Palmiro Togliatti

Intervista a «Nuovi argomenti»

Testo integrale dell'intervista concessa alla rivista Nuovi argomenti diretta da Alberto Moravia e Alberto Carocci. Nel numero 20 del maggio-giugno 1956 la rivista aveva rivolto «9 domande sullo stalinismo» a uomini politici e di cultura di diversa parte politica. Da: Palmiro Togliatti, op. cit. pp. 702-728.


1. Che cosa significa, secondo voi, la condanna del culto della personalità in URSS? Quali ne sono i motivi interni, esterni, politici, sociali, economici, psicologici, storici?


La condanna del culto della personalità pronunciata dai comunisti dell'Unione Sovietica e le critiche all'opera di Stalin significano esatta­mente, secondo me, quello che dai dirigenti comunisti sovietici è stato detto e viene ripetuto: né più né meno di questo. In guardia, dunque, contro due direzioni sbagliate.

   Il primo, il più grossolano e persino ridicolo, è di ritenere - o fingere di ritenere - che formulando quella condanna e queste critiche i comunisti sovietici siano passati alle posizioni, se non dell'anticomu­nismo, per lo meno di chi non ha mai né approvato né capito la loro azione. Voglio dire ch'essi abbiano buttato a mare, o si accingano a buttare a mare tutte le loro posizioni di principio e pratiche, tutto il loro passato, tutto ciò che hanno affermato, sostenuto, difeso, attuato in tanti decenni del loro lavoro. Comprendo benissimo che questa sia la interpretazione che del XX Congresso danno gli alfieri dell'anticomu­nismo, ma non c'è motivo, per cui dobbiamo dar loro retta oggi, più di quanto non l'abbiamo data ieri. E del resto, essi scoprono il loro giuoco, forzandolo sino alla esasperazione, come sempre, e mettendo così in mostra la malafede.

   Non escludo, però, e lo voglio dire apertamente, che vi sia anche chi in perfetta buonafede scivoli su quella posizione e incominci a do­mandare se, date quelle critiche a Stalin, e dato che fu Stalin il princi­pale esponente della politica comunista per un intiero periodo, non sia oggi da mettere in dubbio la giustezza di tutti i principali momenti di quella politica, a partire, poniamo, dall'opposizione decisa ai piani dell'imperialismo in questo dopoguerra, risalendo su su, attraverso Yal­ta e Teheran, al patto di non aggressione con la Germania del 1939, alla guerra di Spagna, ecc., ecc. E, in altro campo, alle direttive per la costruzione economica socialista e alla lotta contro chi la ostacolava e, infine, una volta preso l'avvio - perché no? - sino agli atti deci­sivi della rivoluzione d'ottobre, che furono la presa del potere da parte dei soviet degli operai, contadini e soldati, lo scioglimento dell'Assem­blea costituente e la creazione di una nuova struttura politica della società. A coloro che in buona fede accennassero a intender le cose in questo modo, dovremmo dire che sbagliano.

   Naturalmente, su tutti gli atti attraverso i quali i comunisti sovie­tici sono giunti alla conquista del potere e alla creazione dell'attuale loro ordinamento sociale è sempre possibile si discuta e per molto tempo si discuterà, senza dubbio, allo scopo di precisarne il carattere, il conte­nuto e le conseguenze, allo scopo di valutarli storicamente nel modo più esatto. I compagni sovietici stanno oggi liberando la loro storio­grafia da errori ed esagerazioni che vi si erano introdotti per esaltare oltre il merito la figura di Stalin e questo consentirà un giudizio storico sempre più esatto. Non è escluso, anzi è facilmente prevedibile che vengano corretti molti giudizi, che vengano precisate le critiche a de­terminate debolezze, errori, aspetti negativi dell'azione svolta in mo­menti determinati.

   Sarebbe però un grave errore ritenere che questa particolare revi­sione, la quale tende a collocare tutti gli uomini e tutti gli avvenimenti nella loro giusta luce, comporti, da parte dei comunisti sovietici, una radicale ripulsa o una critica radicale, distruttiva, dell'azione loro, così come si è sviluppata per ormai più che mezzo secolo. Quest'azione rimane, nella linea del suo sviluppo attraverso le successive tappe che tutti conoscono, il primo grande modello storico di conseguente attività rivoluzionaria per l'avvento della classe operaia alla direzione della so­cietà e per la costruzione di una società socialista.

   Il secondo sbaglio consiste nel considerare le critiche a Stalin e la denuncia del culto della sua persona episodi di una lotta personale o di gruppi, che si svilupperebbe tra i dirigenti del partito comunista e dello Stato sovietico, e che sarebbe, in sostanza, solo una lotta per il potere. La grande stampa dei paesi capitalistici si è particolarmente dedicata a questo genere di interpretazione, che estende a tutto ciò che avviene nell'Unione Sovietica. Essa ha per questo i suoi specialisti, capaci, per qualsiasi spostamento di responsabile dell'uno o dell'altro dicastero, dell'una o dell'altra organizzazione, di pesare esattamente quanti grammi di influenza politica vi abbia perduto questo o quel dirigente, quanti metri abbia avanzato verso il potere esclusivo questo o quel gruppo di uomini, e così via. Le più grandi sciocchezze, poi, vengono dette quando da queste sottili valutazioni ipotetiche si vuole risalire al contrasto, e persino alla lotta, tra civili e militari, per esem­pio, tra tecnici e uomini di partito, ecc., ecc. Il tecnico e l'uomo di partito molto spesso, nell'Unione Sovietica, coincidono. Quanto ai mili­tari, tutti sanno che in tutte le lotte interne di partito che si ebbero dalla rivoluzione in poi non vi fu mai una posizione delle forze armate come tali. Bisogna dunque lasciare queste cose ai dilettanti del fronzolo, del pettegolezzo politico.

   Non possiamo né vogliamo affatto escludere che, nella elaborazione dei più recenti atti e giudizi politici dei dirigenti sovietici, vi siano stati tra di loro punti di divergenza, dibattiti, discussioni anche vivaci. Così deve funzionare un organismo politico vivente, la cui attività in­terna non sia soffocata dal culto di una sola persona. Non esiste però nessun fatto e non esistono nemmeno indizi che possano in qualsiasi modo dare un valore alla rappresentazione di una tenebrosa lotta per il potere che si svolgerebbe attraverso le critiche a Stalin e al culto della sua persona. Anzi, a questo proposito si può andare anche più in là. Basta aver conosciuto superficialmente quale fosse la parte che Stalin aveva non solo nell'animo dei quadri del partito e dei suoi mem­bri, ma delle grandi masse popolari, per comprendere quanto difficile fosse la situazione che si presentò dopo la sua scomparsa, e soprattutto quanto fosse grave, irto di pericoli, il compito di correggere gli errori da lui compiuti, di denunciare questi errori e di muoversi su una strada per molti aspetti nuova. Questa evidente difficoltà spiega perché la denuncia aperta degli errori precedentemente commessi non potè farsi subito dopo la morte di Stalin. Non solo non sarebbe stata capita, ma avrebbe forse provocato reazioni negative, pericolose e non controlla­bili. La correzione di fatto degli errori, invece, prima per ciò che si riferisce al metodo di direzione e poi negli altri campi, è evidente che incominciò subito. Altrettanto evidente è però che questa correzione non avrebbe potuto compierla un gruppo dirigente nel quale si fosse svolta una tenebrosa lotta di persone o di gruppi per il potere. La stessa eliminazione di Beria, uno dei principali responsabili delle san­guinose conseguenze dei più gravi tra gli errori commessi sotto la dire­zione di Stalin, lo dimostra. Potè infatti aver luogo rapidamente, senza scosse nel gruppo dirigente e senza alcun conflitto tra i differenti settori della pubblica amministrazione.

   Bisogna dunque, per concludere su questo punto, abituarsi a pen­sare che le critiche a Stalin e al culto della sua persona significano, per i compagni sovietici, esattamente ciò che essi sinora hanno detto. E che cosa, precisamente? Che in conseguenza degli errori di Stalin e del culto della sua persona si erano accumulati elementi negativi, si erano create situazioni sfavorevoli e anche nettamente cattive in diffe­renti settori della vita e della società sovietica, in differenti parti dell'at­tività del partito e dello Stato. Non è però semplice ridurre tutti questi momenti negativi sotto un solo concetto generale, perché anche in que­sto caso si corre il rischio della eccessiva, arbitraria e falsa generaliz­zazione, cioè il rischio di giudicare cattiva, da respingersi, da criticarsi, tutta la realtà economica, sociale e culturale sovietica, il che è un ritorno alle consuete idiozie reazionarie. La meno arbitraria delle generalizza­zioni è quella che vede negli errori di Stalin il progressivo sovrapporsi di un potere personale alle istanze collettive di origine e di natura democratica e, come conseguenza di questo, l'accumularsi di fenomeni di burocratizzazione, di violazione della legalità, di stagnazione e anche, parzialmente, di degenerazione, in differenti punti dell'organismo so­ciale.

   Si deve però subito aggiungere che questa sovrapposizione è stata parziale ed ha probabilmente avuto le più gravi manifestazioni alla som­mità degli organi direttivi dello Stato e del partito. Di qui è partita una tendenza alla restrizione della vita democratica, della iniziativa e della vivacità del pensiero e dell'azione in campi numerosi (sviluppo tecnico ed economico, attività culturale, letteratura, arte, ecc.), ma di qui non si può assolutamente dire che sia derivata la distruzione di quei fondamentali lineamenti della società sovietica, da cui deriva il suo carattere democratico e socialista e che rendono questa società su­periore, per la sua qualità, alle moderne società capitalistiche.

   La società sovietica non poteva adagiarsi in simili errori, come può invece adagiarsi in errori e situazioni assai più gravi il regime borghese, capitalistico. Quegli errori non potevano diventare elemento stabile e generale della vita civile, economica, politica: se fossero durati più a lungo, forse si sarebbe giunti ad una rottura, benché anche questa ipotesi sia da accogliersi con cautela, perché una rottura avrebbe cer­tamente portato alle masse popolari e a tutto il movimento socialista più danno che vantaggi e di questo erano consapevoli non soltanto gli uomini che della rottura avrebbero potuto essere gli autori, ma erano consapevoli strati assai vasti della società.

   Con questo non voglio dire che le conseguenze degli errori di Stalin non siano state molto gravi. Sono state molto gravi, si sono estese a molti campi e il superarle non credo sarà cosa semplice, né che potrà farsi molto rapidamente. In sostanza, si può dire che una gran parte dei quadri dirigenti della società sovietica (partito, Stato, economia, cultura, ecc.) si era, nel culto di Stalin, intorpidita, perdendo o avendo ridotta la propria capacità critica e creativa, nel pensiero e nell'azione. Per questo era assolutamente necessario che la denuncia degli errori di Stalin venisse fatta, e venisse fatta in modo tale che scuotesse le menti e riattivasse tutta la vita degli organismi su cui poggia il com­plesso sistema della società socialista. Si avrà così un nuovo progresso democratico di questa società, e questo sarà un potente contributo alla migliore comprensione fra tutti i popoli, alla distensione internazionale, alla avanzata del socialismo e alla pace.


2. 3. Credete che le critiche al culto della personalità in URSS debbano portare a cambiamenti istituzionali?

La legittimità del potere è il grande problema del diritto pubblico; e il pensiero politico moderno tende a indicare la fonte della legittimità nella volontà popolare. Le democrazie parlamentari di tipo occidentale ritengono che la volontà popolare abbia bisogno, per esprimersi, della pluralità dei partiti. Ritenete che il potere in regime di partito unico con elezioni senza scelta fra governo e opposizione sia legittimo?


Mi potrò sbagliare, ma la mia opinione è che non siano oggi da prevedersi, nell'URSS, cambiamenti istituzionali, né che simili cambia­menti debbano derivare dalle critiche formulate in modo aperto dal XX Congresso. Questo non vuol dire che non debbano compiersi modi­ficazioni abbastanza profonde, alcune delle quali, del resto, sono già in atto.

   Che cosa si intende, prima di tutto, per cambiamenti istituzionali? Credo che coloro i quali ne parlano intendano cambiamenti della strut­tura politica, tali che riportino la società sovietica ad alcune, per lo meno, delle forme di organizzazione politica proprie dei regimi cosid­detti occidentali, oppure diano un nuovo rilievo ad alcuni degli istituti che sono propri di questi regimi. Posto così il problema, la mia rispo­sta è negativa.

   E partiamo pure, se si vuole, dall'esame della legittimità del potere e della sua fonte, ma cerchiamo di liberarci dal formalismo ipocrita col quale trattano questa questione gli apologeti della «civiltà occiden­tale». Abbiamo letto Stato e rivoluzione, né abbiamo dimenticato la sostanza di quell'insegnamento, per fortuna nostra! Non è la critica degli errori di Stalin che ce la farà dimenticare. Nella realtà delle cosiddette civiltà occidentali la fonte della legittimità del potere non è affatto la volontà popolare. La volontà popolare è, nel migliore dei casi, uno dei fattori che contribuiscono, esprimendosi periodicamente con le elezioni, a determinare una parte degli indirizzi governativi.

   Nelle elezioni, però (e valga pure l'esempio dell'Italia, tipico, per alcuni aspetti), entra in azione un molteplice sistema di pressioni, inti­midazioni, esortazioni, falsificazioni, artifici legali e illegali, per cui la espressione della volontà popolare viene ad essere assai gravemente li­mitata e falsificata. E il sistema opera nelle mani e a favore non solo di chi sta in quel momento al governo, quanto di chi detiene nella società il potere reale, che è dato dalla ricchezza, dalla proprietà dei mezzi di produzione e di scambio, e da ciò che ne deriva, incominciando dalla effettiva direzione della vita politica, sino alla immancabile protezione delle autorità religiose e di tutti gli altri gangli di potere che esistono in una società capitalistica.

   Noi sosteniamo che oggi, dati gli sviluppi e la forza attuale del movimento democratico e socialista, si possono operare strappi assai larghi in questo sistema che impedisce la libera espressione della volontà popolare, e si può quindi aprire un varco sempre più ampio alla ma­nifestazione di questa volontà. Per questo ci muoviamo sul terreno de­mocratico e senza uscire da questo terreno riteniamo possibili sempre nuovi sviluppi. Ciò non vuol dire, però, che non vediamo le cose come sono e che del modo come si svolge la vita democratica del mondo occidentale (guai, poi, a spingersi un po' troppo in là, in questo mondo, sino a trovarvi la Spagna, o la Turchia, o il Sud America, o il Porto­gallo, o il sistema elettorale discriminato degli Stati Uniti d'America, ecc. ecc.!) noi ci dobbiamo fare un feticcio, il modello universale e assoluto della democrazia! Anzi, noi continuiamo a pensare che la de­mocrazia di tipo occidentale è una democrazia limitata, imperfetta, per molte cose falsa, che richiede di essere sviluppata e perfezionata attra­verso una serie di riforme economiche e politiche.

   Anche se, dunque, giungeremo alla conclusione che il XX Congres­so apre un nuovo processo di sviluppo democratico nell'Unione Sovie­tica, siamo ben lontani dal pensare e riteniamo sia errato pensare che questo sviluppo possa o debba compiersi con un ritorno a istituti di tipo «occidentale».

   La legittimità del potere, nell'Unione Sovietica, ha la sua fonte prima nella rivoluzione. Questa ha dato il potere alla classe operaia, che era minoranza ma è riuscita, risolvendo i grandi problemi nazionali e sociali che si ponevano, a raccogliere via via attorno a sé tutte le masse popolari, trasformare la struttura economica del paese, creare, far funzionare e progredire una società nuova, costruita secondo i prin­cipi socialisti. Dimenticare la rivoluzione, non tener conto della nuova struttura sociale, dimenticare, cioè tutto ciò che è proprio dell'Unione Sovietica e poi fare un confronto puramente esteriore con i modi della vita politica nei paesi capitalistici, è un trucco e niente più.

   Ma questo primo richiamo alla realtà non basta. La società sovie­tica ha avuto, sin dall'inizio, una sua struttura politica democratica, fondata, precisamente, sulla esistenza e sul funzionamento dei «soviet» (consigli di operai, contadini, lavoratori, soldati). Il sistema dei soviet è, come tale, molto più democratico e progredito di qualsiasi sistema democratico tradizionale, e questo per due motivi. Il primo è che fa penetrare la vita democratica in tutte le parti costitutive della società, partendo dalle unità lavorative di base per risalire, grado a grado, sino alle grandi assemblee cittadine, regionali e nazionali, il secondo è che avvicina le elementari cellule della vita democratica alle unità produttive e quindi supera quell'aspetto negativo delle tradizionali organizzazioni democratiche che consiste nella separazione tra il mondo della produ­zione e quello della politica e quindi nel carattere esteriore, formale, della libertà.

   È possibile che nel funzionamento del sistema sovietico vi sia stato un arresto, un inciampo, da cui sia derivata una limitazione della demo­crazia sovietica? Non solo è possibile, ma al XX Congresso la cosa è stata riconosciuta apertamente. La vita democratica sovietica è stata limitata, in parte soffocata, dal sopravvento di metodi di direzione buro­cratica, autoritaria e dalle violazioni della legalità del regime. In linea di teoria, questa è una cosa possibile, perché un regime socialista non è garantito di per sé da errori e pericoli. Chi lo ritenesse, cadrebbe in un infantilismo ingenuo. La società socialista è una società non sol­tanto composta di uomini, ma una società in sviluppo, nella quale conti­nuano a esistere contrasti oggettivi e soggettivi, ed è soggetta alle vi­cende della storia. In linea di fatto, si tratterà di vedere come e perché una limitazione della vita democratica sovietica abbia potuto compiersi, ma qualunque sia la risposta che si giunga a dare a questa questione, è per noi fuori dubbio che non si potrà mai concludere alla necessità di un ritorno alle forme di organizzazione delle società capitalistiche.

   La pluralità o unicità dei partiti non può essere ritenuta, di per sé, elemento distintivo tra le società borghesi, e le società socialiste, come non segna, di per sé, la linea di distinzione tra una società de­mocratica e una società non democratica. Nell'Unione Sovietica due partiti si divisero il potere per un certo periodo di tempo, dopo la rivoluzione, in regime sovietico e di dittatura proletaria. Nella Cina di oggi esiste una pluralità di partiti al potere, e il regime viene pure definito di dittatura democratica. Anche nelle democrazie popolari esi­stono ancora partiti diversi da quello comunista, sebbene non dapper­tutto.

   Nei paesi tuttora capitalistici dove il movimento operaio e popolare sia molto forte e sviluppato, è tutt'altro che da escludersi l'ipotesi di profonde trasformazioni socialiste attuabili in presenza di una pluralità di partiti e per iniziativa di alcuni di essi. Nell'Unione Sovietica di oggi, però, pensare a una pluralità di partiti ci sembra impossibile. Da che parte verrebbero fuori? Per decisione dall'alto? Sarebbe un bel processo democratico! Bisogna riconoscere che non solo esiste una omogeneità sociale dovuta alla scomparsa delle classi capitalistiche, non solo esiste una omogeneità politica che si esprime con l'alleanza tra gli operai e i contadini, ma esiste una forma di unità della vita civile e della direzione politica che è sconosciuta e forse nemmeno capita, qui, nel mondo «occidentale».

   La stessa nozione di partito è, nell'Unione Sovietica, qualcosa di diverso da ciò che noi intendiamo sotto questo termine. Il partito lavora e combatte per realizzare e sviluppare il socialismo, ma la sua opera è essenzialmente di natura positiva e costruttiva, non di natura polemica contro un ipotetico oppositore politico interno. L'«oppositore» contro cui ci si batte è la difficoltà oggettiva da superare, il contrasto da risol­vere lavorando, la realtà da dominare, la sopravvivenza del vecchio da distruggere per far avanzare il nuovo, ecc. La dialettica dei contrasti, che è essenziale per lo sviluppo della società, non si esprime più nella competizione tra diversi partiti, di governo o di opposizione, perché non esiste più né una base oggettiva (nelle cose), né una base soggettiva (nell'animo degli uomini) per una competizione simile. Si esprime al­l'interno stesso del sistema unitario che comprende tutta una serie di organizzazioni coordinate le une alle altre (partito, soviet, sindacati, ecc., ecc.). La critica che si fa a Stalin è di aver impedito questa dialetti­ca all'interno del sistema. La correzione consiste nel restaurare la nor­malità, non già nel negare il sistema o nel farlo saltare.

   Ma se ritengo assurdo che il sistema possa esser fatto saltare per ritornare indietro, credo però che all'interno di esso possono e dovranno essere introdotte modificazioni, anche profonde, sulla base dell'espe­rienza che è stata compiuta, sulla base di successi ottenuti in tutti i campi, e sulla base stessa della necessità di avere più efficaci garanzie contro errori come quelli di Stalin.

   Su questo punto è da concentrare l'attenzione, e perciò devono essere seguite e studiate le misure nuove che via via nell'Unione Sovietica si stanno prendendo, sia dal partito che dal governo. Le più interes­santi, sino ad ora, e di più vasta portata, sono quelle che stabiliscono un decentramento sempre più esteso della direzione economica. La cen­tralizzazione, anche in forme estreme, fu una necessità dei periodi in cui si dovevano operare rapidamente profondissimi cambiamenti, di­struggere le basi del capitalismo, gettare le fondamenta della economia socialista, far fronte a necessità economiche, politiche, militari urgenti. Anche la centralizzazione, però, non è di per sé una forma obbligatoria della direzione economica socialista, soprattutto nelle forme estreme. Un grado minore o maggiore di centralizzazione, e quindi di direzione dall'alto, è dettato dal complesso delle condizioni oggettive, ma de­termina un grado maggiore o minore, rispettivamente, di vita democra­tica periferica, di attività e iniziativa delle masse, e per noi l'attività delle masse, la loro partecipazione effettiva alla critica, al controllo e quindi alla direzione di tutto l'organismo economico e sociale sono i veri segni della democrazia.

   Da noi, in regime di pluralità di partiti, di dialettica fra governo e opposizione, ecc., ecc., questa attività delle masse non esiste in nessuna forma e in nessuna misura, oppure solo in forme e misure limitatissime e del tutto indirette. Per questo diciamo che questa non è ancora una vera democrazia e non comprendiamo perché, per correggere le cattive cose fatte da Stalin, i popoli sovietici dovrebbero ricaderci.

   Alcune cose ancora vorrei dire a proposito di garanzie efficaci con­tro il ripetersi di errori come quelli fatti da Stalin. Qui so che viene avanzata l'idea della «indipendenza della magistratura» (della divisio­ne dei poteri, cioè) come rimedio sicuro contro qualsiasi violazione della legalità. Io a questo rimedio, sinceramente, non credo. Il giudice deve avere una sua posizione di indipendenza, e la Costituzione sovietica gliela garantisce, come molte altre Costituzioni. Ma la violazione di questa norma avviene sempre in linea di fatto, non di diritto. Il giudice, inoltre, non è e non può essere un cittadino che viva fuori della società, dei suoi contrasti, delle correnti che la percorrono e la dominano; nes­sun giudice si sarebbe nemmeno sognato, dieci anni fa, di condannare all'ergastolo - all'ergastolo! - un eroico capo partigiano, cui si è fatta colpa della soppressione, in situazione di guerra, di chi gli veniva segnalato come spia. [1] Oggi questo è stato fatto. Da giudici «indipen­denti»? Formalmente, con tutta probabilità, indipendenti da ingiun­zioni ministeriali dirette, ma non indipendenti dalla campagna che per dieci anni, da De Gasperi e da tutti gli altri, venne condotta per diffa­mare il movimento partigiano, metterlo in stato d'accusa e farne con­dannare gli esponenti. I giudici fanno parte della classe dominante e non si sottraggono alle correnti di opinioni, giuste o non giuste, che in questa si determinano.

   Ci dicono, ora, che nell'URSS vi furono, al tempo di Stalin, pro­cessi che si conclusero con condanne illegali e ingiuste. I giudici che emisero quelle condanne non erano, assai probabilmente, cittadini che tradissero la loro coscienza; erano cittadini convinti che le errate dot­trine di Stalin, allora diffuse in tutto il popolo, circa la presenza dap­pertutto di «nemici del popolo» da distruggere, fossero giuste. Perciò, pur essendo formalmente «indipendenti», giudicarono in quel modo. Una vera garanzia può consistere soltanto nella giustezza degli indirizzi politici del partito e del governo, e questa si assicura con una retta vita democratica sia nel partito che nello Stato e con un permanente e stretto contatto con le masse popolari, in tutti i gradi della vita pub­blica. Anche il giudice sarà sempre tanto più giusto quanto più legato col popolo.


4. È stato già osservato che tra Occidente e Oriente non c'è co­munità di linguaggio politico. Il culto della personalità in Occidente viene chiamato tirannide; gli errori che portano alle purghe, ai processi, alle condanne, delitti.

Per converso l'Oriente chiama l'opposizione, tradimento; la discus­sione, deviazione; e così via. Un linguaggio diverso denota sempre di­versità sostanziali. A che cosa attribuire questa diversità di linguaggio?


Questa affermazione della diversità di linguaggio politico tra Occi­dente e Oriente, mi si consenta di dire che è una pura sciocchezza reazionaria. Fu uno degli argomenti del sanfedismo, continua a esserlo. Rinvio ancora una volta a un testo curioso, il Nuovo vocabolario filo­sofico democratico indispensabile per ognuno che brama intendere la nuova lingua rivoluzionaria, edito a Venezia nel 1799. Libertà, patriot­tismo, uguaglianza, diritti, ecc., ecc., tutta la terminologia politica del tempo, esprimente le grandi idee nuovamente affermate e fatte trionfare dalle rivoluzioni borghesi, è in questo manualetto sanfedista analizzata per duecento pagine per dimostrare, precisamente, che quelle grandi parole esprimevano cose grandi nel passato, al tempo dei governi asso­luti e tuttora le esprimono per chi mantiene fede all'ordine del passato, mentre in bocca dei rivoluzionari, in quella Francia aborrita dove ha trionfato la rivoluzione, esprimono cose del tutto diverse e opposte. Libertà significa, per il rivoluzionario, «podestà assoluta per gli scel­lerati, birbanti e disperati d'ogni nazione di spogliare e massacrare la parte onesta, laboriosa e che possiede qualcosa, dei suoi concittadini». Uguaglianza è termine privo di senso, «la più alta sciocchezza, senza idea reale». Democratico significa «ateo, assassino, birbante in gover­no». E così via.

   Questo riferimento alla polemica sanfedista dei secoli passati, che in un suo particolar modo, come si vede, applicava la dottrina della diversità dei linguaggi politici, può servire a chiarire il fondo della questione. Non è che nell'una e nell'altra parte del mondo si parlino due lingue diverse, ma i gruppi sociali incapaci non solo di approvare, ma persino di comprendere le profonde trasformazioni sociali e politiche che si stanno compiendo e cui sono ostili, vorrebbero creare tra le diverse parti del mondo, e a danno della parte che progredisce, abissi di incomprensione. Ma non ci riescono.

   Il linguaggio politico è, tra Oriente e Occidente, assolutamente comune. Tirannide vuole dire, qui e là, la stessa cosa. Nel regime instau­rato da Stalin in determinati periodi vi erano elementi di tirannide, e furono commessi, dal potere, atti delittuosi e moralmente repugnanti. Nessuno lo nega. Lo stesso significato ha, qui e là, la parola democrazia, cioè governo del popolo, eguaglianza dei cittadini, ecc. Quando i comu­nisti russi, nelle prime loro Costituzioni, stabilirono una marcata diver­sità tra il peso del voto degli operai e quello dei contadini, sapevano benissimo che quella non era una norma formalmente democratica. Ma la adottarono perché volevano che fosse anche legalmente garantita alla classe operaia la funzione dirigente che si era conquistata con la rivolu­zione, salvando il paese dalla invasione straniera e dalla catastrofe, creando le prime condizioni necessarie all'avvento del socialismo. Rag­giunti i primi grandi risultati in questa direzione, quella norma venne soppressa. E le cose vennero dette chiaramente in questo modo, sempre. Venne detto apertamente, cioè, che sopprimendo la disparità del voto si restaurava in pieno la democrazia.

   Qui, nel famoso Occidente, aspetto mi si chiarisca che rapporto possa mai avere con la democrazia la discriminazione politica tra i citta­dini, che un governo di democristiani e socialdemocratici tentò di porre alla base, in Italia, di tutta l'attività governativa, e che è tuttora norma generale di condotta della maggior parte delle autorità dello Stato, dei padroni, degli istituti di assistenza, degli uffici del lavoro, ecc., ecc.

   Non è assolutamente vero che «in Oriente» la opposizione si chiami tradimento, la discussione deviazione, ecc. In una discussione possono essere espresse posizioni non conciliabili con la linea politica che viene seguita, in contrasto con essa, e questa può essere chiamata una deviazione, perché lo è. Da noi, l'esprimere opinioni politiche di­verse da quelle dei partiti dominanti viene chiamato, invece, «terrori­smo ideologico». Quanto all'opposizione, ne ho già parlato, e non coin­cide né può coincidere col tradimento. Senza dubbio, vi sono stati casi e momenti in cui la opposizione assunse forme tali che erano tradimento o portavano al tradimento. Vi sono stati lunghi periodi di tempo in cui la classe operaia, che aveva preso il potere con la rivoluzione, e il partito che la dirigeva, si trovarono di fronte a situazioni così gravi, a difficoltà e a tali e tanti nemici esterni ed interni, da sconfiggersi ad ogni costo, che l'unità della direzione politica e dell'azione dovette essere mantenuta e fu mantenuta con mezzi eccezionali. Guai se non si fosse fatto cosi!

   Il grave errore commesso da Stalin fu di aver illecitamente esteso questo sistema (peggiorandolo, anzi, perché il rispetto della legalità rivoluzionaria era sempre stato richiesto, nei primi tempi, da Lenin, anche se allora i limiti di questa legalità erano forzatamente assai ri­stretti) alle situazioni successive, quando non era più necessario e diven­tava quindi soltanto la base di un potere personale. E l'errore dei suoi collaboratori fu di non essersene accorti a tempo, di averlo lasciato fare sino al punto in cui la correzione non era più possibile senza danno per tutti.


5. 6. Ritenete che la dittatura personale di Stalin si sia verificata contro e fuori delle tradizioni storiche e politiche russe o sia invece uno sviluppo di tali tradizioni?

La dittatura personale di Stalin si giovò, per affermarsi, e per mantenersi, di un insieme di misure coercitive che in Occidente, a par­tire dalla rivoluzione francese, viene chiamato «terrore». Ritenete che questo «terrore» fosse una necessità?


A queste due domande risponderò assieme perché, a parte la loro formulazione concreta, che limiterebbe la ricerca a temi di ordine par­ticolare, esse consentono, se si supera questa limitazione, di affrontare la questione che logicamente si presenta a questo punto, e cioè come, nella società sovietica, gli errori denunciati dal XX Congresso abbiano potuto essere compiuti e quindi abbia potuto crearsi, e durare un assai lungo periodo di tempo, una situazione in cui la vita democratica e la legalità socialista subivano continue, gravi ed estese violazioni. A questa si innesta, com'è ben comprensibile, la questione tanto della corresponsa­bilità, per questi errori, di tutto il gruppo dirigente politico, compresi i compagni che oggi hanno avuto l'iniziativa sia della denuncia che della correzione del male che prima era stato fatto, quanto delle conseguenze di questo male.

   A proposito di questa corresponsabilità, due spiegazioni sono state avanzate. Una è la più evidente ed è stata affacciata da noi stessi, nelle discussioni che hanno avuto luogo nel nostro partito. È stata formulata anche dal compagno Courtade, in una serie di articoli sulla Humanité [2], ed ora, se si deve credere a ciò che riferiscono i giornalisti, pure dal compagno Krusciov, rispondendo a una domanda rivoltagli in un ri­cevimento.

   L'allontanamento di Stalin dal potere, quando apparve la gravità degli errori ch'egli stava compiendo, era «giuridicamente possibile», ma impossibile in pratica, perché se la questione fosse stata posta ne sarebbe risultato un conflitto, e questo conflitto avrebbe probabilmente compromesso le sorti della rivoluzione e dello Stato, contro il quale erano puntate le armi da tutte le parti del mondo. Basta aver avuto un contatto anche superficiale con l'opinione pubblica sovietica negli anni in cui Stalin era alla testa del paese e aver seguito la situazione internazionale di quegli anni, per essere in grado di riconoscere che la constatazione è verissima. Oggi, per esempio, i dirigenti sovietici de­nunciano precisi errori e un momento di scoraggiamento di Stalin all'ini­zio della guerra. Ma in quei giorni chi, nell'URSS, avrebbe compreso e accettato, non dico un allontanamento di Stalin, ma anche solo una limitazione del suo potere? Sarebbe stato un crollo, se si fosse vista o intuita una cosa simile. E lo stesso in altri momenti.

   La constatazione fatta da Krusciov, dunque, spiega, sì, lo stato di necessità in cui si trovarono coloro che avrebbero voluto correggere la situazione che si era creata, ma è, nello stesso tempo, una constatazione che complica il quadro, e in sostanza lo aggrava. Si è costretti ad ammet­tere che gli errori che Stalin commetteva, o erano ignorati dalla grande massa dei quadri dirigenti del paese e quindi dal popolo, e questo non pare verosimile; oppure non erano considerati errori da questa massa di quadri e quindi dall'opinione pubblica, da essi orientata e diretta.

   Come si vede, io escludo la spiegazione dell'impossibilità di un cambiamento causata solo dalla presenza di un apparato militare, poli­ziesco, terroristico che controllasse la situazione con i suoi mezzi. Que­sto stesso apparato era composto e diretto da uomini, che in un mo­mento grave come quello dell'attacco di Hitler, per esempio, sarebbero stati do­mi­nati anch'essi da reazioni elementari, se si fosse aperta una crisi pro­fon­da. Molto più giusto mi pare riconoscere che, nonostante gli errori che commetteva, Stalin aveva il consenso di una grandissima parte del paese e prima di tutto dei suoi quadri dirigenti e anche delle masse. Era questa la conseguenza del fatto che Stalin non commise solo gli errori, ma fece anche molte cose buone, «fece moltissimo per l'URSS», «era il più con­vinto dei marxisti e saldo nella sua fiducia nel popolo». Ha riconosciuto questo lo stesso compagno Krusciov, nelle dichiarazioni riferite sopra, correggendo così lo strano ma com­prensibile sbaglio che venne fatto, secondo me, al XX Congresso, di tacere questi meriti di Stalin.

   Ma questo non spiega tutto, e non spiega tutto appunto per la gravità degli errori che oggi vengono denunciati. La spiegazione non si può trovare se non in una attenta indagine del modo come al sistema caratterizzato dagli errori di Stalin si giunse. Solo così si potrà com­prendere come questi errori non fossero soltanto qualcosa di personale, ma investissero in modo profondo la realtà della vita sovietica.

   Un'altra spiegazione del perché non si potè giungere prima alle necessarie correzioni è stata data, se non erro, dallo stesso Krusciov, affermando che se queste correzioni non poterono farsi è perché la posizione dei dirigenti del partito e dello Stato verso gli errori di Stalin non fu eguale in tutti i periodi. Vi furono dunque dei momenti in cui attorno a Stalin vi fu un'ampia solidarietà degli altri, e questa soli­darietà era l'espressione, precisamente, di quel consenso di cui sopra parlavamo.

   E qui bisogna riconoscere, apertamente e senza esitazione, che, men­tre il XX Congresso ha dato un contributo enorme all'impostazione e soluzione di molti seri e nuovi problemi del movimento democratico e socialista, mentre segna una tappa importantissima nello sviluppo del­la società sovietica, non può invece venire considerata soddisfacente la posizione che è stata presa al congresso e che oggi viene ampiamente sviluppata nella stampa sovietica per quanto riguarda gli errori di Stalin e le cause e condizioni che li resero possibili.

   La causa di tutto starebbe nel «culto della personalità», e nel culto di una persona che aveva determinati e gravi difetti, mancava di modestia, tendeva al potere personale e alle volte sbagliava per incompetenza, non era leale nelle relazioni con gli altri dirigenti, aveva una smania di grandezza e un eccessivo amore di se stesso, era sospet­toso sino all'estremo, e alla fine, attraverso l'esercizio del potere per­sonale, giunse a distaccarsi dal popolo, a trascurare il suo lavoro e soggiacere persino a una forma evidente di mania di persecuzione. I dirigenti sovietici attuali hanno conosciuto Stalin assai più di noi (di alcuni contatti avuti con lui avrò forse modo di parlare in altra occa­sione), e noi quindi dobbiamo loro credere quando a questo modo oggi ce lo descrivono. Possiamo soltanto pensare, tra di noi, che, poiché era cosi, a parte la impossibilità di fare un cambio a tempo, di cui già si è parlato, avrebbero per lo meno potuto essere più prudenti in quella esaltazione pubblica e solenne delle qualità di quest'uomo, cui ci avevano abituato. È vero che oggi si criticano, ed è il loro grande merito, ma in questa critica un poco del loro prestigio va senza dubbio perduto.

   Ma a parte questo, sino a che ci si limita, in sostanza, a denun­ciare, come causa di tutto, i difetti personali di Stalin, si rimane nell'am­bito del «culto della personalità». Prima, tutto il bene era dovuto alle sovrumane qualità positive di un uomo; ora, tutto il male viene attribuito agli altrettanto eccezionali e persino sbalorditivi suoi difetti. Tanto in un caso quanto nell'altro siamo fuori del criterio di giudizio che è proprio del marxismo. Sfuggono i problemi veri, che sono del modo e del perché la società sovietica potè giungere e giunse a certe forme di allontanamento dalla vita democratica e dalla legalità che si era tracciata, e persino di degenerazione. Lo studio dovrà essere fatto seguendo le diverse tappe di sviluppo di questa società, e sono prima di tutti i compagni sovietici che debbono farlo, perché conoscono le cose meglio di noi, che possiamo sbagliare per parziale o errata cono­scenza dei fatti.

   A noi torna a mente, anzitutto, che Lenin, negli ultimi suoi discorsi e scritti, aveva posto l'accento sul pericolo di burocratizzazione che minacciava la nuova società. Ci sembra fuori dubbio che gli errori di Stalin furono legati a un eccessivo aumento del peso degli apparati burocratici nella vita economica e politica sovietica, e forse prima di tutto nella vita del partito. E qui è assai difficile dire quale fosse la causa, quale la conseguenza. L'una cosa venne ad essere, a poco a poco, l'espressione dell'altra.

   Questo peso eccessivo della burocrazia è anche da riferirsi a una tradizione, proveniente dalle forme di organizzazione politica e dal co­stume della vecchia Russia? Forse non lo si può escludere e credo vi siano accenni di Lenin in questo senso; si tenga però presente che dopo la rivoluzione il personale dirigente cambiò totalmente o quasi, e a noi, poi, non interessa tanto valutare il residuo del vecchio, quanto il fatto che un nuovo tipo di direzione burocratica sia venuto insorgendo dal seno della nuova classe dirigente, nel momento in cui essa assolveva compiti del tutto nuovi.

   I primi anni dopo la rivoluzione, poi, furono anni aspri, terribili, di sovrumane difficoltà oggettive, di intervento straniero, di guerra e di guerra civile. Furono allora assolutamente necessari, tanto un mas­simo di centralizzazione del potere, quanto l'adozione di misure repres­sive radicali per schiacciare la controrivoluzione. Era inevitabile, in que­sto periodo, che avvenisse come in guerra: se un compito non viene eseguito, il responsabile è sottoposto a uno sbrigativo giudizio! Lo stes­so Lenin, come risulta da una lettera da lui indirizzata a Dzerzinskij e ora resa pubblica, prevedeva si dovesse fare una svolta quando la controrivo­luzione e l'intervento straniero fossero stati del tutto scon­fitti, il che avvenne qualche anno prima della sua morte. Si dovrà vedere se questa svolta venne compiuta o se, quasi per forza di inerzia, non si consolidò una parte di ciò che avrebbe dovuto venire modificato o abbandonato. In questo momento, poi, si scatenò la lotta dei gruppi che contestavano la possibilità di una edificazione economica socialista e questo non potè non avere una estesa influenza su tutta la vita so­vietica.

   Anche questa lotta ebbe il carattere di un vero combattimento, dal cui esito dipendevano le sorti del potere, e che si doveva quindi vincere ad ogni costo. È in questo periodo che Stalin ebbe una parte positiva, e attorno a lui si unirono le forze sane del partito. Ora si po­trà osservare che si unirono attorno a lui in modo tale, e guidate da lui accettarono tali modificazioni nel funzionamento del partito e dei suoi organi dirigenti, tale nuova funzione degli apparati diretti dall'alto, per cui o non poterono più opporsi quando incominciarono a venire alla luce le cose cattive, oppure non compresero nemmeno bene, all'ini­zio, che si trattasse di cose cattive. Forse non si sbaglia affermando che è dal partito che ebbero inizio le dannose limitazioni del regime democratico e il sopravvento graduale di forme di organizzazione buro­cratica.

   Ma più importante mi pare debba essere l'esame attento di ciò che avvenne in seguito, quando fu realizzato il primo piano quinquennale e fu attuata la collettivizzazione dell'agricoltura. Qui si toccano infatti vere questioni di principio. I successi ottenuti furono qualcosa di molto grande, di grandioso, anzi. Fu creata una grande industria socialista, e fu creata senza aiuti o crediti dall'estero, attraverso un impegno e uno sviluppo delle forze interne della nuova società. Fu trasformata, anche se in modo meno sicuro, attraverso notevoli difficoltà, fretta ec­cessiva ed errori, la struttura sociale delle campagne. I risultati ottenuti erano qualcosa che mai al mondo era stata veduta, che fuori dell'Unione Sovietica pochi avevano creduto possibile. Furono una conferma cla­morosa della vittoria rivoluzionaria dell'Ottobre, e della giusta linea politica sostenuta contro oppositori e nemici d'ogni sorta.

   Furono però anche l'inizio di alcuni orientamenti sbagliati, e che dovevano avere, in seguito, gravi conseguenze cattive. Nella esaltazione dei successi ottenuti prevalse, soprattutto nella propaganda corrente, ma anche nelle impostazioni generali, una tendenza alla esagerazione, a considerare ormai risolti tutti i problemi, superate le contraddizioni oggettive, le difficoltà, i contrasti che pure sono sempre inerenti alla costruzione di una società socialista. Queste contraddizioni oggettive, queste difficoltà, questi contrasti, sono spesso, nel corso della costru­zione di una società socialista, molto gravi, e non possono venire supe­rati se non vengono riconosciuti in modo aperto, chiamando le stesse masse operaie e lavoratrici ad affrontarli e risolverli con il loro lavoro, con la loro opera creativa.

   In questo periodo si ebbe invece l'impressione, nell'Unione Sovie­tica, che i dirigenti, anche se conoscevano bene la realtà delle cose, non la presentassero giustamente al partito e al popolo, forse per timore di sminuire in qualche modo la grandiosità delle vittorie ottenute. In una scuola di partito ove erano studenti inviati da noi, si impegnò un aspro dibattito, durato mesi e mesi, contro chi aveva esaltato i «sa­crifici» fatti dagli operai russi per il successo del piano quinquennale. Non si doveva parlare di sacrifici, dicevano, perché se no, cosa avreb­bero pensato gli operai in Occidente? Ma i sacrifici c'erano stati, per­ché le condizioni di vita negli anni del primo piano erano state molto dure, e la classe operaia non si spaventa affatto se le si spiega che uno sforzo e un sacrificio sono necessari per costruire il socialismo; anzi, questo stimola ed esalta lo spirito di classe della sua avanguardia. È un piccolo episodio, questo, ma dimostra, come dicevamo, un errato orientamento di principio, perché è un errore di principio credere che, ottenuti i primi grandi successi, la costruzione socialista vada avanti da sé, e non attraverso il giuoco di contraddizioni di nuovo tipo, che devono essere risolte, nel quadro della nuova società, dall'azione delle masse e del partito che le dirige.

   Ne derivano due principali conseguenze, credo. La prima fu un isterilimento dell'attività delle masse, nei luoghi e negli organismi (di partito, sindacali, di fabbrica, sovietici) dove le reali e nuove difficoltà della situazione avrebbero dovuto venire affrontate, e dove invece in­cominciarono a prevalere scritti e discorsi pieni di dichiarazioni pom­pose, di frasi fatte, ecc.; ma in realtà freddi e inefficaci, perché privi di contatto con la vita. Il vero dibattito creativo a poco a poco venne scomparendo, e quindi le stessa attività delle masse a ridursi, muoven­dosi più per direttiva dall'alto che per stimolo proprio.

   Ma la seconda conseguenza fu più grave ancora ed è che quando la realtà riprendeva i suoi diritti, e le difficoltà venivano fuori, come conseguenza degli squilibri e dei contrasti che tuttora erano nelle cose, si manifestò e a poco a poco fini per prevalere su tutto la tendenza a considerare che sempre e in ogni caso il male, l'arresto nell'applica­zione del piano, la difficoltà negli approvvigionamenti, nell'afflusso del­le materie prime, nello sviluppo delle diverse parti dell'industria o del­l'agricoltura, ecc., ecc., fossero dovuti al sabotaggio, all'opera del nemico di classe, di gruppi controrivoluzionari operanti clandestinamente, e co­sì via.

   Non è che queste cose non ci fossero. Ci furono anche queste cose. L'Unione Sovietica era circondata da nemici spietati, pronti a ricor­rere a tutti i mezzi per recarle danno e frenarne l'ascesa; ma quell'errato indirizzo nei giudizi sulla situazione oggettiva fece perdere il senso del limite, fece smarrire la nozione della frontiera che separa il buono dal cattivo, l'amico dal nemico, la incapacità o la debolezza dall'ostilità consapevole e dal tradimento, il contrasto e le difficoltà che sgorgano dalle cose, dall'atto ostile di chi congiura per rovinarti. Stalin dette una formulazione pseudoscientifica di questa paurosa confusione, con la sua tesi errata dell'accrescimento necessario dei nemici e dell'inasprir­si della lotta delle classi col progresso della costruzione socialista. Que­sto rese permanente e aggravò la confusione stessa; questo fu all'origine delle inaudite violazioni della legalità socialista che oggi sono state de­nunciate pubblicamente.

   Bisogna però cercare più in profondo per comprendere come que­ste posizioni potessero venire accettate e diventare popolari, e una delle direzioni della ricerca dovrà essere quella da noi indicata, se si vuole capire tutto. Stalin fu ad un tempo espressione e autore di una situa­zione, e lo fu tanto perché dimostratosi il più esperto organizzatore e dirigente di un apparato di tipo burocratico nel momento in cui questo prese il sopravvento sulle forme di vita democratica, quanto per aver dato una giustificazione dottrinale di quello che in realtà era un indi­rizzo errato e sul quale poi si resse, fino ad assumere forme degenerati­ve, il suo potere personale. Tutto questo spiega quel consenso che vi fu attorno a lui, che durò sino alla sua scomparsa e forse tuttora con­serva qualche efficacia.

   Non si dimentichi, poi, che anche quando si stabilì questo suo potere, i successi della società sovietica non mancarono. Vi furono nel campo economico, in quello politico, in quello culturale, in quello mi­litare, in quello dei rapporti internazionali. Nessuno potrà negare che l'Unione Sovietica del 1953 era incomparabilmente più forte, più svi­luppata in tutte le direzioni, più solida all'interno e più autorevole di fronte all'estero di quanto non fosse, per esempio, all'epoca del primo piano quinquennale.

   Come mai tanti errori non impedirono tanti successi? Anche qui, sono i dirigenti sovietici che debbono dare la risposta, comprendendo che questo è oggi uno dei problemi che assillano i militanti sinceri del movimento operaio internazionale. Fino a che punto, da quale momento ed entro quali limiti gli errori di Stalin compromisero la linea politica del partito, crearono difficoltà sussidiarie e quale peso ebbero queste difficoltà, e come si riuscì, nonostante quegli errori, a progre­dire? Sulla base di ciò che conosciamo, noi possiamo fare solo alcune affermazioni generali, disposti a rivederle se necessario.

   Ci sembra debba essere riconosciuto che la linea seguita nella co­struzione socialista continuò a essere giusta, anche se gli errori che vengono denunciati sono tali che non possono non avere seriamente limitato i successi nella sua applicazione. Questo è però uno dei punti su cui saranno necessarie le maggiori spiegazioni, perché la restrizione e in qualche caso persino la scomparsa della vita democratica è cosa essenziale per la validità di una linea politica. Ci sembra, ad ogni modo, incontrovertibile che la burocratizzazione del partito, degli organi dello Stato, dei sindacati, e soprattutto degli organi periferici, che sono i più importanti, deve avere frenato, limitato, compresso, il pensiero crea­tivo del partito, l'attività delle masse, il funzionamento democratico dello Stato e lo slancio costruttivo di tutta la società, con evidenti danni reali. D'altra parte, gli stessi successi ottenuti, e in pace e in guerra e dopo la guerra, sono la prova di una impressionante capacità di lavoro, di entusiasmo e di sacrificio delle masse popolari in qualsiasi situazione, di una loro adesione continua agli scopi che la politica del partito poneva a tutto il paese, e che attraverso l'opera loro vennero realizzati. È difficile dire, per esempio, quale altro popolo sarebbe stato capace di resistere, riprendersi e poi vincere con Hitler nei sobborghi di Mosca e poi sul Volga, e con le strettezze terribili del periodo di guerra.

   Si deve dunque concludere che la sostanza del regime socialista non andò perduta, perché non andò perduta nessuna delle precedenti conquiste, né, soprattutto, l'adesione al regime delle masse di operai, contadini, intellettuali che formano la società sovietica. Questa stessa adesione sta a provare che, nonostante tutto, questa società manteneva il suo fondamentale carattere democratico.

   Abbiamo detto alcune volte che tocca ai compagni sovietici affron­tare alcune delle questioni da noi poste e fornire gli elementi per una complessiva risposta. Sino ad ora essi hanno sviluppato le critiche al «culto della personalità» soprattutto correggendo errati giudizi storici e politici su fatti e su persone, distruggendo miti e leggende creati a scopo di esaltazione di una sola persona. Questo va benissimo, ma non è tutto ciò che si deve attendere da loro. Ciò che più oggi importa è di rispondere giustamente, con un criterio marxista, alla domanda sul come gli errori oggi denunciati si siano intrecciati con lo sviluppo della società socialista e quindi se nello sviluppo stesso di questa società non siano intervenuti, a un certo momento, elementi di disturbo, sbagli di ordine generale, contro i quali tutto il campo del socialismo deve essere messo in guardia, e intendo dire tutti coloro che già stanno co­struendo il socialismo secondo una loro strada e coloro che una loro strada stanno ancora ricercando.

   Si può essere senz'altro d'accordo che il problema centrale è quello della salvaguardia delle caratteristiche democratiche della società socia­lista; ma come si colleghino le questioni della democrazia politica e di quella economica, della democrazia interna e della funzione dirigente del partito con il funzionamento democratico dello Stato, e come lo sbaglio intervenuto in uno di questi campi possa ripercuotersi su tutto il sistema: questo è ciò che bisogna studiare a fondo e chiarire.


7. A che cosa attribuire il fatto che i comunisti di tutto il mondo abbiano creduto alla versione staliniana ufficiale sui processi e le co­spirazioni?


I comunisti di tutto il mondo ebbero sempre una fiducia senza limiti nel partito comunista sovietico e nei suoi dirigenti. Donde sgor­gasse questa fiducia è più che evidente. Nei momenti decisivi della storia e sulle questioni decisive del movimento operaio e della politica internazionale la posizione dei comunisti sovietici fu quella giusta. La rivoluzione del 1917, in cui essi presero il potere, suscitò l'entusiasmo. La giustezza della politica da essi affermata, difesa e seguita dopo la rivoluzione risultò dai fatti. Si conoscevano le difficoltà sovrumane che a loro si opposero e che essi riuscirono a superare. Tutto il mondo era contro di loro, li attaccava con tutti i mezzi, li vituperava. Erano unite contro di loro le classi dirigenti di tutti i paesi. Nei partiti di opposizione e persino nel movimento operaio, rari erano coloro che esprimessero per lo meno comprensione, se non approvazione, per l'ope­ra gigantesca che nell'Unione Sovietica si stava compiendo. Oggi tutti sono d'accordo, fatta eccezione dei reazionari più chiusi, nel riconoscere che la creazione dell'Unione Sovietica è il più grande fatto della storia contemporanea; ma furono solo i comunisti, o quasi, che passo a passo seguirono questa creazione, la fecero comprendere, la difesero e ne dife­sero gli autori. Era naturale e giusto, in queste condizioni, che si creasse un rapporto di fiducia e solidarietà profonda, completa delle avanguar­die operaie di tutto il mondo con quel partito comunista che davvero stava all'avanguardia di tutto il movimento politico e sociale.

   Bisogna tener conto anche del fatto, poi, che quasi in tutti i casi coloro che avevano incominciato con la critica di questo o quell'aspetto della politica comunista nell'Unione Sovietica finirono a breve scadenza per imbrancarsi con i calunniatori ufficiali di tutto il movimento comu­nista, per diventare agenti, aperti o mascherati, delle forze politiche più reazionarie. Ogni partito comunista, in misura maggiore o minore, potè fare sopra di sé questa esperienza. Si creò quindi, oltre che un rapporto di fiducia e solidarietà piena con i comunisti sovietici, la ferma convinzione che questa solidarietà fosse il tratto distintivo di un movi­mento proletario veramente rivoluzionario e questo era fondamental­mente vero. Di questo rapporto di fiducia e di solidarietà non vi è quindi nessuno di noi che abbia a pentirsi. È quello che ci ha permesso, lavorando e combattendo ciascuno nelle condizioni del proprio paese, di esprimere e dare una precisa forma politica e di organizzazione a quel nuovo slancio rivoluzionario che la Rivoluzione d'ottobre aveva suscitato nella classe operaia, che i progressi nella costruzione di una società socialista nell'Unione Sovietica alimentavano, estendevano, ren­devano via via più consapevole di sé.

   Le forme, i modi, le vie pratiche di questi successi non furono però oggetto, tra di noi, di discussione, se non sino a un certo momento, che si può collocare, approssimativamente, negli anni di realizzazione del primo piano quinquennale e della collettivizzazione agricola. Nei dieci o quindici anni precedenti questo momento, il dibattito tra i co­munisti russi circa le vie di sviluppo della rivoluzione, la possibilità di una trasformazione socialista e le forme di questa trasformazione, si era trasportato in tutto il movimento operaio e prima di tutto nel movimento comunista internazionale, e questo dette il suo contributo alla sconfitta dei gruppi di opposizione (trotskisti e di destra). Io non nego che questa lotta e questa partecipazione abbiano anche potuto avere, in certi momenti, in certi paesi e in certe condizioni, qualche ripercussione negativa nel nostro movimento. Alludo a lotte di frazione talora artificialmente attizzate, a giudizi politici talora esagerati, ecc. Chi può, vada a rivedere il discorso pronunciato da me, per esempio, al VI Congresso dell'Internazionale, nel 1928, e vi troverà la critica di alcune di queste cose [3], oppure rilegga ciò che ebbe a dire Dimitrov al VII Congresso. Nel complesso, però, l'educazione politica del nostro movimento si fece in questi dibattiti, che toccarono i più importanti temi della nostra ideologia e della nostra politica. Attraverso di essi il nostro movimento si avviò verso la sua maturità.

   In seguito, delle questioni che si ponevano ai compagni sovietici nella costruzione di una società socialista si parlò nei nostri partiti sem­pre di meno, anche perché i compagni sovietici non ce le presentarono più in modo problematico, come facevano prima, ma quasi come tappe di un progresso ormai avviato e il cui corso non sollevava profondi temi nuovi. Eravamo del resto giunti al momento in cui il movimento comunista fuori dell'Unione Sovietica si era cosi rafforzato che poteva uscire dal campo della semplice agitazione e propaganda, correggere molti degli sbagli commessi prima dell'avvento di Hitler e svolgere un'ampia azione politica positiva, nella lotta contro il fascismo, contro la guerra che si preparava, per tentar di salvare la repubblica spagnuola, per l'unità del movimento operaio e democratico, ecc. Si stavano crean­do quelle condizioni che consigliarono poi, nel corso della guerra, lo scioglimento dell'Internazionale comunista.

   I processi cui la domanda si riferisce credo si collochino (spiegherò poi il valore di questa limitazione) in questo periodo, mentre si combat­teva in Francia per il fronte popolare, in Spagna con le armi, e la politica internazionale dell'Unione Sovietica si svolgeva con grande ef­ficacia nella difesa della democrazia e della pace. I dirigenti comunisti non ave­vano nessun elemento che consentisse loro di dubitare della legalità dei giudizi, soprattutto perché sapevano che, sconfitti politica­mente e tra le masse, i dirigenti dei vecchi gruppi di opposizione (trotskisti e di destra) non erano alieni dal proseguire la lotta con mezzi terroristici e questo avveniva anche fuori dell'Unione Sovietica. (A Parigi, nel 1934, uno dei migliori nostri militanti, Camillo Monta­nari di Reggio Emilia, venne ucciso a sangue freddo da un trotskista. Casi simili si ebbero altrove.)

   Il fatto che tutti gli accusati confessassero suscitò senza dubbio sorpresa e discussioni anche tra di noi, ma non altro. È del resto non ancora chiaro, per noi, se le denunce di violazioni della legalità e appli­cazione di metodi istruttori illegittimi e moralmente repugnanti che vengono fatte ora, si estendano a tutto il periodo dei processi, oppure soltanto a un periodo determinato, più recente di quello che ho ricor­dato. La denuncia di esagerazioni nell'impiego di mezzi repressivi straor­dinari e la decisione di correggerle vi erano già state, del resto, in un'assemblea nazionale del Partito comunista dell'URSS, e avevano tro­vato tutti consenzienti. Il brutto è che quella decisione non venne ri­spettata, anzi, per alcuni aspetti le cose in seguito peggiorarono, e qui vi fu una imperdonabile colpa personale di Stalin.

   Ripeto, per i processi iniziali, quelli di cui noi avemmo modo di occuparci, perché quelli successivi per lo più non furono pubblici, la mia opinione, oggi, è che esistessero assieme entrambi gli elementi: i tentativi degli oppositori di cospirare contro il regime e compiere atti terroristici e l'applicazione di metodi istruttori illegali, moralmente condannabili. La prima cosa non attenua la gravità della seconda, na­turalmente.


8. La critica del culto della personalità è stata formulata dall'alto, senza previa consultazione popolare, d'autorità. Considerate ciò una pro­va che lo stalinismo non è morto, come molti affermano?


I giudizi che dò e che sostanzialmente ho esposto mi portano a ritenere inevitabile che la correzione e la critica degli errori di Stalin partissero dall'alto. La stessa restrizione della vita democratica nel par­tito e nello Stato, contenuto e conseguenza di questi errori, e i consensi di cui Stalin era stato circondato, facevano sì che una critica dal basso si sarebbe potuta avere solo con lentezza e si sarebbe sviluppata in modo confuso, non privo di rotture pericolose. La cosa può apparire spiacevole, ma deriva da tutto ciò che era avvenuto prima. Era compito del gruppo dirigente, convinto che si dovesse liquidare il cattivo e cam­biare corso, aprire la strada al nuovo corso con una energica critica dall'alto, oltre che con una prima correzione, di fatto, delle storture più gravi.

   Rieducare a una normale vita democratica, secondo il modello che era stato stabilito da Lenin nei primi anni della rivoluzione; rieducare, cioè, alla iniziativa nel campo delle idee e nella pratica, alla ricerca, al dibattito vivace, a quel grado di tolleranza degli errori che è indispen­sabile per scoprire la verità, alla piena indipendenza del giudizio e del carattere ecc., ecc., un quadro di partito di alcune centinaia di migliaia di donne e di uomini, e attraverso di essi tutto il partito e attraverso il partito tutto uno sterminato paese, dove le condizioni della vita civile sono ancora molto diverse da regione a regione, è compito di enorme peso, che non si assolve né con tre anni di lavoro né con un congresso.

   Credo sia persino esagerato dire che sia tutto soltanto questione di tempo, di elaborare un nuovo indirizzo e realizzarlo. Non mi pare si possa escludere che si inseriscano in questo nuovo corso della vita sovietica dibattiti importanti e nuovi, che ben precisino la portata degli errori compiuti e delle indispensabili correzioni, che conducono a una esatta valutazione di principio, politica e pratica, sia degli uni che delle altre. Mi pare, insomma, che gli errori di Stalin debbano essere corretti, attraverso questo ampio sviluppo, con un metodo profonda­mente diverso da quello che Stalin stesso seguì in quel periodo della sua vita in cui aveva abbandonato le rette norme di funzionamento del partito e dello Stato.

   Quanto più avverrà così, tanto più grande sarà il profitto. Ciò che noi auguriamo è che le correzioni vengano fatte, senza esitazioni, con coraggio, e che da esse esca, come deve uscire, un nuovo slancio in avanti della società socialista in tutte le direzioni, sopra una base democratica ampia, sana, piena di nuove e ricche pulsazioni vitali.


9. Credete che la critica al culto della personalità porterà a un cambiamento di rapporti tra l'URSS e le democrazie popolari, tra il Partito comunista russo e i partiti comunisti degli altri paesi, e in genere tra l'URSS e il movimento operaio internazionale?


Spero non esista più nessuno, in Italia, per lo meno, che ancora presti fede alla balorda leggenda dei partiti comunisti che ricevono da Mosca, passo a passo, le istruzioni, le direttive, gli ordini. Se ancora qualcuno esiste, per lui è inutile scrivere, perché è evidente che egli ha la testa troppo dura, che è assolutamente incapace anche solo di avvicinarsi alla comprensione dei problemi dell'odierno movimento ope­raio. Scriviamo dunque per gli altri.

   Nei primi anni dopo la prima guerra mondiale, quando si formò l'Internazionale comunista, non v'è dubbio che le principali questioni di indirizzo politico del movimento operaio e poi del movimento comu­nista nei singoli paesi vennero ampiamente dibattute al centro, a Mosca, in congressi e altre riunioni internazionali, da cui uscirono indirizzi precisi. In questo periodo si può dire esistesse una direzione centraliz­zata del movimento comunista, e la responsabilità principale di essa ricadeva sui compagni russi, assistiti da compagni provenienti da altri paesi. Ben presto però il movimento incominciò ad andare avanti da sé, soprattutto dove aveva buoni dirigenti. Nel 1924, per esempio, la decisione del nostro partito di uscire dall'assemblea aventiniana delle opposizioni e ritornare nel parlamento, fu presa da noi in netto contra­sto con il consiglio che ci veniva dai dirigenti dell'Internazionale, che era il contrario. All'epoca del VII Congresso (1935), i partiti che si erano rafforzati, che erano uniti e diretti bene, già sentivano che un centro internazionale non poteva fare altro che elaborare giudizi generali sulla situazione e sui compiti del nostro movimento, ma la decisione e attuazione politica pratica doveva essere opera dei singoli partiti, af­fidata pienamente alla loro iniziativa e responsabilità. In questo modo ci si mosse, in Francia e in Spagna, soprattutto, nel periodo delle grandi lotte tra il 1934 e il 1939; durante la guerra e ancora più dopo di essa. Se i comunisti avanzarono nella grande scia della politica inter­nazionale dell'Unione Sovietica, è perché erano convinti che quella po­litica fosse giusta, e tal essa era, in realtà.

   L'Ufficio di informazione, costituito nel 1947 con compiti ben diversi da quelli che aveva avuto l'Internazionale, fece, essenzialmente, due cose, la prima buona, la seconda cattiva. La prima fu di giustamente orientare tutto il movimento operaio nella resistenza e nella lotta contro i piani di guerra dell'imperialismo. La seconda fu di disgraziato inter­vento contro i comunisti jugoslavi. Altro non fece, se non un bollettino pubblico, utile solo a scopo di informazione. A noi italiani, per esempio, non è accaduto mai, se non nella riunione di fondazione del Cominform, di avere a discutere della nostra politica in riunioni internazionali. Tutte le iniziative da noi prese dopo la guerra furono opera esclusivamente nostra, dai compagni dirigenti di altri partiti comunisti forse nemmeno sempre pienamente comprese, perché dettate dalle condizioni in cui lavoriamo noi, in Italia, e che sono del tutto particolari. Oggi, poi, anche l'Ufficio di informazione è stato sciolto, per i motivi che sono stati ampiamente esposti.

   Gli errori compiuti da Stalin nella direzione del partito comunista sovietico contribuirono certamente, poiché limitavano i dibattiti e la vita democratica alla sommità di quel partito, a rendere alquanto este­riori e formali anche i rapporti tra i comunisti sovietici e quelli degli altri paesi, a creare tra di loro un certo distacco, senza però diminuire la reciproca fiducia, perché dei fatti che oggi vengono denunciati noi non avevamo e non potevamo avere nozione alcuna. Questo almeno per ciò che ci riguarda. In altri partiti, soprattutto nei paesi di demo­crazia popolare, alcuni degli errori di Stalin vennero dopo la guerra ripetuti in modo meccanico, così come, probabilmente, in modo mecca­nico si ebbe la tendenza a trasferire e applicare in questi paesi tutta l'esperienza e tutta la pratica sovietiche, senza tenere sempre il neces­sario conto delle particolari condizioni che in ogni paese imponevano e impongono particolari vie di sviluppo, correzioni e adattamenti del­l'esperienza sovietica.

   Le critiche a Stalin fatte al XX Congresso, giunte per la maggior parte inattese, hanno certamente colpito il quadro del movimento comu­nista internazionale e anche, in misura minore, le sue masse. Il modo come i nemici si sono buttati su queste critiche per farne strumento di lotta contro di noi ha stretto attorno al partito i suoi militanti. A parte ciò si deve dire che non vi è stata tra di essi soltanto sorpresa. Vi è stato dolore, qua e là smarrimento. Sono sorti dubbi circa il pas­sato, e così via. Queste cose non erano evitabili, data la gravità dei fatti che sono stati denunciati e il modo della denuncia; dato che i compagni sovietici, limitatisi in sostanza a denunciare i fatti e a intra­prenderne la giusta correzione, hanno sinora trascurato il compito, non ancora assolto di affrontare il difficile tema del giudizio politico e sto­rico complessivo.

   Da tutto ciò non credo possa derivare una diminuzione della re­ciproca fiducia e solidarietà tra le diverse parti del movimento comuni­sta. Deriva però senza dubbio non solo la necessità, ma il desiderio di una sempre maggiore autonomia di giudizio, e questo non potrà che far bene al nostro movimento. La struttura politica interna del movimento comunista mondiale è oggi cambiata.

   Ciò che ha fatto il Partito comunista dell'Unione Sovietica rimane, come ho detto, il primo grande modello di costruzione di una società socialista, a cui aprì la strada una profonda, decisiva frattura rivoluzio­naria. Oggi il fronte della costruzione socialista nei paesi dove i comu­nisti sono il partito dirigente s'è così allargato (comprende la terza parte del genere umano!), che anche per questa parte il modello so­vietico non può e non deve più essere obbligatorio.

   In ogni paese governato dai comunisti possono e debbono influire in modo diverso le condizioni oggettive e soggettive, le tradizioni, le forme di organizzazione del movimento. Nel resto del mondo, vi sono paesi dove ci si vuole avviare al socialismo senza che i comunisti siano il partito dirigente. In altri paesi ancora, la marcia verso il socialismo è un obiettivo per il quale si concentrano sforzi che partono da movi­menti diversi, che però spesso non hanno ancora raggiunto né un accor­do né una comprensione reciproca. Il complesso del sistema diventa policentrico e nello stesso movimento comunista non si può parlare di una guida unica, bensì di un progresso che si compie seguendo strade spesso diverse.

   Dalle critiche a Stalin risulta un problema generale comune a tutto il movimento, - il problema dei pericoli di degenerazione burocratica, di soffocamento della vita democratica, di confusione tra la forza rivo­luzionaria costruttiva e la distruzione della legalità rivoluzionaria, di distacco della direzione economica e politica dalla vita, dalla iniziativa, dalla critica e dall'attività creativa delle masse. Noi saluteremo il fatto che tra i partiti comunisti che sono al potere si stabilisca una emulazione circa il modo migliore di evitare per sempre questi pericoli.

   E a noi toccherà elaborare il metodo e la via nostra, per essere noi pure garantiti da pericoli di stagnazione e burocratizzazione, per sapere risolvere assieme i problemi della libertà per le masse lavoratrici e della giustizia sociale, e conquistarci quindi tra le masse stesse un prestigio e un seguito sempre più grandi.


Note

[1] Il capo partigiano in questione era il comunista Moranino (Gemisto), che sarebbe stato graziato, solo dopo oltre un decennio d'esilio forzato, dal presidente della repubblica Saragat.
[2] «...Dans les années 1934-1941, lorsque les impérialistes préparaient de plus en plus intensivement leur agression contre l'URSS, une intervention contre Staline pouvait provoquer des troubles que les ennemis du communisme n'auraient pas manqué d'exploiter. Une telle intervention n'eut-elle pas ouvert la voie à l'agression? Fallait-il courir un tel risque? Aucun communiste honnête n'oserait l'affirmer. Pratiquement il n'était guère possible de faire autre chose que ce qui fut fait. Il fallait "serrer les dents" et travailler à l'édification du socialisme, au renforcement de l'URSS, au renforcement des partis communistes dans le monde entier, et cela malgré les tragédies engendrées par le culte de la personnalité de Staline» (L'Humanité, 26 aprile 1956) (n.d.a.).
[3] Cfr. L'orientamento del nostro partito nelle questioni internazionali, in P. Togliatti, Opere, a cura di E. Ragionieri, v. II, Roma, Editori Riuniti, 1972, pp. 420-442.