Amadeo Bordiga
Discorso al XVII Congresso nazionale del PSI

Livorno, 17 gennaio 1921


Testo ripreso dal volume: "Da Gramsci a Berlinguer. La via italiana al socialismo attraverso i congressi del Partito comunista italiano", vol. I, 1921-1943, Edizioni del Calendario, 1985, pp. 43-61.


  Compagni! La frazione comunista, a nome della quale io parlo, ha già avuto occasione di esporre ampiamente quegli elementi di giudizio e quegli argomenti su cui si basa la sua attitudine: così nelle discussioni che il congresso hanno prece­duto, così nella relazione scritta che noi vi abbiamo distribuito, così nel discorso Terracini che ha delucidato le tesi fondamentali che con la nostra risoluzione vi proponiamo.

   Il nostro punto di vista, compendiato prima in un manifesto programma, poi nella mozione adottata dal Convegno di Imola, è noto da tempo a tutto intero il partito. Giunta a questo punto la discussione non è, compagni, mio compito riesaminare - né ciò sarebbe possibile - tutto quanto il problema. Io vorrei piuttosto ricordare da questa tribuna quale sia il valore ed il significato di questo congresso nella politica internazionale del movimento operaio dal punto di vista di quel conflitto internazionale fra il comunismo e la tendenza di destra, che vive nel mondo proletario.

   Voi dovete perciò consentirmi di premettere rapidamente alcuni fatti che dob­biamo aver presenti in una simile analisi e che risalgono a notevoli esperienze del passato, delle quali già in quei documenti che vi ricordavo, la nostra frazione ha avuto occasione di trattare ampiamente. Non è mio intento rappresentarvi qui una critica completa della degenerazione del movimento proletario e socialista nella Seconda Internazionale, ma è pure da questo punto che occorre prendere le mosse.

   Nella sua grande maggioranza il movimento socialista negli ultimi decenni che precedettero il 1914, aveva assunto quel carattere a voi ben noto che lo aveva con­dotto a travisare ed abbandonare la fondamentale dottrina marxista e la prassi rivoluzionaria che da quella dottrina scaturiva. Non fu certo caso, capriccio, vani­tà di uomini quello che determinò un indirizzo simile, ma furono gli stessi carat­teri dello svolgersi del capitalismo. Noi avevamo la sinistra marxista, sempre di­fesa, anche nel seno della vecchia Internazionale; noi possedevamo fino dall'ope­ra critica fondamentale di Marx e di Engels tutto quel bagaglio di dottrina che ci conduceva a prevedere la fine del mondo capitalistico in quella concezione dello sviluppo rivoluzionario che nel Manifesto dei comunisti è meravigliosamente com­pendiata. Ma questa previsione del modo con cui la società capitalista sarebbe scomparsa dalla storia dell'umanità, questa previsione tracciata storicamente, po­liticamente nel Manifesto dei comunisti, analizzata nei suoi dettagli nel Capita­le, non era certamente uno schema freddo e semplice che senz'altro poteva realizzarsi e senz'altro avere la sua esplicazione.

   Sì, il capitalismo, attraverso all'analisi che noi marxisti ne facevamo, appariva destinato a soccombere; lo sviluppo di certe sue intime contraddizioni appariva destinato a rimanere incapace di rappresentare, più oltre un certo punto, il siste­ma possibile di produzione di cui l'umanità poteva avvalersi. Ma nello stesso tempo il capitalismo e la società borghese elaboravano nel proprio seno degli elementi di conservazione, degli elementi di equilibrio alle condizioni della loro crisi, del­le antitossine che ogni organismo elabora per combattere le tossine che ne mina­no l'esistenza.

   Ora, il movimento proletario nella Seconda Internazionale andava a poco a poco verso questa fisionomia, anzi che essere il coefficiente decisivo del rovesciamento del capitalismo. Nella lotta suprema fra la forza produttiva che avrebbe dovuto ribellarsi all'ingranaggio dei rapporti fra produttori e borghesi, e la classe padro­nale, attraverso il complicarsi della fase capitalistica della evoluzione del mondo borghese, si era fatto diventare il movimento proletario un coefficiente di equilibrio e di conservazione del regime borghese. In quanto che, abbandonandosi da un lato - e i due fatti sono insopprimibili - nel campo dottrinario la critica fondamentale delle ideologie democratico-borghesi e piccolo-borghesi, che è il punto di partenza del marxismo, dall'altra parte non si veniva più a creare l'anti­tesi fra il proletariato gerente di nuove ideologie, di nuove forze, di nuovi siste­mi, di nuovi istituti, e tutto il meccanismo democratico proprio del sistema capi­talistico: al posto di questa fondamentale antitesi rivoluzionaria veniva a sosti­tuirsi una contradicenza, un comparteggiamento fra il principio ideologico e il sistema rappresentativo della democrazia borghese, e la funzione del movimento proletario, inteso non ancora come lo slancio supremo e autoritario della classe verso il suo destino, ma come i piccoli tentativi di gruppi, di gruppetti e di cate­gorie di impossessarsi di limitati interessi.

   Perché il grande interesse di classe proletaria non può, non deve, non riuscirà mai a realizzarsi nei quadri del meccanismo politico presente. Se i supremi desti­ni di tutta la classe proletaria non possono raggiungersi se non spazzando via le istituzioni politiche su cui il capitalismo basa il suo potere, esiste però una possi­bilità di conciliazione degli interessi immediati, contingenti, del gruppo o della categoria, con quelle soddisfazioni che si possono, sia pure illusoriamente, perse­guire avvalendosi del meccanismo democratico, avvalendosi del diritto elettora­le, avvalendosi di quel tanto di diritto che la società borghese deve riconoscere alle masse proletarie nella sua costituzione.

   In questa seconda funzione che il socialismo aveva assunto, o compagni, nella Seconda Internazionale, esso era divenuto un movimento sindacale cooperativo di gruppi operai, per interessi immediati, su cui si allacciava perfettamente un movimento puramente elettoralistico, puramente socialdemocratico di conquista dei mandati elettivi nell'organismo rappresentativo borghese, allo scopo di por­tare innanzi la borghesia a lato di una classe destinata a combatterla e ad abbatterla.

   Questo movimento, questo fenomeno storico, limitando l'ascendere rapidissi­mo del profitto capitalistico, servendo da fattore di equilibrio alla avidità di gua­dagno della classe borghese, compensava quel processo fatale di accentramento dei capitali, di accrescimento della miseria, di esasperazione dei rapporti capita­listici, compensava senza poterlo eliminare definitivamente, compensava questo processo e faceva sì che la società borghese potesse trovare equilibrio in quella sua intima contraddizione, propria delle funzioni del movimento proletario, propria delle funzioni della più gran parte del movimento socialista della Seconda Inter­nazionale che aveva relegato le vecchie formule rivoluzionarie al posto di un freddo quadro su cui si lanciava qualche volta uno sguardo, e che si chiamava il pro­gramma massimo, ma che viceversa dedicava tutta la sua attività, tutta la sua prassi in quella relazione che aveva scritto per il suo programma minimo e che non rap­presentava altro che dei gradini che il proletariato avrebbe dovuto percorrere a gradi. Orbene, questo movimento revisionista era caratterizzato da una dottrina e da una teoria che la storia ha dimostrato fallace. La concezione marxista pessi­mistica, catastrofica, rivoluzionaria, che diceva non essere possibile uscire pacifi­camente dal meccanismo dell'attuale società e che non era possibile evitare che la contraddizione del capitalismo conducesse ad una suprema battaglia rivoluzio­naria fra le classi, questa previsione storica era sostituita dall'altra previsione: che invece il mondo capitalista si sarebbe gradualmente, lentamente, ma sicuramen­te modificato, accettando queste iniezioni di socialismo che si andavano facendo nelle diverse sue strutture fino a diventare, senza bisogno di questo urto supre­mo, senza bisogno di questo conflitto, di questa catastrofe, a diventare a poco a poco, a trasformarsi nella società socialista, nella società basata sulla socializza­zione dei mezzi di produzione e di scambio.

   Orbene, io non insisterò molto nel dimostrarvi come la guerra sia la dimostra­zione della fallacia di questa dottrina. Non devo fare una conferenza di propa­ganda, né posso attardarmi a dimostrare come appunto la guerra, crisi suprema, ultima fase dell'imperialismo capitalistico, non faccia altro che riconfermare quella caratteristica che la dottrina di Marx aveva segnato alla crisi finale del regime bor­ghese. Quindi, dinanzi alla guerra, il movimento si vide togliere dalla storia la possibilità di realizzare il suo programma. Quale fu il suo compito, quale fu il suo rôle in una situazione di questo genere? E qui interviene anche a spiegarci questa situazione, che poi - come vedremo - si ripete nell'episodio del dopo guerra: interviene a spiegarci che la nostra dottrina, il nostro metodo critico, non è volontà di uomini; che non è la coscienza o il pensiero che dirigono la storia, ma sono forze più complesse e più profonde. Di modo che non era possibile at­tendere che quei revisionisti che avevano escluso la possibilità di un attacco rivo­luzionario fra proletariato e borghesia, che avevano accarezzato l'illusione della rivoluzione pacifica e graduale del mondo capitalistico, che non solo doveva esclu­dere la guerra di classe, ma escludere la stessa guerra fra Stato e Stato capitalisti­co; non era possibile che dinanzi al fenomeno così grandioso, al suo esplodere, nonostante l'ammonimento venuto dall'ultimo congresso della Seconda Interna­zionale, non era possibile che tutti costoro dicessero: «Abbiamo errato; le nostre teorie erano sbagliate e quindi siamo pronti a ritornare sui nostri passi». Ed è là che bisogna ritornare: all'antica via del metodo rivoluzionario, e bisogna quindi rifiutare di seguire la borghesia nella guerra, e bisogna piuttosto accettar quelle armi che essa porge ai proletari per adoperarle nell'urto rivoluzionario.

   Questo non era possibile ed ecco anche perché quando parliamo del fenomeno che sono qui a trattarvi, seppure lo vogliamo dire - in mancanza di termine mi­gliore che forse si troverà in qualunque lingua - fenomeno di opportunismo, non intendiamo fare una definizione di ordine etico e individuale: intendiamo parlare di un fenomeno superiore ad ogni volontà di coloro che erano alla testa del movimento proletario alla vigilia della guerra. Il campo sindacale da una par­te, il campo parlamentare dall'altra erano i guidatori del meccanismo congegna­to per raggiungere quell'effetto, per dare al proletariato quelle piccole soddisfa­zioni e quei piccoli miglioramenti e per arrivare a questo risultato avevano inevi­tabilmente dovuto poggiare la loro macchina in tale modo da essere in continuo contatto, in continua discussione, in continua transazione con la borghesia, in accordi continui nel campo sindacale che tendevano sempre più a incanalarsi nel­la via della collaborazione politica, del possibilismo, di accordo nell'amministra­zione stessa della pubblica cosa e nell'intervento stesso dei rappresentanti del pro­letariato nel meccanismo del potere governamentale borghese. Ecco perché non fu possibile nel 1914 arrestare questa macchina che pure il proletariato alimenta­va coi suoi sforzi, con la sua cassa, coi suoi sacrifici, con la sua azione, e qualche volta anche col suo sangue, perché anche allora eranvi episodi violenti della lotta di classe. Essa seguitò a girare ed i suoi dirigenti seguitarono a farle seguire lo stesso metodo non potendo alterarne il cammino fatale.

   Ma questo meccanismo, se veniva a perdere il suo obbiettivo finale e la sua concezione teorica, non poteva perdere la sua prassi e la sua struttura meccanica, e poiché esso serviva all'equilibrio della borghesia, il fine, cioè la collaborazione, mancò perché la possibilità del riformismo mancava. Ma il fatto della collabora­zione, superiore alla volontà di ognuno, restò, e quindi il Partito socialista e le organizzazioni proletarie delle più grandi parti del mondo divennero i migliori strumenti che il capitalismo avesse potuto immaginare e desiderare per condurre le folle proletarie, senza resistere, al sacrificio della guerra nazionale.

   Tutto ciò ho voluto ricordare solamente per stabilire i caratteri di questo feno­meno che ho domandato di chiamare «opportunismo». Esso non poteva prefig­gersi una finalità che non è nella sua storia, e non poteva fare altro che insistere nella vecchia prassi, nel vecchio metodo e diventare un elemento di difesa della classe borghese contro la classe proletaria.

   Senza proseguire questa analisi in tutti i suoi dettagli, noi ritroviamo il feno­meno dinanzi alla situazione del dopo guerra. [...]

   Quale è la tesi fondamentale della Terza Internazionale? La tesi fondamentale è questa: la situazione ereditata dalla guerra degli Stati borghesi deve essere volta alla guerra rivoluzionaria fra le classi di tutto quanto il mondo. E, compagni, all'indomani della guerra anche i residui del vecchio errore determinarono una situazione analoga. Noi vediamo dinanzi a questa situazione, mentre i comunisti marxisti affermano che bisogna indirizzare il moto proletario a questo program­ma massimo che finalmente si riavvicina alla prospettiva della storia, che final­mente è tangibile, che finalmente in alcuni paesi è realizzato, e cioè il risultato supremo ed unico della conquista del potere politico, punto di partenza della rivoluzione proletaria, mentre a sinistra il marxismo comunista afferma col pen­siero e con la azione questa verità, il vecchio errore ed il vecchio metodo esistono ancora in tutto il mondo, in tutti i paesi ed affermano ancora che, malgrado la terribile catastrofe della guerra, malgrado che essa abbia per sempre condannato e disonorato il meccanismo socialdemocratico capitalistico, tuttavia siamo anco­ra, come allora, dinanzi ad un periodo di graduale evoluzione, di successive con­quiste, di parziali risultati, e negano questa tattica che, ritornando finalmente alla concezione originaria del marxismo rivoluzionario, dice al proletariato di lot­tare soltanto per la conquista del potere, e che solo servendosene per spezzare l'apparato statale borghese, la sua polizia ed il suo esercito, i suoi Parlamenti po­trà foggiare il nuovo apparato statale, l'apparato dei Consigli proletari. Così solo si può costituire un istrumento il quale serva ad intervenire nei rapporti fra pro­duzione e capitalismo ed a trasformarli nel senso di sopprimere lo sfruttamento del lavoratore ed il dislivello delle classi.

   Dinanzi a questa tesi ancora appare equivoca l'insidia revisionista.

   Ebbene, o compagni, il fenomeno si ripete. Questo fenomeno si è ripetuto in Russia, in modo evidente, dinanzi ad una situazione rivoluzionaria determi­natasi in quel paese prima che altrove, e se fosse luogo a discutere dettagliata­mente di questo si dovrebbero rievocare molte cose della storia che ha attraversa­to il proletariato d'Occidente!

   Dunque, compagni, quando si determina il problema «come deve il proleta­riato liquidare l'eredità della guerra», il revisionismo, con maggior ragione che altrove, effettivamente poteva sostenersi in Russia perché era l'unico paese ove la forma democratica della rivoluzione poteva essere affermata dal punto di vista socialista, poteva sostenersi anche in presenza della necessità di lasciare funziona­re per qualche tempo una costituzione politica di ordine parlamentare e demo­cratico. Ma anche lì, sovrattutto lì, nel paese dove meno avrebbe dovuto avvenire e dove è avvenuta, contro le condizioni locali, per effetto di una condizione uni­versale, la eredità storica della situazione di guerra ha fatto sì che quando il pro­letariato russo si è trovato di fronte al problema della massima realizzazione della conquista del potere dall'abbattimento di quegli istituti democratici che erano appena nati; anche lì il movimento proletario si è diviso, anche lì sono stati i seguaci delle dottrine socialdemocratiche e riformiste, i capi politici del proleta­riato, i quali hanno detto: «No, non è questa la prospettiva, non questo l'avve­nire. Non può il proletariato russo arrivare a questo. No. Anche senza negare che si debba giungere in Russia alla dittatura del proletariato, perché questo pro­blema lo ha meglio elaborato il movimento socialista russo che quello degli altri paesi». E dimostrarono prima, nelle conferenze internazionali durante la guer­ra, a Zimmerwald ed a Kienthal, ove convennero molti socialisti contrari alla guerra per diverse ragioni. Ma, come dicevo, fu la sinistra della Russia bolscevica che pose con più grande chiarezza la tesi: non bastava deprecare la guerra come si potevano deprecare una volta le nequizie del capitalismo, ma bisognava dichia­rare che la parola d'ordine da lanciare alle masse era questa: dalla guerra nazio­nale degli Stati alla guerra civile del proletariato.

   In Russia, dunque, compagni, avvenne perfettamente, con assoluta analogia, lo stesso fenomeno di questo movimento riformista, menscevico, socialdemocra­tico, dinanzi al momento supremo in cui ormai il proletariato, poggiandosi sul nuovo istituto, impadronendosi delle armi che l'esercito e la marina avevano nel­le loro mani, ingaggiava la battaglia suprema per la conquista del potere. In quel momento il menscevismo non disse: «Le mie teorie falliscono, quello che crede­vo impossibile nella Russia di oggi è invece realtà imminente di domani perché già il proletariato è in piedi, infiammato da questa parola d'ordine della conqui­sta del potere». Esso non disse questo perché queste conversioni non sono possi­bili, perché aveva nelle sue mani una struttura, un meccanismo che doveva se­guitare a girare come aveva girato fino allora, funzionando a fianco di Kerenskij e Martov, seguitando ad esplicare la sua prassi di collaborazione borghese. E quando Lenin si levò di fronte a Kerenskij, i menscevichi non scelsero, ma andarono con Kerenskij e andarono con la causa della borghesia contro la causa della rivoluzione.

   Io voglio sorpassare le analoghe constatazioni che si possono fare ove si tratti delle altre rivoluzioni comuniste non trionfate, come la rivoluzione russa, ma fallite. Voglio appena accennare che queste esperienze di ordine storico vengono confer­mate sovratutto da quelle rivoluzioni che si sono arrestate alla fase socialdemo­cratica capeggiata dai riformisti. In quanto anche essi sono per la presa del pote­re, ma essi vogliono andare senza il preventivo attacco violento alle istituzioni attuali e quindi senza nessuna forza che permetta loro come primo atto la sosti­tuzione del proletariato alla borghesia, di prendere questo meccanismo giuridi­co, militare, poliziottesco e spazzarlo e buttarlo via in rottami come quello di un ordigno che nella storia abbia fatto il suo tempo, per lasciare il posto all'ir­rompere di altro istituto.

   Essi questo non vogliono credere possibile. Essi non credono che il proletariato possa gestire il potere solo dopo aver spezzato la macchina gestita dai suoi op­pressori: essi credono che esso possa usufruire degli stessi ordigni che oggi il pro­letariato si trova dinanzi quando attacca i privilegi della minoranza borghese.

   Dicevo che abbiamo avuto dei governi socialdemocratici. Badate non solo in collaborazione coi partiti borghesi, ma anche dei governi fondati su parlamenti socialisti alla unanimità meno uno o meno due, come nell'Ucraina e nella Geor­gia, e come in altri paesi in modo meno evidente. Si è visto così nella maniera più grande il fallimento della socialdemocrazia, perché non solo questi paesi non hanno realizzato ciò che, fra mille ostacoli, la dittatura del proletariato ha realiz­zato in Russia, nella costituzione economica su pure basi marxiste, contro qua­lunque menzogna borghese; non solo non hanno realizzato nemmeno quella lo­ro tesi storica che Terracini ha ben spiegato; ma non hanno neppure potuto con­fermare la loro dichiarazione che può il proletariato andare al potere per le vie democratiche evitando la dittatura e la violenza, evitando la violazione di libertà e di diritto di pensiero e di agitazione perché i loro governi hanno avuto bisogno di dittatura, di violenza, di soppressione dell'altrui libertà. Ma come si è verifica­to questo? Mentre nella dittatura dei Soviet russi chi giace sotto la dittatura stes­sa, chi subisce anche gli orrori del terrore rosso ed è calcolato nemico della causa del proletariato, è la classe degli sfruttatori, privata dei suoi antichi diritti e privi­legi, che cerca di insidiare le conquiste della rivoluzione; in questi paesi, invece, si esercita la dittatura, si esercita la violenza, si applica il terrore, contro i proleta­ri, contro i comunisti.

   Ecco dunque, compagni, le due alternative che la storia mondiale oggi presen­ta: dittatura borghese o dittatura proletaria. Ma qui viene la funzione della scuo­la intermedia che dice «avanti» ai proletari, ma senza dittatura e senza violenza. La sua funzione è segnata nella storia al di là della volontà e della sua coscienza, e cioè di essere l'ultima gerente della dittatura borghese contro la rivoluzione pro­letaria. Quindi, compagni, abbiamo cercato più che ricordare i casi in antitesi, di stabilire quali siano i sintomi preventivi di questo pericolo il quale è nelle file, anche oggi, del movimento proletario. Abbiamo cercato di vedere il carattere di questo movimento perché oggi che su tutto il mondo, per effetto del valore socialista prodotto dalla guerra e dalla rivoluzione russa, per iniziativa e legittimo onore dei compagni del grande partito marxista e rivoluzionario di Russia, oggi che si ricostituisce un nuovo ordigno di lotta e di riscossa del proletariato, biso­gna ricostruirlo con criteri antitetici e opposti; bisogna evitare che esso possa an­cora correre il rischio di diventare un meccanismo di conservazione e di equili­brio capitalistico anziché diventare arma ben temprata che nel pugno del gigante proletario servirà a sorpassare le ultime resistenze del mondo attuale.

   E quindi, compagni, ecco il problema dinanzi a cui l'Internazionale comuni­sta s'è trovata in quanto che nel disgregarsi dei vecchi partiti della Seconda Inter­nazionale, nella impossibilità per essi di riprendere il loro compito di prima della guerra perché troppo clamorosamente erano stati disonorati dinanzi alla grande massa proletaria, ecco che si verifica il fatto che taluni di questi partiti cercano di entrare nella Terza Internazionale e verso il principio dell'anno scorso in pa­recchi congressi alcuni partiti sostanzialmente socialdemocratici abbandonano la Seconda Internazionale riservandosi di entrare nella Terza. E allora, o compagni, dinanzi a questo principale problema, il Comitato esecutivo della Internazionale comunista convocò il congresso di Mosca. Si trattava di identificare questo peri­colo, di vedere quali sono i suoi caratteri, di assodare quali sono le norme con cui si possa guardarsene, di fare la diagnosi e trovare la cura di questa malattia opportunista che minaccia di incancrenire il pericoloso movimento proletario, che minaccia di penetrare nelle stesse file della nuova Internazionale che si costitui­sce. E allora, attraverso il materiale di critica che il pensiero comunista marxista ha opposto non da oggi, ma da prima della guerra, dalle note polemiche di allo­ra fra la sinistra rivoluzionaria e la destra riformista, da tutto questo materiale si trassero le prime basi per l'identificazione del pericolo riformista.

   E poiché credo che questo congresso darà qualche cosa ancora per l'esperienza internazionale di questa lotta, voglio ricordare quali sono i caratteristici argomenti che gli opportunisti invocano, allo scopo di vedere dove essi siano in Italia, se essi siano ancora in Italia, come bisogna liberare il movimento e quale monito venga dal risultato di questo congresso, e, in questo senso, quale sarà la conse­guenza in tutto quanto il movimento comunista del proletariato internazionale.

   Vi dicevo che il movimento revisionista era caratterizzato da quelle pratiche su cui non occorre insistere, tutte corporative nella economia, tutte elettorali nel­la politica; ma esso era caratterizzato anche da certe sue tesi favorite. In fondo esso si riferiva alla ideologia, alla dottrina, alla teoria, con un argomento di mol­to facile applicazione demagogica e che molte volte ha strappato l'applauso ai proletari sinceramente rivoluzionari, anche quando l'ascoltare le indicazioni del­la dottrina avrebbe servito ad essi per premunirsi contro l'insidia che si annidava invece nel facile motivo oratorio. Ma noi vogliamo fare azione; non vogliamo fa­re teoria. Ora il movimento revisionista aveva sostanzialmente acquistato il suo posto nel pensiero marxistico dei rivoluzionari demolitori, aveva acquistato tutte le forme della ideologia borghese e piccolo-borghese e cioè, mercé certi suoi spe­cifici argomenti, delle strane contraddizioni fra la sua tesi di oggi e di ieri, tale elasticità e disinvoltura con la quale evolveva attraverso le situazioni terminando sempre senza saperlo con elaborare le risposte meno rivoluzionarie.

   Un argomento caratteristico? Io ne ricorderò alcuni anche perché non voglio tediarvi. Il modo di considerare da parte del riformismo il problema della rivolu­zione. Allorquando, alla vigilia della guerra, il problema non era all'ordine del giorno della storia, non stava dinanzi a noi, quando anche allora abbiamo parla­to di programma rivoluzionario e di tendenza rivoluzionaria si era perché noi dicevamo: sì, non è possibile fare la rivoluzione oggi, non esistono tutte le condi­zioni di forza proletaria che possano permettere questo supremo urto, ma biso­gna tuttavia fare la propaganda in mezzo al proletariato della necessità di questa evoluzione, bisogna dire che in ogni episodio, in ogni lotta egli non risolve nul­la, ma acquista una esperienza di più, che questo attuale meccanismo sociale non offre uno spiraglio di luce per il suo avvenire se non si spezza e si disperde per fissare lo sguardo nel cielo aperto. Questa questione fu invece sempre girata dal riformismo ed è una vecchia polemica dei nostri congressi. Fu girata col dire che dal momento che la rivoluzione non è possibile, perché distruggere? «Noi, essi dicono, siamo dei realizzatori, siamo dei pratici, vogliamo dire alle masse ciò che possono fare oggi, non quello che potrebbero fare domani». E con questo sofi­sma del valutare le condizioni contingenti si combatteva la nostra tesi intransi­gente. Perché si diceva: come fate a dire che non si debbano fare blocchi elettora­li, che non si deve fare collaborazione di classe? Oggi non bisogna farli, ma do­mani la situazione cambierà; sarà un'altra, chi sa quale potrà essere. E di ciò il riformismo non aveva la sua visione storica: aveva dovuto abbandonare quella antica visione schematica, ma potentemente rivoluzionaria in questo suo program­ma che il marxismo aveva tracciato. Esso aveva messo sulla sua bandiera la famosa formula di Bernstein: «Il fine è nulla, il movimento è tutto». E la prassi quoti­diana che comporta la conquista di qualche cosa nel campo economico, di fare scioperi ed elezioni. Tutto ciò è fine a se stesso e non occorre avere mète. Il prole­tariato non sa che farsene. Ed è curiosissimo, compagni, come su un altro proble­ma si equivochi fondamentalmente quando cioè si chiama noi volontaristi. Ma volontaristi siete stati voi che avete accusato di eccessivo determinismo, che dege­nerava nel fatalismo, quella affermazione che l'azione di allora non era nulla e tutto doveva riporsi nel fine lontano che doveva condurci alla aspettativa negati­va del massimalismo storico, mentre voi conducevate il proletariato ad una trasformazione meno profonda della trasformazione effettiva dei rapporti nella so­cietà esistente.

   Se vi furono due revisioni volontaristiche del determinismo marxista che dava­no per il riformismo la interesistenza della legge storica e della volontà umana, queste due revisioni furono tutte e due contro di noi. Così la revisione dei rifor­misti come quella dei sindacalisti. Mentre invece la sinistra marxista diceva già allora che bisognava abituare il proletariato a guardare lontano perché la situa­zione storica non gli dava la possibilità di agire. E l'ostacolo maggiore alla attua­zione della rivoluzione proletaria, non è dato dalla volontà di azione del proleta­riato, ma dallo stesso bagaglio delle sue dottrine, dallo stesso metodo critico; mentre invece noi diciamo che oggi, in questo dopo guerra, la volontà del proletariato coincide con l'atto supremo con cui esso deve superare la struttura del mondo capitalistico.

   Non vi sarebbero queste condizioni rivoluzionarie? Interessanti anche qui gli argomenti del revisionismo. Interessantissimi. Non ci sono perché l'economia ca­pitalistica è misera. Voi però nel vostro formulario marxista non potete avere di­menticato una asserzione: che cioè allorché una società nuova nasce, significa che tutte le sue condizioni sono maturate nel seno della società antica, che il proleta­riato potrà iniziare l'atto rivoluzionario che conduce al comunismo quando sarà completa la evoluzione della forma economica e storica del mondo borghese. Eb­bene: è strano, ma per il riformismo si era lontani da questa situazione nel 1914 perché l'economia capitalistica era troppo florida, troppo civile, lasciava perdere qualche briciola del suo banchetto sulle folle proletarie, e adesso che esistono le condizioni inverse, che il meccanismo capitalista non va più e cagiona la carestia, la miseria e la sofferenza del proletariato di tutto il mondo, oggi si dice che la macchina è troppo sconquassata perché se ne possa prendere possesso.

   Senza una dottrina, senza una idea, ma con questo metodo quotidiano di af­frontare la situazione contingente, quest'arte diligente offriva sempre la sua con­traddizione al proletariato con risposte che meglio dovevano allontanare ogni vo­lontà ed ogni energia rivoluzionaria.

   Anche nell'internazionalismo le varie nazioni hanno capovolto le tesi. Vi ri­cordate quando durante la guerra noi ci opponevamo alla formula «Né aderire né sabotare la guerra», ed eravamo invece, sia pure in teoria soltanto, per la stes­sa formula bolscevica di sabotare la guerra borghese? Quando certi moti del pro­letariato nel 1917 e nel 1918 facevano intravedere la possibilità di risolverla in una azione contro lo Stato borghese, voi la ricordate l'obbiezione dei nostri de­stri? Rivoluzione sì, ma in tutti i paesi nello stesso momento perché altrimenti si fa la causa di una borghesia contro quella di altre borghesie. Oggi invece che la rivoluzione è cominciata e da tre anni il proletariato russo è in piedi e da solo difende le sue sorti, oggi che la rivoluzione è minacciata, noi dobbiamo attende­re perché là vi sono state le condizioni, qui le condizioni non sono ancora mature.

   E vengo all'argomento principe, appunto questo: la differenza di ambiente. Nessuno di noi contesta che la rivoluzione possa essere atto dello stesso istante in tutti i paesi. Ma veniamo alla questione delle differenze nazionali che Marx ha affermato e che nella Terza Internazionale noi, suoi gregari modestissimi, non ci sognammo di negare. Il II Congresso della Terza Internazionale sapeva molto bene della esistenza di questo problema della differenza ambientale, ma non da questo ha concluso nella assoluta autonomia dei partiti nazionali. Ha ammesso una certa autonomia. Voi avete citato anche questo. E vero. Ma vediamo in quale modo le risoluzioni del II Congresso di Mosca si applicano a questo problema della direzione di insieme della azione internazionale proletaria e della differen­za di esigenze che l'azione può presentare in un paese anziché in un altro.

   Due ordini di tesi ci ha dato il congresso di Mosca: tesi sulle condizioni di am­missione che devono appunto garantire che non entri nella Terza Internazionale alcun partito opportunistico non comunista, e tesi sui compiti principali della Internazionale comunista. E in queste seconde tesi - e ne esiste una serie per ciascun paese - sono vagliate le differenti condizioni dei diversi paesi. E nelle prime tesi che, non i russi, ma tutti i comunisti di tutti i paesi, hanno voluto scrivere, hanno scritto, in modo forse non perfettissimo - secondo me non per­fetto perché avrebbero dovuto essere ancora più aspri - quanto vi era di interna­zionale nel processo di organizzazione nel nuovo movimento, quanto deve do­vunque servire a differenziare le forze che vengono sulla piattaforma del comuni­smo marxista da quelle invece che restano più o meno velate nella cerchia del­l'antico terreno socialdemocratico e della Seconda Internazionale.

   Ed allora noi affermiamo che il supremo consesso internazionale ha non solo il diritto di stabilire queste formule che vigono e devono vigere senza eccezione per tutti i paesi, ma ha anche il diritto d'occuparsi della situazione di un solo paese e potere dire quindi che l'Internazionale pensa che - ad esempio - in Inghilterra si debba fare, agire in quel dato modo. Così stabilito quindi, non è esatto dire che le speciali situazioni dei diversi paesi non siano state considerate. Nessuno di noi ha mai affermato che la stessa precisa tattica debba applicarsi a tutti quanti i paesi: vi è una parte di condizioni - e badate che non sono condi­zioni tattiche, sono condizioni di organizzazione: le condizioni di ammissione che servono a dirigere tanto l'azione dei partiti quanto a raccogliere in ogni pae­se, dove sono dei comunisti, degli aggruppamenti di questa tendenza storicamente marxista per essere compresi nel seno della Terza Internazionale, in armonia col­le sue dottrine, coi suoi metodi e colle sue finalità. Ma, come dicevo, il congresso ha anche esaminato le differenti condizioni in cui si trovano i vari paesi e come per l'Inghilterra ha riconosciuto il bisogno di adattare le tesi, pur rimanendo nei deliberati del II Congresso della Terza Internazionale, così per l'Italia ha fatto qualcosa partitamente. La 17a tesi sulle condizioni di ammissione, mentre non ha escluso che vengano anche in Italia, come dovunque, applicate integralmente le 21 condizioni - in quanto che voi non troverete in nessuna tesi speciale e na­zionale qualche cosa che contraddica le 21 condizioni perché se questa contraddi­zione si fosse constatata allora quella tesi si doveva cancellare, perché non era al suo posto - consente l'applicazione di esse secondo le esigenze di questo o quel partito, senza però togliere quelle condizioni indispensabili per tutti i partiti. Ec­co dunque il meccanismo logico col quale il II Congresso ha deliberato, ecco le basi su cui è fondata l'organizzazione internazionale cui non possiamo sottrarci ed ecco come il problema delle differenti condizioni e della autonomia si pone dal punto di vista della organizzazione e della tattica comunista.

   Ma vi è anche un altro interessante argomento, che ha una caratteristica senti­mentale, col quale si contrasta l'accettazione di queste 21 condizioni. Si è do­vunque formata una corrente che dice: accettiamo; però nel paese nostro non pos­siamo applicarle perché vi sono condizioni speciali. Ciò è stato affermato in Ita­lia, in Francia, in Svizzera, in Germania, in Inghilterra. Se si accettasse questo principio le 21 condizioni non sarebbero applicate in nessun paese del mondo.

   Si dice ancora: le 21 condizioni corrispondono alle condizioni della Russia. Non è vero. Fanno tesoro dell'esperienza russa e non credo che vi sia qui qualcuno così cieco da voler negare il valore dell'esperienza russa nel giudizio internazio­nale della lotta proletaria, salvo ad accettarlo o non accettarlo. Ma le 21 condizio­ni non servono per la Russia. La Russia è l'unico paese cui non servono perché là il pericolo dell'opportunismo è superato.

   Se voi leggete una qualunque delle 21 condizioni vi accorgete subito che quasi tutte non si possono applicare al Partito comunista russo. Dove si dice, per esem­pio, che si deve fare la azione illegale non è che si dica per la Russia, perché là esiste la legalità proletaria e sovietista e l'azione illegale non si deve più fare. Do­ve si dice che si devono combattere i bund riformisti, sindacali, non è per la Rus­sia che lo si dice. Dove si dice che si deve andare nei Parlamenti anche se saremo costretti ad andarci con la corda al collo, non è per la Russia che lo si dice, perché là Parlamenti non ce ne sono più, come io auguro che sia anche qui prima delle prossime elezioni.

   Voi vedete dunque che le 21 condizioni non rispondono alle particolari circo­stanze russe.

   Ma c'è un altro argomento, anch'esso alquanto sintomatico. Vi sono i disfatti­sti della rivoluzione russa, coloro che hanno combattuto contro le falangi rosse del proletariato russo nelle file degli eserciti della reazione, coloro che hanno per lo meno esercitato la loro complicità con tutti gli atti di jugulamento della Re­pubblica proletaria, i Martov, i Cernov e simile mirabile genia che girano per i congressi dei partiti proletari di tutto il mondo e vanno a dire che l'Internazio­nale comunista vuole applicarvi per forza quei metodi che sono stati applicati in Russia. Ma dove è detto questo? E per di più coloro che dicono questo sono proprio quelli che anche in Russia sono stati contro quei metodi ed hanno combattuto anche là contro la dittatura del proletariato e contro il principio sovietista.

   Voi vedete dunque come questo argomento della differenza di condizioni non si riduca che a uno dei tanti sofismi che si costruiscono per conchiudere: la rivo­luzione sì, la dittatura sì, tutto quello che volete sì, ma non adesso, non in que­sto posto, domani, altrove.

   Dunque vediamo ora, di fronte a questo processo generale, come si è compor­tato il Partito socialista italiano. Quel processo di superamento - era naturale che ci si venisse - delle vecchie strutture, del vecchio meccanismo, dei vecchi sistemi che negli altri paesi si è fatto con lo spezzarsi dei partiti all'attimo stesso della guerra, con la loro adesione esplicita alla causa borghese, si presentò in Ita­lia in condizioni diverse. Vediamo come queste condizioni diverse debbano ser­vire alle diverse conclusioni ed alle speciali esperienze che la situazione italiana e che il nascere in Italia di un movimento comunista dovevano creare nel seno dell'Internazionale tutta. Vediamo se queste particolari condizioni conducono a concludere con quella che è la vostra affermazione, che il Partito socialista italia­no è l'unico nel mondo che sarà passato attraverso alla guerra, che andrà alla sua rivoluzione con tutta la sua struttura, oppure se invece la conclusione non sia ama­ramente l'opposta e cioè che qui la crisi deve essere più profonda e più aspra.

   Ora se alla vigilia della guerra il nostro partito aveva delle importanti esperien­ze teoriche e tattiche che io pongo anche al disopra della sua opposizione alla guerra, si è perché nel nostro partito si era iniziata la lotta tra la sinistra marxista e l'insidia socialdemocratica, non in quella forma precisa in cui teoricamente il problema era stato posto nel seno del Partito socialdemocratico russo, perché non avevamo avuto una situazione rivoluzionaria come quella del 1905 in Russia, ma si era iniziato un dibattito tra le due tendenze, si era iniziata la demolizione dell'insidia democratica, il disincrostamento di quella ideologia piccolo-borghese che aveva addormentato il proletariato adagiandosi su quel meccanismo di attività elettorale e sindacale che era anche qui giunto al suo apogeo.

   Perché quando sembrò trionfare il riformismo nel 1910-11 si fondava su que­ste due universali caratteristiche: sull'azione parlamentare possibilistica o sulla tendenza ad essere e sull'azione corporativa minimalistica delle organizzazioni e dei sindacati e delle cooperative proletarie. Orbene, noi arrivammo a scrivere alcune tesi in senso marxista contro questi errori; ma avemmo noi il tempo, pri­ma della guerra, di superare quella struttura e quel meccanismo? No. Noi trion­fammo nei congressi, noi condannammo la collaborazione elettorale, sconfessammo coloro che volevano arrivare alle conclusioni possibilistiche, mandammo via i mas­soni, dichiarammo di ritornare alle basi massimali e fondamentali del marxismo rivoluzionario, ma non avemmo il tempo di tradurre nella prassi quotidiana del partito queste affermazioni, anche perché se la situazione in Italia era prima na­turale, perché una scintilla della guerra europea aveva arso tra noi due anni pri­ma, nella guerra libica, e ci aveva incanalato logicamente sulla via di questa revi­sione che oggi si estende e si completa, tuttavia non bastava, non c'erano state ancora quelle condizioni che in tutto il resto del mondo hanno posto inesorabil­mente il problema in una nuova luce storica, non nella soluzione tattica che sulle basi del pensiero marxista si poteva dare in una situazione quasi normale dell'an­teguerra, ma sulle basi di quella soluzione più compiuta che si può dare oggi dinanzi ad una inesorabile crisi che la guerra ha affrettato nel mondo intero.

   Ed allora voi vedete - e non voglio ricordare ciò che molto bene è stato detto e ciò che c'è nella nostra relazione sulle caratteristiche dell'entrata dell'Italia in guerra, sulla maggiore o minore opposizione, ecc. - che questo nostro partito - dico ed affermo - entrò nella guerra con la sua vecchia struttura e col suo vecchio meccanismo, coi suoi vecchi metodi parlamentari e sindacali, di cui si era intrapresa la correzione fino al punto di potersi impadronire della Direzione del partito ma solo per incominciare un lavoro di tutti i giorni e di tutte le ore, anche durante la guerra, contro l'influenza del vecchio partito riformista, che si annidava nelle sue antiche reti, che dominava nel gruppo parlamentare e che dominava nei sindacati. Ed allora la guerra sorprende il partito, che non ha ancora, e non poteva averlo, completato questo suo compito. E' all'indomani della guerra che questo avrebbe dovuto avvenire, come negli altri paesi è avvenuto con una prima frattura tra fautori ed avversari della guerra, frattura che non è stata in nessun posto una frattura definitiva, perché tra gli avversari della guerra è occor­so ancora fare un'altra distinzione che non è fatta solo nella teoria, ma anche nella esperienza storica di tutto il mondo contemporaneo e cioè: siete stati con­trari alla guerra soltanto perché avreste desiderato che la guerra non ci fosse, per­ché avete deprecato questo fenomeno che ha sconvolto i vostri antichi schemi ri­formisti, pacifisti, cristiani, umani, o siete contro la guerra nel senso di dire che è giunta l'ora di passare alla guerra guerreggiata tra le classi, alla violenza riven­dicatrice... E' la terza volta che sono costretto a ricordare questo concetto, e se applaudite sempre stiamo freschi!

   Dunque, anche tra gli avversari della guerra, si produce la seconda frattura. In Italia della prima non vi fu bisogno, lo concedo, ma la seconda non si produs­se. Il partito si svegliò all'indomani della guerra in una situazione che aveva delle caratteristiche rivoluzionarie, ma che non era certamente la situazione in cui si svegliò il movimento socialista russo o tedesco. E' indubbio, è pacifico che, tra i paesi vincitori, era l'Italia quello che usciva dalla guerra con la situazione più tesa, più economicamente critica, ma dall'altra parte non si delineò immediatamente il problema della conquista del potere da parte del proletariato, dinanzi al quale si sarebbe spezzato inevitabilmente l'antico partito. Esso si delineò per riflesso di quella revisione universale dei valori socialisti che prendeva ammae­stramento dalla rivoluzione russa e dalle rivoluzioni degli altri paesi.

   Orbene, disgraziatamente bisogna constatare che questo partito, all'indomani della guerra, ha ripreso la sua funzione: ha cambiato la formula, ha cambiato il programma, ha seguitato ad essere diretto da uomini di sinistra, ha anche in­neggiato alla rivoluzione ed ai metodi che si erano riaffermati nella rivoluzione russa, alla dittatura del proletariato, al sistema sovietista, ma ciò che più premeva in questo meccanismo, che per tanti anni aveva girato così e che attendeva la fine della guerra per cominciare a seguitare a girare, per rifare le sue ruote nella organizzazione economica, nei comitati elettorali, ciò che più premeva era di chiude­re la parentesi per rimettersi a tessere quella medesima tela, servendosi dell'op­posizione alla guerra non per una feroce revisione rivoluzionaria dei valori, non per guardare in faccia all'avvenire e per dire: «Bisogna radicalmente mutare l'in­dirizzo attraverso le nuove vie», ma semplicemente per fermarsi a dire: «Siamo stati contro la guerra e quando verrà la grande baraonda elettorale, in nome di questa opposizione, eleggeteci».

   Ed in questo, o compagni, forse avremo errato. Lo dirà l'avvenire; ma se noi fummo contrari a questo esperimento elettorale del dopo guerra si fu perché pre­vedevamo che attraverso l'apertura di questa valvola di sicurezza sarebbero sfug­gite e si sarebbero disperse le energie rivoluzionarie che erano nel seno della so­cietà borghese. Il fatto è che attraverso questo processo il partito è oggi quello che era alla vigilia della guerra: il miglior partito della II Internazionale, ma non ancora un partito della III Internazionale, non ancora un partito maturo per l'e­splicazione di quel tracciato rivoluzionario che solo secondo la dottrina nostra comunista e la esperienza storica del mondo intero può condurre il proletariato al processo rivoluzionario. [...]

   Questo partito, appunto perché prima della guerra aveva scritto delle pagine nel senso marxista, doveva trovare, come ha trovato, nonostante molte difficoltà, in una sua corrente di sinistra la coscienza e la capacità di elaborare anche qui quelle conclusioni in senso rivoluzionario che altrove sono state elaborate o si vanno elaborando. E noi crediamo che in questo tracciato della nostra via non è soltanto il monito, e tanto meno la imposizione che può venire dall'estero, ma è la stessa forza dei nostri precedenti, è la nostra esperienza che ci sovviene nel costruire appunto queste nostre conclusioni. Bisognava intendere che se era marxista e se era rivoluzionario, nella vigilia della guerra, dire «intransigenza, niente blocco elettorale politico, niente blocco elettorale amministrativo, niente collaborazio­ne, niente massoneria!», oggi intransigenza vuol dire qualche cosa di più. Se ieri collaborazione di classe voleva dire ministri socialisti in un regio ministero, oggi collaborazione di classe vuol dire invece un ministero socialista sovrapposto alla struttura statale dell'oppressione borghese.

   Se ieri intransigenza voleva dire buttar fuori chi voleva andare al governo, il mettersi la feluca del regio servitore, oggi intransigenza vuol dire liberarsi da chiun­que non comprende che la lotta deve essere contro le istituzioni politiche bor­ghesi, che la lotta deve essere per la conquista integrale, rivoluzionaria del pote­re, da parte del proletariato, secondo le previsioni e la dottrina di Marx.

   Quindi, o compagni, è questo sviluppo che il partito deve compiere. Ora voi mi direte: l'ha compiuto a Bologna. Ha accettato il programma massimalista, ha aderito alla Terza Internazionale, ha scritto queste tesi sulla sua tessera. Ma ab­biamo avuto dopo un periodo, oggi sfruttato da coloro che allora si dichiararono disciplinati al programma massimalista, e che oggi sono felici di dire alla mag­gioranza di allora, non più di oggi: «Ebbene questo vostro programma massima­lista ha fallito», ed è un'altra simile disciplina che essi vi offrono, la disciplina di chi tace aspettando la bancarotta di quel programma a cui aveva messo la sua firma.

   Voi ci dite - è una obbiezione che io raccolgo en passant - che questo nostro attaccamento alla applicazione in Italia dell'esperienza comunista è qui fuori di posto, che questa nostra idolatria per la violenza che altrove, sotto altri climi, sotto altri cieli si è verificata, è una conseguenza della mentalità di guerra, che fra noi ci sono i socialisti di guerra. Ebbene, o compagni, dopo aver ricordato che, senza fare paragoni, tra noi vi sono dei vecchi e dei giovani che noi ricordiamo nell'ora della vigilia della guerra sempre uguali a se stessi, e senza nessuna esitazione dinanzi all'insidia socialpatriottica, che molti sarebbero oggi tra noi di quei giovani se la guerra stessa non li avesse sacrificati alla causa della borghe­sia, mentre io rivendico ciò che ci allaccia al passato di questo partito ed anche a quelli che a noi hanno appreso, uomini che oggi sono nell'altra sponda, men­tre io rivendico questo, voglio anche dire che questo fenomeno, che deve essere considerato obiettivamente, del socialista di guerra, a me piace raffrontarlo con quello del socialista della parentesi di guerra, del socialista che non ha bestem­miato perché ha taciuto, del socialista che, quando invece di essere duecentocin­quantamila eravamo nelle tessere ventimila e nella pratica poche centinaia, non ha detto nulla, ma che poi, passata la bufera è venuto a dire: «Siamo stati contro la guerra», ed è andato nei comizi elettorali a valersi di questo.

   Sì, o compagni, ve ne saranno anche tra noi di questi socialisti della parentesi di guerra, non lo escludo, non lo discuto, io non confronto due tendenze, io con­fronto due stati d'animo e due genesi dell'attitudine rivoluzionaria, e dico che io, che socialista di guerra non sono stato mai, preferisco quei giovani che, attra­verso l'esperienza tratta dall'infamia capitalistica e dall'essere stati inviati al fra­tricidio sui fronti della battaglia borghese, sono tornati con la nuova fede della guerra per la rivoluzione.

   E chiudiamo anche questa parentesi. Ora, nello svolgersi di questo congresso, l'analisi di una tendenza è stata già fatta. Il compagno Terracini l'ha fatta con argomenti sufficienti perché io vi debba ritornare. Egli vi ha dimostrato con l'e­videnza più schiacciante come il pericolo socialdemocratico si raffiguri nella de­stra di questo partito. Io voglio andare oltre, io devo, con ogni sincerità, andare oltre. [...]

   Il pericolo che altrove rappresenta il movimento di destra per la Terza Interna­zionale, in questo congresso va raffigurato nella tendenza del centro, attraverso gli argomenti che essa ha adoperato, che essa ha portato a questa tribuna, e che io domando, al disopra delle persone, sul terreno delle idee, di potere qui rapi­damente, prima di conchiudere, analizzare e discutere.

   Gli oratori della tendenza del centro hanno qui svolto il loro pensiero. Sostan­zialmente che cosa hanno detto? Dicono: «Sì, siamo, per esempio, per la ditta­tura, siamo per la violenza»; ma mentre a Bologna l'adesione era incondiziona­ta, era entusiastica, e sembrava che si dicesse: «Datecene una dose di più di dit­tatura, la prenderemo, datecene una dose di più di violenza, la prenderemo», oggi l'oratore unitario navigava tra gli argomenti come a Bologna navigava l'ora­tore della destra. Diceva: «Dittatura sì, in questo senso, con questa significazio­ne, con quest'altra restrizione; violenza, sì, ma fino a questo punto, dopo questa premessa».

   Ma io vi domando, perché non voglio discutere questo argomento in sé, ma io vi domando: perché questa preoccupazione, quale è il pericolo? Credete vera­mente voi che questa massa proletaria sia troppo pronta a fare valere esagerata­mente il suo peso sul suo avversario, vi preoccupate quindi che essa graviti un po' troppo sull'avversario che oggi la calpesta? Ora questa vostra preoccupazio­ne, questa vostra attenuazione delle nostre tesi di Bologna non può avere altra ragione ed altra spiegazione se non questa, che certo voi non darete, ma che io qui do ed affermo: la necessità di diminuire la distanza con quell'estrema destra che a Bologna, insieme a noi, avete combattuto.

   Quindi il vostro argomento sostanziale viene a cadere.

   Né voglio parlare del concetto della disciplina, che riportate qui, e che effetti­vamente a Bologna trovò il consentimento della maggioranza del partito. Io ri­tengo, noi riteniamo, per le ragioni già dette, che le esperienze di questo periodo siano sufficienti a condannare questo meccanismo della disciplina così come voi lo intendete, che consiste nel sovrapporre un programma rivoluzionario ad un meccanismo non rivoluzionario, nel dare una bandiera rivoluzionaria ad un eser­cito non rivoluzionario, onde quando voi irridete alla nullità ed alla sterilità del­la ideologia rivoluzionaria, quando vi mostrate soddisfatti allorché potete con­statare uno scacco del metodo rivoluzionario, voi irridete, voi condannate un me­todo che non è il nostro, che è il vostro, che è perfettamente opposto a quello che noi sosteniamo, perché gli insuccessi del massimalismo italiano sono gli in­successi non del massimalismo in sé, ma di quel vostro massimalismo che ha vo­luto tenere nel suo seno i rappresentanti della corrente di destra.

   Un altro argomento caratteristico [... ] della tendenza unitaria è questo (uno lo ha criticato Terracini): la aderenza fra partito e movimento sindacale. Mi è sem­brato di ritornare alle nostre discussioni del 1912 e del 1914 e di sentire Treves e Modigliani ripetere le loro vecchie ed oneste convinzioni socialdemocratiche a questa tribuna, allorquando mi si voleva identificare il partito con la tarda strut­tura delle organizzazioni economiche. Non solo, ma la mozione proposta dall'altra tendenza, e che è stata portata con l'autorizzazione nel testo che verrà a questo congresso, non è affatto chiara sul problema sindacale. Subordinazione di ogni ragione sindacale ad ogni ragione politica. Ma subordinazione come? Facendo sì - se abbiamo bene inteso - che tutti gli organizzatori siano iscritti al partito. Ma per decisione di chi? Ma si avrebbe che l'organizzazione che acquista il diritto di dare la tessera del partito politico a tutti gli organizzati, diventa padrona nel partito, come tentò durante la guerra, allorquando propose di fare dirigere il mo­vimento da Comitati in cui il partito e l'organizzazione sindacale fossero ugual­mente rappresentati. Ma infine il concetto centrale - oltre un altro che mi sarà lecito accennare - il concetto centrale è questo: noi siamo per la selezione nel partito, ma vogliamo lavorare quando le condizioni saranno mature. Ma non ve­dete che è appunto compito del partito, nel senso marxista, di trovarsi nel mo­mento dell'urto con già schierati sotto la sua bandiera solo quelli che sicuramen­te cammineranno per la diritta via?

   E vengo al concetto dell'unità, dove appare la nuova formula, la nuova tesi, il nuovo processo rivoluzionario che al di là dello schema marxista, al di là delle tesi della Terza Internazionale deve realizzarsi in Italia. Nuova affermazione, cioè, che alla rivoluzione il proletariato italiano ci va con questo partito, con tutte le sue conquiste, con tutti i fortilizi di cui abbiamo preso possesso, cioè la Lega del­le cooperative, le rappresentanze elettive dei comuni, delle provincie e del parla­mento, in quanto che tutto ciò costituisce già un apparato di potere nelle mani della classe operaia. Ecco una tesi che definisce chiaramente quella corrente che la Terza Internazionale non vuole avere nel suo seno perché questa tesi è squisita­mente riformistica. Noi invece, con la tattica di Mosca, affermiamo che questi fortilizi, questi comuni, questi seggi parlamentari, queste cooperative, queste le­ghe possono essere i fortilizi della rivoluzione, ma non lo sono per definizione, bensì solamente perché sono nelle mani di un partito proletario: essi possono es­sere altrettanti buoni fortilizi della contro-rivoluzione nelle mani di un partito socialdemocratico, quando siano nelle mani di un partito che non sia per questa frattura decisiva che caratterizza il sorgere della Terza Internazionale?

   Il più delle volte non sono nulla, ma molto facilmente corrispondono più alla seconda che alla prima funzione, servono più alla conversione che non alla eleva­zione. Ed allora si tratta di vedere appunto se questi organismi che il partito pos­siede sono coefficienti che possono essere autorizzati allo sforzo rivoluzionario e non devesi quindi avanzare una tesi in cui si dice che tutto quanto è nelle nostre mani quando invece esso comprende in sé elementi disparati e lontani. Tutto questo può essere utilizzato per la causa della rivoluzione. Perché? Perché - af­fermazione stranissima - tutto ciò costituisce un apparato di potere in mano al partito: il Partito socialista italiano sarebbe uno Stato nello Stato, un istituto contro l'istituto della borghesia, una eccezione stranissima all'antitesi che la storia ha scritto: «Tutto il potere ai borghesi o tutto il potere ai proletari».

   Noi non solo siamo con la tattica di Mosca di fronte a questa eresia, ma siamo con Marx il quale diceva che al proletariato le sue organizzazioni, i suoi fortilizi non servono per dargli un patrimonio perché finché di fronte al potere esso è l'eterno diseredato, sono solo delle punte per costituire la forza per l'ulteriore battaglia rivoluzionaria, nella quale battaglia rivoluzionaria il proletariato non ha da perdere altro che le sue catene, mentre ha un mondo da guadagnare.

   E molte volte questo ingranaggio e questa struttura, questi che a volta sembra­no, per definizione, dei fortilizi, sono invece proprio le catene, le più sottili ma le più tenaci, che il proletariato deve spezzare per andare alla conquista del mon­do. Quindi, o compagni, è da qui che è sorto l'insegnamento, è da qui che è sorta la costruzione di questa nuova tesi. Ecco però ciò che da qui scaturisce: al­lorquando a Mosca noi proponevamo un emendamento, che fu poi messo nei 21 punti, e che diceva appunto che nessun partito della II Internazionale può entrare nella Terza se non toglie dal suo seno quelle minoranze socialdemocrati­che, e questo emendamento fu trasformato nel 21° punto il quale, in una forma che può apparire più individuale, dice che tutti coloro che non condividono per principio le condizioni e le tesi dell'Internazionale comunista dovranno essere esclusi dal Partito e lo stesso vale per i delegati al congresso, orbene, queste indi­cazioni, come l'altra indicazione che c'è nella tesi e cioè i nomi di Longuet, Kautsky, Turati, è una indicazione che nella dialettica, nel processo di formazione del Par­tito comunista ha servito come un reagente per conglobare, attraverso a questi nuclei isolati, in questo modo, tutti i comunisti di tutto il mondo. Ma si aggiun­geva anche che tutti coloro che si sentivano vicini alla tradizione sociale democra­tica ed alla Seconda Internazionale, e che erano pronti ad entrare con una adesio­ne leale ed effettiva nell'ingranaggio della Terza Internazionale, erano bene ac­colti e quindi il compagno Zinoviev ricordava al congresso di Halle come la tesi sostenuta a Mosca da chi modestissimo vi parla, si conformasse nel fatto che vi era in realtà un partito diviso in due ali, che per principio si schierano, una con la Terza Internazionale, l'altra con la Seconda Internazionale e che nettamente si separano. Io credo, o compagni, che una non diversa conseguenza esca da que­sto congresso quando noi, non certo per nostra colpa o per nostro inutile, antipa­tico piacere, ci indirizziamo verso una teoria molto più profonda di quella che nelle condizioni di Mosca e nella stessa mozione dei comunisti italiani non sia stata scritta. Ne viene un ammonimento, ed è questo: che cioè la corrente che si pone contro la Terza Internazionale, in questo paese dove la guerra ha meno ferocemente agito come reagente dissolvitore della vecchia struttura che c'era nel 1914, in questo paese molto più a sinistra che altrove, molto più ricco di affer­mazioni, accetta incondizionatamente le affermazioni teoriche del comunismo e accetta anche, a parole, le condizioni del congresso di Mosca. Perché noi siamo in una situazione interessante. Bisogna accettare i 21 punti, ma in modo tale che, ad esempio, io posso scegliere se devo essere vittima dei 21 punti o esecutore dei 21 punti. Io naturalmente passo subito dalla parte degli esecutori, accetto i 21 punti e la conclusione è che di vittime non ce ne rimane alcuna ed i 21 punti possono essere frustrati in quanto il loro scopo è di servire di base alla organizza­zione del movimento internazionale comunista scartando da esso quegli elemen­ti maturi che non possono rimanere nel proprio seno.

   Ed allora noi vi diciamo: non basta accettare i 21 punti, occorre qualche cosa di più: tradurli in atto. Ed è tutta una esperienza storica che non hanno solo i russi, non hanno solo gli esteri, ma anche noi, attraverso le lotte del passato, e l'unico modo di fare questo è quello scritto nella nostra mozione: cioè accettare che la parte che deve essere tagliata sia soltanto la frazione di concentrazione so­cialista. Se la risultante di questo congresso sarà un'altra, questo è un insegna­mento storico così profondo che piccola e sciocca cosa sarebbe addebitarla all'in­capacità o alla cattiveria di alcuno. Da qui deve uscire un insegnamento più alto ancora, se più doloroso, tanto per noi che per gli altri partiti della Internaziona­le, che alla nascita del nuovo Partito comunista deve presiedere questa esperienza che ha il dovere e il diritto di portare alla elaborazione internazionale della dot­trina, del metodo e della azione comunista in quanto che così, e non come il subire una imposizione, noi intendiamo i rapporti fra noi e l'Internazionale, fra noi e i sommi uomini di Mosca, in una collaborazione appunto che nasce da tutte le cellule ove vi è uno sfruttato che lotta contro lo sfruttatore e si assomma nelle supreme direttive che tracciano i grandi consessi dell'Internazio­nale comunista.

   Voi, o compagni, ci obbiettate: «Ve ne andrete, abbiamo visto altri andarse­ne, i sindacalisti, gli anarchici, abbiamo visto altre sfrondature... Ve ne andrete come altri se ne sono andati...». [...] Voi dite a noi «secessionisti», voi ci dite: «Ve ne andrete e finirete dove altri hanno finito perché la bandiera della lotta di classe è rimasta a questo vecchio tradizionale Partito socialista che attraverso ai suoi urti di tendenza è rimasto finora all'avanguardia dell'azione del proleta­riato italiano, voi siete piccoli gruppi di gente, di illusi, di arrabbiati o maniaci della violenza che andate e che subirete la stessa sorte degli altri...». Se questo avverrà, ebbene noi, o compagni, vi diciamo che vi sono due ragioni che ci diffe­renziano da tutte le scissioni che sono fino ad oggi avvenute. Vi è la ragione che noi rivendichiamo, e voi avete ancora la possibilità di venire a confutare questi argomenti di dottrina e di metodo, noi rivendichiamo la nostra linea di princi­pio, la nostra linea storica con quella sinistra marxista che nel Partito socialista italiano con onore, prima che altrove, seppe combattere i riformisti. Noi ci sen­tiamo eredi di quell'insegnamento che venne da uomini al cui fianco abbiamo compiuto i primi passi e che oggi non sono più con noi. Noi, se dovremo andarcene, vi porteremo via l'onore del vostro passato, o compagni!

   E vi è un'altra ragione, o compagni. Io ringrazio tutta l'assemblea di avermi fatto esporre concetti anche aspri senza interrompermi; mentre io forse ho inter­rotto gli altri. Dunque, o compagni, vi è un'altra ragione che dobbiamo invocare per difenderci da questa previsione, che mi auguro da tutti sia fatta con dolore, ed è quella che è stata già detta (non è certo un motivo demagogico che porto qui perché a me pare di non avere parlato nel modo con cui si parla quando si vuole acchiappare dei voti incerti) ed è quella che noi andiamo con la Terza In­ternazionale. La Terza Internazionale non è la cosa perfetta che si dice, la Terza Internazionale si può criticare nei suoi comitati, nei suoi congressi, poiché ovun­que si possono trovare debolezze e miserie, ma voi compagni non dovete dimen­ticare che vi è qualche cosa che resta al di sopra di qualunque critica che possa colpire un dettaglio di questa organizzazione formidabile, di questa conclusione colossale che si aderge all'orizzonte della storia e dinanzi alla quale tremano, con­dannate alla decisiva sconfitta, tutte le forze del passato. Vi sarà dell'autoritari­smo, del difetto tecnico di funzione, degli esecutori che mancano, tutto voglio concedere, ma credete proprio voi che queste piccole cose possano svalutare que­sto fatto storico grandioso? Quelle parole che allora piovvero come fredde ed ina­scoltate tesi teoriche, quell'affermazione della unione del proletariato di tutti i paesi per la sua rivoluzione e poi per la sua dittatura e non solo per la tesi fredda della semplice socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio, comune per­sino ai rinnegati di Amsterdam, sono la base di una dottrina che è stata" sparsa da pochi illuminati oggi in ogni paese del mondo. Uomini proletari, lavoratori sfruttati di tutte le razze, di tutti quanti i colori, si organizzano e si costituiscono con mille difetti, ma con una idea che sicuramente ci dice che si tratta di una costruzione definitiva della storia. Essi costituiscono così questo ingranaggio di lotta, questo esercito della rivoluzione mondiale. Credete voi che dinanzi ad una cosa così grande vi siano i piccoli errori che possano fare ritrarre chicchessia che non sia un avversario di principio? Che possa fare esitare chicchessia quando si deve scegliere se stare con la Terza Internazionale, il che vuole dire nella Terza Internazionale, come vuole la Terza Internazionale, per andarsene invece, pur­troppo per allontanarsi, purtroppo per rimanere estraneo a questo sommovimen­to di pensiero, di critica, di discussione, di azione, di sacrificio e di battaglia?

   E quindi, o compagni, queste due ragioni - se il nostro pensiero non erra - queste due ragioni ci confortano che noi non falliremo allo scopo.

   Voi ci domandate: «Cosa volete fare?». Lo abbiamo detto. Il nostro pensiero nella dottrina, nel metodo, nella tattica, nella azione è quello delle tesi di Mosca. Il pensiero di ognuno di noi può differire da qualcuna di queste indicazioni, ma noi le eseguiremo tutti concordi perché crediamo che la disciplina internazio­nale sia condizione indispensabile per il successo proletario. Vi possono essere fra noi deboli, incapaci, incompleti, possono esservi fra noi dei dissensi: Gramsci può essere su una falsa strada, può seguire una tesi erronea quando io sono su quella vera, ma tutti lottiamo ugualmente per l'ultimo risultato, tutti facciamo lo sfor­zo che costituisce un programma, un metodo. Noi sappiamo di essere una forza collettiva che non sparirà come una piccola frazione, come una diserzione di po­chi militi. Vi è un grande esercito che sarà invece il nucleo attorno a cui verrà domani il grande esercito della rivoluzione proletaria del mondo.

   Ed allora la vostra previsione, condensata nella vostra domanda, non è, perché non può essere, un augurio. La vostra previsione che noi falliremo al nostro com­pito non è un augurio. Se augurio può esserci - e mi auguro che ancora esista questo minimum di coerenza fra coloro che sono forse insieme per l'ultima volta - è quello che noi facciamo, è il nostro augurio, cioè, o compagni, quello di consacrare tutte le nostre forze e di consacrare tutta la nostra opera, contro le mil­le difficoltà, numerosissime, che si frapporranno al raggiungimento della nostra mèta, e di essere insieme per combattere tutti, senza eccezione e senza esclusione di colpi, gli avversari della rivoluzione, nel cammino che ci attende verso i ci­menti supremi, verso l'ultima lotta, verso la Repubblica dei Soviet in Italia!