uno dei più alti e impegnati sulla nuova fase che si è aperta, il tema proposto da La Malfa (mentre l'ambasciatore Gardner sollecita una immediata presa di posizione di Washington contro l'ingresso dei comunisti al governo).
In questo quadro il 20 novembre 1977, dopo aver esitato a lungo se vedere o no direttamente Moro (le esitazioni erano anche di natura formale per evitare di compiere un atto di scortesia verso Andreotti e verso il segretario della Dc) Berlinguer incarica Paolo Bufalini e me di vedere Moro e di esporgli il profondo disagio del Pci per una situazione ambigua che rischia di deteriorarsi nella routine parlamentare. Un grande partito come il Pci non può appoggiare a lungo un governo senza essere in grado di esercitare un controllo diretto sulla gestione e se la «pari dignità», il pari diritto di accedere al governo non sono apertamente riconosciuti. Questo è il nodo storico da sciogliere e la soluzione anziché avvicinarsi sembra allontanarsi e corrompersi. Berlinguer preavverte Moro che è intenzione della segreteria comunista convocare la direzione e porre all'ordine del giorno la questione: appare ormai necessario affrettare i tempi di un governo di unità e solidarietà democratica con la partecipazione diretta di entrambi i partiti della sinistra.
L'incontro con Moro, per portargli questa comunicazione, avviene il 24 novembre 1977 alle ore tredici in via Savoia, nell'ufficio privato di Moro. La data è importante perché fa giustizia di un luogo comune, più volte usato, per attaccare Berlinguer: l'essersi egli risvegliato alla realtà solo dopo la manifestazione del 2 dicembre dei metalmeccanici. I fatti stanno all'opposto: la manifestazione operò oggettivamente a sostegno di una posizione del Pci già presa e comunicata a Moro (e, come vedremo, ad Andreotti). Nel colloquio Bufalini sottolinea l'assurdità di una situazione nella quale la Dc si oppone a dare sbocchi unitari perfino a soluzioni regionali già mature da tempo ed esprime il timore che taluni dei nuovi referendum che incombono possano avere un effetto lacerante.
Moro (era ancora una volta presente il dottor Ancora, che cortesemente era venuto a prenderci a Botteghe Oscure) ascolta con serenità il messaggio di Berlinguer. Appena ricevuta, in modi più formali del solito, la richiesta del colloquio si era immediatamente reso conto, ci confida, di che cosa si trattava e per questo si era preso quarantott'ore per riflettere. La sua analisi non differisce sostanzialmente dalla nostra. Per molti aspetti (situazione all'Università, processo di Catanzaro, stato della magistratura, mancanza di iniziative in politica estera) egli è severo quanto noi. Ma valorizza anche i risultati conseguiti grazie all'atteggiamento del Pci: l'inflazione ha già rallentato il suo corso, la tendenza all'aumento del tasso di disoccupazione è stata frenata, il risanamento finanziario avviato. Si rende conto tuttavia che non è visibile il senso generale dell'operazione e che il clima del Paese è pesante. Ma la Dc, a suo avviso, non è affatto matura nel suo insieme per nuovi passi verso una piena normalizzazione dei rapporti con il Pci. Per questo prega insistentemente Berlinguer di rinviare al massimo una dichiarazione pubblica. A ciò si aggiungono la presa di distanza del Psi e le sue continue punzecchiature.
Quando Bufalini ed io incalziamo nella direzione concordata con Berlinguer, Moro ci dice che dovrà fare un lavoro molto intenso di consultazione prima di poter incontrare Enrico per una risposta. Ribadisce infine la sua posizione di sempre: si rende conto che si debbono compiere nuovi passi ma è tutta la Dc che deve compierli e non solo una parte. Si rammarica a questo proposito che il Pci etichetti con troppa facilità alcuni uomini (i riferimenti sono a Donat Cattin e Andreatta). Farà sapere quando si sentirà in grado di dare una meditata risposta a Berlinguer. Ritiene intanto necessario, per dovere di lealtà, informare subito Andreotti dell'incontro (lo faremo anche noi).
Il 7 dicembre 1977 la direzione del Pci denuncia pubblicamente l'«accresciuto scarto tra la gravità della crisi italiana e l'inadeguatezza del governo. Appare quindi sempre più necessario un governo di unità e di solidarietà democratica, con la partecipazione di entrambi i partiti di sinistra». C'è qualche interrogativo, in direzione, sull'opportunità del momento scelto per dare pubblicità alla posizione assunta. Qualcuno propone un rinvio. Ma siamo alla vigilia di un nuovo, ennesimo round di incontri fra governo, sindacati e partiti. Berlinguer teme che tutto venga stemperato in nuovi elenchi di desiderata e che il sindacato venga ancor più coinvolto in trattative di vertice spesso incomprensibili alle masse. Il comunicato che viene approvato chiama ufficialmente in causa la Dc: «La parola spetta ora alla Democrazia cristiana. Questo partito non può sottrarsi al dovere di valutare, con senso di responsabilità e senza lasciarsi invischiare dai propri interni travagli, la realtà della situazione, non può più chiudersi in assurdi e anacronistici dinieghi. Il Paese non può essere a lungo mantenuto nello stato attuale, che rischia di deteriorarsi sempre di più».
Moro fa sapere a Berlinguer che sperava in un periodo di tempo maggiore. Conta di essere pronto ad incontrare Enrico entro la fine dell'anno. Ma i tempi della Dc e di Moro sono lenti. I giorni passano e malgrado le sollecitazioni di Berlinguer l'incontro viene rinviato ai primi del 1978.
Il 5 gennaio Berlinguer e Moro si incontrano nella nuova casa del dottor Ancora, sempre nel quartiere Trieste. Come è sua consuetudine Berlinguer si è preparato con scrupolo al colloquio redigendo una scaletta di temi.
L'incontro è sul piano umano molto più caloroso del primo, anche se c'è nella procedura della riunione una novità non allegra: mentre noi ci incontriamo al primo piano, sotto si incontrano le due squadre della Digos che hanno scortato rispettivamente Moro e Berlinguer. Il terrorismo è riuscito a imporre più dure condizioni di vita ai leaders politici.
Il colloquio politico vero e proprio è questa volta aperto da Moro. Si rammarica che il Pci non abbia concesso più tempo a lui e alla Dc per preparare il nuovo passo. Si rende tuttavia pienamente conto che dietro il passo del Pci c'è una preoccupazione reale e fondata e che questa preoccupazione non è soltanto legata al contingente (le inquietudini e le forzature «a sinistra» del Psi, il disagio dei sindacati), ma, come Berlinguer ha detto, alla necessità storica di uscire da una democrazia difficile e incompiuta. La democrazia non potrà mai essere forte e dare il meglio di sé se tutti i partiti che affondano le radici nella storia italiana non saranno posti sullo stesso piano nel governo del Paese. E per aprire questa nuova fase è necessario governare una transizione in cui il Pci garantisca la Dc presso la classe operaia e la Dc garantisca il Pci presso i ceti moderati e i paesi alleati.
Berlinguer ricorda a Moro che la stessa convinzione è stata espressa dal Psi e dal Pri e che la concezione del Pri è molto vicina a quella di Moro. Non si tratta di fare un governo per l'eternità, ma un governo per una transizione difficile. E' d'altra parte impossibile affrontare alcuni grandi problemi senza una convergenza tra le sinistre, la Dc e i partiti laici. Il momento è favorevole anche perché forze imprenditoriali italiane, interessate al discorso del Pci su una rigorosa finalizzazione delle risorse («austerità»), lungi dall'esprimere timore per l'operazione la auspicano per uscire da una situazione di incertezza e di non governo. Moro conferma questa impressione sulla base di colloqui avuti. Le sue preoccupazioni maggiori sono per l'atteggiamento di alcuni ceti intermedi, i cui sbandamenti possono essere pericolosi. Anche per questo, oltre che per le resistenze interne al suo partito, ritiene che si debba per ora compiere solo un nuovo passo in quello che pensa sarà un lungo periodo di collaborazione: l'ingresso formale del Pci nella maggioranza. Berlinguer insiste per la chiarezza e la nettezza dell'operazione: non si può andare a nuove ambiguità. Moro si riserva di riflettere ancora e di consultare personalità del suo partito e di altri partiti.
Chi di fatto prende nelle sue mani la gestione della crisi è, tuttavia, Andreotti. E a fianco all'attivismo di Andreotti il ruolo di Moro sembra, almeno all'esterno, scomparire.
Il mese di febbraio inizia con la crisi ancora aperta e con il fallimento di una sorta di scorciatoia escogitata da Andreotti al fine di aggirare il nodo politico. Andreotti aveva fatto, a beneficio della Dc, del Pli e degli americani, una sottile distinzione tra «alleanza di programma» e «alleanza politico-parlamentare» e, redatte 17 cartelle di programma più tre di preambolo, si era risolto a chiedere lo «sta bene» della sua direzione (dopo un lungo incontro con la delegazione dc guidata da Moro e Zaccagnini) per procedere rapidamente ad un confronto con gli altri partiti dell'arco costituzionale.
Ma reazioni negative erano venute e dalla Dc e dagli «altri». Nei direttivi dc la destra e parte dei dorotei avevano contestato il diritto stesso della direzione a decidere sulla proposta Andreotti. Fuori della Dc tutti i partiti impegnati nel «difficile passaggio» (Pci, Pri e Psi), avevano contestato la possibilità di aggirare il nodo politico. La Malfa aveva ribadito «il bisogno dell'apporto di tutte le forze politiche e sociali». Per il Psi Bettino Craxi che dal '76 era divenuto segretario, aveva chiaramente affermato (Avanti! del 1 febbraio 78): «Non si governa senza una maggioranza parlamentare e non si acquisisce il massimo indispensabile di stabilità se non si risolve il problema dell'associazione in funzione di responsabilità e di controllo di tutte le forze che convergono su un terreno contrattato di impegni comuni».
Il 7 febbraio c'è un nuovo incontro di Andreotti con la delegazione del Pci (Berlinguer, Perna e Natta). All'uscita Berlinguer dichiara: «La soluzione più idonea... è quella di un governo di unità democratica. Tuttavia, tenuto conto anche della posizione degli altri partiti siamo disposti a prendere in considerazione la possibilità di dar vita, almeno, a un patto di emergenza, il quale sulla base di un programma concordato, esprima una comune intesa e corresponsabilità dei partiti che vi aderiscono e sia sancito dalla formazione di una chiara e riconosciuta maggioranza parlamentare».
Sulla stessa linea si muove una dichiarazione di Natta del 13 febbraio. Ma la Dc resiste e nega (con Galloni) la possibilità di qualsiasi «alleanza politica».
Il 15 febbraio c'è un incontro a due tra Berlinguer e Craxi. Non ci sono comunicati, ma c'è, successivamente, una dichiarazione di Craxi che ribadisce: «Una soluzione imperniata su semplici convergenze parlamentari non risolverebbe il problema delle responsabilità e del controllo».
Il giorno dopo ha luogo, sempre in casa di Tullio Ancora, il terzo e ultimo incontro personale tra il leader della Dc e il leader del Pci.
Il colloquio è preceduto da un incontro ufficiale tra la delegazione del Psi e quella del Pci al termine del quale Berlinguer dichiara: «Con i compagni socialisti abbiamo concordato e sul giudizio critico sul programma e sulle esigenze inderogabili che i due partiti hanno già annunciato... Si deve costituire una effettiva maggioranza parlamentare con tutte le forme e con tutti i diritti e i doveri che essa comporta».
L'incontro con Moro comincia a tarda ora ed è fondamentalmente diverso dagli altri. Non si tratta di sondare le posizioni politiche dei due partiti. Le posizioni sono note, ribadite in documenti e dichiarazioni ufficiali e in incontri tra i diversi partiti. Pci, Psi e Pri vogliono un'assunzione comune di responsabilità. Il Pli è contrario. La Dc è divisa con un vertice che non riesce a superare le opposizioni interne. Per questo il terzo incontro è fondamentalmente un incontro tra due uomini che si parlano con estrema apertura e franchezza e che sondano le rispettive posizioni personali.
Berlinguer sfida Moro a impegnarsi personalmente nella battaglia. Non si tratta tanto di sapere se il leader storico della Dc è disposto o no a presiedere personalmente il governo (anche se Berlinguer farà un accenno esplicito in questo senso), quanto di sapere se intende o no assumere la direzione del difficile passaggio dalla «democrazia difficile», perché incompiuta e mutilata, ad una democrazia compiuta in cui, affrontati insieme alcuni nodi strutturali, il gioco democratico possa svilupparsi nella pienezza dei ruoli che ogni partito intenderà liberamente assumere senza vincoli esterni e ideologiche preclusioni.
Moro esita. Dà atto a Berlinguer dei titoli che il Partito comunista ha conquistato, è convinto della necessità di una forma abbastanza lunga di collaborazione fra tutti i partiti su cui pesa la responsabilità storica della difesa della repubblica: parole simili aveva detto a Spadolini il 9 febbraio (vedi il libro di Spadolini: «Da Moro a La Malfa»), ma è preoccupato delle resistenze di una parte del suo partito, aggravatesi dopo il rifiuto liberale ad andar oltre la definizione comune di alcuni punti programmatici. Ammette tuttavia che ambiguità, scorciatoie, giochi di parte non possono sciogliere il nodo politico, che è un nodo reale, storico e come tale va affrontato.
Berlinguer incalza con tenacia e serenità insieme, note a tutti coloro che lo hanno conosciuto. Sostiene che è necessario uscire dai compromessi striscianti, dagli accordi fatti alla buvette di Montecitorio e affrontare alla luce del sole quella che Moro ha definito la questione centrale dell'attuale fase. Se ciò non sarà fatto la democrazia si deteriorerà, il terrorismo, la violenza, l'assuefazione al malcostume troveranno alimento nella incapacità di tutti di indicare una prospettiva, un orizzonte. In ciò la Democrazia cristiana può avere un grande ruolo di propulsione e, insieme, di garanzia.
Moro riprendendo un tema già toccato nell'incontro del 1971, riconosce che proprio per i suoi legami di massa con differenti strati la Dc può essere tante cose diverse. Molto dipende dal gruppo dirigente e dal suo impegno: da ciò che gli elementi più responsabili vogliono che la Dc sia. E alla fine annuncia la sua decisione, maturata, forse, già nella prima fase dell'incontro: scenderà in campo personalmente e sosterrà personalmente nei gruppi parlamentari dc la necessità dell'ingresso a pieno titolo del Pci nella maggioranza governativa.
Il colloquio è terminato. Moro chiede a Berlinguer se è venuto con la scorta della polizia. Enrico risponde che è venuto senza e Moro lo rimprovera: «Devi fare attenzione, anche se le precauzioni valgono relativamente». Ci saluta con cordialità e scende accompagnato dal figlio piccolo di Tullio Ancora.
Noi lo seguiamo cinque minuti dopo e Berlinguer, senza scorta, mi accompagna a casa.
Il 15 marzo 1978, a mezzanotte, il dottor Ancora mi telefona per chiedermi un incontro. Ci vediamo a metà strada e sul cofano di una macchina prendo gli appunti relativi ad un messaggio che Moro invia a Berlinguer. Moro è preoccupato delle riserve che sono state formulate dal Pci alla lista del governo e fa appello a Berlinguer affinché non si riapra il dibattito che i gruppi parlamentari dc hanno appena faticosamente chiuso. Si rende conto delle motivazioni di talune riserve, ma ricorda il punto di rottura cui si pervenne quando la Dc commise l'errore di porre un veto contro il nome di Basso, per la Corte costituzionale, e le proteste di Berlinguer a tale proposito. Si dovrà studiare un metodo per evitare un gioco di veti incrociati e contemporaneamente garantire i propri alleati, ma ormai è troppo tardi per modificare la lista del governo.
Decido che è inutile svegliare Berlinguer (che tra l'altro non amava parlare per telefono e in sedi non proprie: tutti i miei resoconti e tutte le discussioni sulle risposte da dare hanno sempre avuto come unica sede il suo ufficio di Botteghe Oscure, spesso con la partecipazione di Natta o Bufalini) e batto a macchina l'appunto per Enrico. Quando al mattino arrivo a Montecitorio per consegnarlo a Berlinguer, Moro era stato rapito e la sua scorta uccisa.