Karl Marx

Sul Congresso dell’Aja dell’Internazionale

Discorso tenuto l'8 settembre 1872 a una riunione della sezione di Amsterdam
a qualche giorno dalla chiusura del Congresso
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  Nel secolo diciottesimo i re e i potenti usavano riunirsi all'Aja per discutere gl'interessi delle loro dinastie. È là che noi abbiamo voluto tenere le assise del lavoro, malgrado i timori che si è voluto ispirarci. È in mezzo alla popolazione più reazionaria che abbiamo voluto affermare l'esistenza, l'estensione e la speranza del futuro della nostra grande Asso­ciazione.

  Si è parlato, quando si è conosciuta la nostra decisione, dei nostri emissari inviati a preparare il terreno. Sì, non neghiamo affatto di avere dappertutto degli emissari: ma la maggior parte d'essi non è sconosciuta. I nostri emissari al­l'Aja sono stati quegli operai il cui lavoro è così duro, come quello dei nostri emissari ad Amsterdam; i quali sono anch'essi lavoratori, operai che lavorano sedici ore al giorno. Ecco i nostri emissari: noi non ne abbiamo altri. E in tutti i paesi in cui ci presentiamo, li incontriamo disposti ad accoglierci con simpatia, poiché essi comprendono ben presto che noi perseguiamo il miglioramento delle loro condizioni.

  Il Congresso dell'Aja ha fatto tre cose principali: ha pro­clamato la necessità per le classi lavoratrici di combattere sul terreno politico, come sul terreno sociale, la vecchia società che crolla, e noi ci rallegriamo di vedere entrare finalmente questa risoluzione di Londra nei nostri statuti. Si era formato, in mezzo a noi, un gruppo che preconizzava l'astensione degli operai in materia politica. Noi abbiamo tenuto a dire quanto consideriamo dannosi e funesti per la nostra causa questi prin­cipi. L'operaio un giorno dovrà prendere il potere politico per fondare la nuova organizzazione del lavoro; deve rovesciare la vecchia politica che sostiene le vecchie istituzioni: altrimenti non vedrà mai, come gli antichi cristiani che l'hanno negletto e sdegnato, l'avvento del regno dei cieli in questo mondo.

  Noi non abbiamo affatto preteso che per arrivare a questo scopo i mezzi fossero dappertutto identici. Sappiamo quale importanza abbiano le istituzioni, i costumi e le tradizioni dei vari paesi, e non neghiamo che esistono dei paesi, come l'America, l'Inghilterra e, se io conoscessi meglio le vostre istituzioni, aggiungerei l'Olanda, in cui i lavoratori possono raggiungere il loro scopo con mezzi pacifici. Se ciò è vero, dobbiamo però riconoscere che, nella maggior parte dei paesi del continente, è la forza che deve essere la leva delle nostre rivoluzioni; è alla forza che bisognerà fare appello per instau­rare il regno del lavoro.

  Il Congresso dell'Aja ha attribuito al Consiglio generale nuovi e più estesi poteri. In effetti, nel momento in cui i re si riuniscono a Berlino dove, da questo incontro dei potenti che rappresentano il feudalesimo e il passato, debbono venire nuove e più violente misure di repressione contro di noi; nel momento in cui la persecuzione si organizza, il Congresso dell'Aja ha creduto giustamente che era saggio e necessario aumentare i poteri del suo Consiglio generale e centralizzare, per la lotta che sta per essere intrapresa, un'azione che l'isola­mento renderebbe impotente. E d'altra parte, a chi se non ai nostri nemici potrebbe dare ombra l'autorità del Consiglio generale? Ha egli dunque una burocrazia, una polizia armata per farsi obbedire? La sua autorità non è unicamente morale, e ciò che decreta, non lo sottomette forse alle federazioni che sono incaricate dell'esecuzione? In queste condizioni, senza esercito, senza polizia, senza magistratura, i re sarebbero deboli ostacoli per la marcia della Rivoluzione, il giorno in cui essi fossero ridotti a derivare il loro potere dall'influenza e dall'autorità morale.

  Infine il Congresso dell'Aja ha trasportato la sede del Con­siglio generale a New York. Molti, ed anche tra i nostri amici, sono sembrati stupiti di una simile decisione. Dimenticano dunque che l'America diviene il mondo dei lavoratori per eccel­lenza; che tutti gli anni un mezzo milione di uomini, di lavo­ratori, emigrano verso quest'altro continente, e che bisogna che l'Internazionale metta radici vigorose in questa terra ove domina l'operaio? E d'altra parte, la decisione del Congresso dà al Consiglio generale il diritto di aggiungersi i membri che giudicherà necessari ed utili per il bene della causa comune. Attendiamo dalla sua saggezza che sappia scegliere degli uomi­ni all'altezza del loro compito e che sappiano tener salda in Europa la bandiera della nostra associazione.

  Cittadini, pensiamo a questo principio fondamentale del­l'Internazionale: la solidarietà. Con il fondare su solide basi, tra tutti i lavoratori di tutti i paesi, questo vivificante prin­cipio, noi raggiungeremo il grande scopo che ci proponiamo! La rivoluzione deve essere solidale e noi ne troviamo un grande esempio nella Comune di Parigi, che è caduta perché in tutti i centri, a Berlino, a Madrid, ecc., non è sorto un grande movi­mento rivoluzionario, corrispondente a questa suprema levata del proletariato parigino.

  Per quello che mi riguarda, continuerò il mio compito e lavorerò costantemente per fondare questa profonda solidarietà, feconda per l'avvenire, tra tutti i lavoratori. No, io non mi ritiro affatto dall'Internazionale, e il resto della mia vita sarà consacrato, come i miei sforzi passati, al trionfo delle idee sociali che porteranno un giorno, siatene certi, l'avvento uni­versale del proletariato!


Note


[1] Il testo fu pubblicato da La Liberté, Bruxelles, il 15 settembre 1872 e da Algemeen Handelsblad, Amsterdam, il 10 otto­bre. Da Marx-Engels, op. cit. pagg. 935-937.