Umberto Terracini
Discorso al XVII Congresso nazionale del PSI

Livorno, 17 gennaio 1921


Testo ripreso dal volume: "Da Gramsci a Berlinguer. La via italiana al socialismo attraverso i congressi del Partito comunista italiano", vol. I, 1921-1943, Edizioni del Calendario, 1985, pp. 19-42.


  Compagni, la frazione comunista riafferma per prima cosa, e questo contro una sensazione che pare sia ancora diffusa in qualcuno nel congresso, che essa non è la frazione nata per creare, per puro spirito di distruzione dell'opera del passato e della realtà del presente, la scissione nel partito.

   Non la scissione per la scissione, perché se fosse così, se voi pensaste veramente che fosse così, allora avreste il dovere di impedire che compagni, che persone che si chiamano compagni, e che perseguono questo fine, che sarebbe spregevole, possano partecipare al congresso e possano parlare al congresso.

   Ma voi siete convinti che noi non siamo venuti così, semplicemente per perse­guire un'opera di rovina, ed è per questo che voi accettate la nostra partecipazio­ne, anzi, la desiderate, perché i comunisti sono oggi i prosecutori logici, sono coloro che non hanno derogato e che non vogliono derogare da quanto è stato stabilito l'altro anno al congresso di Bologna, e si presentano al nuovo congresso del Partito socialista come i veri rappresentanti del programma che il partito stes­so ha assunto un anno fa.

   Ora si verifica invece la situazione che verso il programma di Bologna dell'al­tro anno c'è un'opera che tenta nell'interno stesso dal partito a porlo in non cale. E badate a un piccolo fatto, che però può avere una importanza e che serve di misura; credete proprio che voglia dire nulla che la maggioranza della Dire­zione del partito, di fronte agli argomenti che sono in discussione in questo con­gresso abbia avuto, per l'appunto, per opinione quello che è il criterio della fra­zione comunista?

   Ma la Direzione del partito è nata al congresso di Bologna, è stata scelta secon­do le deliberazioni del congresso di Bologna, ed il congresso di Bologna ha indi­cato questa linea e questa direttiva alla Direzione, e la Direzione, fedele alle basi sulle quali è stata costruita, si trova quest'oggi, logicamente, nella sua maggio­ranza nella frazione comunista.

   Ora siamo ad un anno dal congresso di Bologna, e bisogna prendere una deci­sione. Sarà una decisione che si compone di due parti, sia che la si prenda, sia che la si respinga: o riconfermare, modificate, secondo le nuove necessità che si presentano, sotto l'esperienza di questo anno, le deliberazioni di Bologna, ed allora, conseguentemente, restare nella Terza Internazionale; oppure mutiamo pure, mutate - dirò meglio - pure il programma di Bologna, ma allora, logi­camente, si esca dalla Terza Internazionale.

   Perché i due fatti - adesione e programma nuovo - erano due fatti inscindi­bili, e quest'oggi non si può scindere le conseguenze che da quei fatti sono venute.

   Ed invece, siccome c'è nel partito una tendenza che cerca di ritornare da Bolo­gna a Genova, e c'è una tendenza la quale cerca di far sì che questa frazione che vuole un mutamento resti nel partito, c'è oggi altra frazione che vuole restare nella Terza Internazionale ed abbandonare - perché occorre concedere qualche cosa anche alla concentrazione, se resta - abbandonare il programma di Bologna.

   Ora il congresso deve decidere per l'appunto questo, e quando ci si accusa, noi comunisti, di creare, permettete la parola, il ricatto perché sbandieriamo la Terza Internazionale come la cosa alla quale occorre aderire, e aderendo ad essa occorre aderire alla frazione ed al programma comunista, non è ricatto il nostro, ma è null'altro che una constatazione di fatti reali, di necessità, cui dobbiamo soggiacere, e restiamo nella Terza Internazionale, ma accettiamo la mozione di Imola.

   Al congresso, evidentemente, affiorano poi discussioni ed argomenti che non sono ristretti nel comma che stiamo discutendo, e si è detto, a ragione, occorrerà accennare alle deliberazioni del congresso di Mosca sulle varie tesi, occorrerà ac­cennare alla tesi coloniale, alla tesi nazionale, e ciò è giusto, ma, badiamo, non occorre fare come si è fatto nella polemica svoltasi sui nostri giornali, nelle nostre assemblee durante gli ultimi mesi passati, non occorre intrecciare in forma artifi­ciosa le tesi deliberate al secondo congresso di Mosca con quella che è la tesi fon­damentale che noi oggi dobbiamo discutere, con la risoluzione che il congresso deve prendere, che è la tesi della costituzione di un Partito comunista.

   Dopo, quando un Partito comunista sarà costituito e si sarà organizzato in quella determinata maniera che Mosca ha deliberato (e che anche nel Partito socialista Italiano sta creandosi lentamente da un certo tempo a questa parte), allora si po­trà ampiamente discutere della tesi nazionale, della tesi coloniale, della tesi agra­ria, perché un'anima sola ispirando il Partito, la risoluzione non sarà più il risul­tato di una transazione, di un accomodamento, della confluenza di varie scuole, ma sarà la risoluzione veramente, solamente comunista.

   Or dunque, occorre creare il Partito comunista. C'è qualcuno che sorride, il quale pensa, ed a ragione, che i partiti non si possono creare così, ponendosi a tavolino, studiando un pochetto, stendendo un programma, creando un comita­to direttivo, lanciandolo. Non così si creano i partiti. Si possono creare quelle accozzaglie che nei momenti in cui c'è una messe ampia di cariche elettorali e di posizioni buone nell'interno dell'organizzazione sociale attuale, si creano, salvo a sfaldarsi quando l'occasione della messe è finita.

   Un partito si forma quando le condizioni sociali lo richiedono. C'è una classe che acquista coscienza di se stessa, che acquista un'organizzazione, che si pone una meta da raggiungere, una classe che affiora nella vita politica e comincia a partecipare alla vita politica, e allora si forma il partito di quella classe, e quando la classe si modifica, il partito si modifica, e quando la classe scompare, il partito scompare.

   Oggi sulla scena politica internazionale vi è una classe la quale, svegliatasi già da molti anni, la quale avendo già molto operato negli anni passati, la quale avendo già molto combattuto, ha acquistato in questi ultimi anni una conformazione speciale, e si è posta una meta speciale da raggiungere, che è la conquista del potere, ed allora il partito di quella classe, che si era formato venti, trenta, qua­ranta anni fa per quella determinata lotta, che non era la conquista del potere, e si era affermato con quei determinati strumenti che non tendono alla conquista del potere, oggi quel partito si modifica, perché ha una meta nuova da raggiungere.

   E la creazione del Partito comunista non è che la risoluzione del problema del­la creazione del Partito di classe del proletariato che ha come sua meta la conquista del potere.

   Occorre, dunque, risolvere pregiudizialmente una questione: «Se il proleta­riato quest'oggi deve conquistare il potere». Occorre vedere se la situazione at­tuale internazionale è tale per cui la classe proletaria deve andare verso la direzio­ne della cosa pubblica e sociale.

   Se noi risolviamo questo problema noi avremo risolto anche il secondo, cioè se occorre creare il partito specifico per la conquista del potere.

   Ora che il proletariato sia maturo per il potere, è pacifico. Lo dicono anche i compagni di Reggio Emilia, ed io ricordo gli articoli di Claudio Treves sulla «Critica sociale» i quali portavano come un ritornello le parole e l'esclamazio­ne: «Al potere!». E Claudio Treves non poteva evidentemente pensare che al potere doveva andare il Partito socialista, perché era un organismo che raggrup­pava cento, trecento, cinquecentomila persone. Egli diceva al proletariato: «Al potere!», e veniva così, con questo, ad affermare che la situazione oggi è tale in Italia ed internazionalmente, per cui la massa lavoratrice deve andare final­mente a dirigere il potere degli Stati. E questo sta ad indicare che anche per Claudio Treves la situazione è rivoluzio­naria, perché, evidentemente, non parliamo di situazione rivoluzionaria perché ci sono barricate, schioppettate, incendi. La situazione è rivoluzionaria, nel mo­mento storico attuale, quando? Quando c'è mutamento di classe che dirige. Quan­do la classe borghese ha soppiantato la classe aristocratica, è periodo rivoluziona­rio; oggi che il proletariato soppianta la classe borghese è periodo rivoluzionario, che però può essere risolto in molte maniere, a seconda che si pensi che il proleta­rio può andare al potere in una o in un'altra forma, ed allora si dà a questo svol­gimento di fatti, che noi chiamiamo periodo rivoluzionario, uno sbocco piutto­sto che un altro, una rivoluzione piuttosto che un'altra.

   Ora, badate, siamo in periodo rivoluzionario. Questo è pacifico. Siamo in un periodo storico rivoluzionario anche in conseguenza della guerra, per quanto, ba­date, la guerra non abbia fatto altro che esasperare una determinata situazione, ed è per questo che noi non diciamo che la guerra è stata rivoluzionaria, la guerra è stata, in fondo, il termometro, non la temperatura, e come il termometro non crea la temperatura, così la guerra non ha creato il periodo rivoluzionario, ma ha indicato che il periodo rivoluzionario c'era, per cui, anche oggi che la guerra non c'è più, e si è spezzato uno, due termometri che denunciavano quella tem­peratura, sappiamo ciononostante che il periodo rivoluzionario agisce, ed agisce con un crescendo sempre maggiore [...].

   Ora, è vero, noi sappiamo che il proletariato conquisterà il potere, spezzerà le sue catene, quando la costrizione del regime borghese lo avrà stremato, esauri­to, risolto in una condizione orribile di vita; ma, via! io non credo che nessuno di voi pensi che queste condizioni orribili di vita debbano riferirsi individual­mente ad ogni singolo proletario, a Tizio, a Caio, che ha fame, che non ha tetto. La condizione del proletariato è orribile, è disperata in una forma collettiva, e noi, allora, possiamo essere d'accordo che oggi, in questi tempi, questa situazio­ne di disagio e di disastro del proletariato è giunta.

   Perché il proletariato, che ha una vita sua, è ancora oggi legato ad una vita esteriore che non è proletaria, ma borghese, alla società borghese, che è stremata, agli Stati borghesi che sono sfiancati, ridotti in condizioni deplorevoli, e gli Stati che sono in fallimento portano come conseguenza anche le condizioni deplore­voli ed il fallimento del proletariato. E quindi noi non possiamo distinguere, co­me fanno certi ottimi osservatori scientifici della nostra ala di concentrazione, i quali riconoscono le deplorevoli condizioni in cui si trova lo Stato, ma poi dico­no: ma il proletariato, no, non si trova ancora nelle condizioni orribili e tali, per cui senta l'impulso alla sollevazione.

   Non si può distinguere così, ed appunto perché noi pensiamo che il divenire della classe non è meccanico puramente ed automatico, per cui nessun legame vi sia tra l'una e l'altra classe, e pensiamo che appunto perché ci sono delle inter­ferenze, occorre fare in maniera che dall'una classe non si ripercuota nell'altra classe il malessere, o si ripercuota sempre in una forma di liberazione di una clas­se, gettando sull'altra tutto il male e la miseria, appunto per questo noi diciamo: oggi che la società borghese è stremata e sta per rovinare, vuol dire che il proleta­riato è anche esso stremato e non può più oltre soffrire.

   Situazione rivoluzionaria, dunque [...]. Perché la rivoluzione sia una realtà ef­fettiva ci vogliono le premesse materiali e le premesse spirituali per la rivoluzio­ne. Orbene, ci sono le premesse materiali rivoluzionarie in Italia?

   Io ho detto poco fa che ci sono. Perché lo Stato borghese è in una impossibilità di funzionamento, perché la società borghese si spezza: noi vediamo gli organi­smi massimi, i puntelli più forti di questa società borghese che mal ne reggono il peso.

   Le premesse materiali ci sono per la rivoluzione, e non so se sia marxista dire che ad esempio tutti gli eccidi, tutte le convulsioni delle folle, tutti gli scioperi, le agitazioni, i disordini che danno un'apparenza di caos alla vita interna della società italiana, siano proprio il risultato della mentalità di guerra. E' vero: la men­talità è un coefficiente nello svolgimento degli avvenimenti sociali, ed anche da un punto di vista di materialismo storico l'uomo, che ha un'anima, pesa nello svolgimento dei fatti. Ma voler dare la responsabilità di tutto quanto avviene sol­tanto a questo che è restato un residuo di mentalità di guerra, a questa passione, a questa violenza bestiale che noi abbiamo respirato sui campi di battaglia e vo­gliamo trasportare sulle piazze delle nostre città, questo non è troppo giusto e non è troppo marxista.

   No, ci sono dei disordini perché c'è il periodo rivoluzionario, e il periodo è rivoluzionario non solo perché c'è disordine. E quindi non crediamo con un'ope­ra di rieducazione, di gentilezza, con il disarmo degli animi, di poter far sì che ad un tratto in Italia passino i disordini e ricominci la vita idilliaca e beata del periodo prebellico. Oggi la situazione è mutata nell'anima e fuori dell'anima. Oggi le premesse materiali per la rivoluzione ci sono.

   Ci sono le premesse spirituali? Questo è il problema! Ed è perché le premesse spirituali non ci sono, in Italia, che noi diciamo che occorre creare il Partito co­munista, perché solo la sua esistenza, la esistenza cioè di un partito che vuole andare alla conquista del potere in quella determinata forma che accennerò fra poco, può creare in Italia le premesse spirituali per la rivoluzione, che non è la mentalità sfrenata di violenza che non soltanto noi, per non dire non noi, com­pagni comunisti, abbiamo adoperato e ci siamo affaticati per creare tra le masse italiane! Getti la prima pietra chi di voi non ha fatto un discorso di pazza rabbia e di violenza senza dare a questi discorsi un seguito effettivo!

   Il Partito comunista è il creatore delle premesse spirituali per la rivoluzione.

   Un compagno dell'ala di concentrazione ha preso come esempio della loro si­tuazione d'animo la frase di Claudio Treves: «Al potere!». Credono anche essi che il periodo sia rivoluzionario, nel senso che al potere deve andare la classe pro­letaria, ma essi pensano che le premesse spirituali per la rivoluzione in Italia esi­stono già, ed esistono queste premesse perché in Italia esiste il Partito socialista, così come è costruito, come ha funzionato nel passato e come dovrebbe continua­re a funzionare nell'avvenire.

   Ora qui sta appunto la differenza profonda e insanabile, per la quale noi co­munisti crediamo che sia impossibile che permangano nello stesso partito coloro che pensano che in Italia il Partito socialista possa assolvere questa funzione com­plementare e necessaria perché il proletariato possa andare al potere, e noi che pensiamo che il Partito socialista, come oggi è congegnato, con gli uomini che lo compongono, non possa, viceversa, assolvere questa funzione.

   Perché il partito politico di classe è un'arma la quale è assolutamente necessa­ria per la lotta proletaria della conquista del potere. [...]. Noi non pensiamo ai piccoli ceti ristretti che fanno la rivoluzione e creano degli eroismi; non siamo della teoria degli eroi, anzi pensiamo che soltanto le masse, inquadrate e ben dirette, possono compiere grandi cose, e non abbiamo un feticismo per persone, ed è per questo che noi pensiamo che il Partito non può lui solo fare la rivoluzio­ne, ma pensiamo che deve essere organizzato in una determinata maniera, per­ché non sia un ostacolo alla rivoluzione.

   Un partito politico di classe è quello che non crea la situazione, ma sa sfruttare la situazione. Il partito politico di classe è quello, non che organizza e fa, secon­do la sua convenienza, avvenire i fatti nello svolgimento della vita di un paese, ma è quello che non si lascia mai sorpassare dai fatti, è quello che li prevede e sa guidarli verso una meta, è il partito che ha questa meta da raggiungere.

   Ora in Italia il Partito socialista non ha mai avuto questa meta da raggiungere. E, badate, è logico, perché il Partito socialista italiano che si è sviluppato nel pe­riodo in cui la Seconda Internazionale aveva vigore, era l'unica organizzazione internazionale del proletariato che ha assolto la sua funzione, quella che la Se­conda Internazionale ha assolto; perché noi, che chiamiamo traditrice la Seconda Internazionale, non possiamo però negare che ha svolto un'attività necessaria, salvo che ha mancato poi ai suoi scopi più alti; e la Seconda Internazionale è stata l'Internazionale dell'organizzazione, quella che, valendosi della propaganda che la Prima Internazionale aveva gettato, del primo risveglio, che la parola di quelli della Prima Internazionale aveva provocato in mezzo alle masse proletarie di tut­ti i paesi, ha raccolto queste masse, le ha inquadrate, ha creato gli organismi po­litici; ed il Partito socialista, nel periodo prebellico, ha creato in Italia delle forti organizzazioni sindacali, ha creato se stesso come forte partito politico, ha creato le cooperative, le mutue, gli organismi di resistenza e di difesa del proletariato; ma esso non aveva mai creato e non aveva mai tracciato un programma di azione.

   Perché? E' semplicissimo. Perché l'azione non era possibile, perché il partito di classe del proletariato non ha che un'azione da svolgere nel campo della real­tà: la conquista del potere, e prima della guerra nessuno pensava che in Italia il potere potesse essere conquistato dalla classe operaia.

   C'erano alcuni, che non erano degli illusi, ma soltanto degli speculatori, che pensavano che al potere si andasse non per la classe proletaria, che il Partito so­cialista non fosse il partito della classe proletaria, ma quello proprio, il partito egoistico, e costoro erano i riformisti della collaborazione i quali, però, non si erano mai posti di fronte il problema della conquista integrale del potere, perché sapevano che non era risolvibile, e si accontentavano di un pezzettino di potere, e giustamente il Partito socialista, che era già di classe, ha cacciato da sé queste persone, perché il Partito socialista va al potere integralmente, o non ci va! E in questo siamo d'accordo con tutti i compagni socialisti, perché tutti noi riconosce­vamo allora che al potere non era possibile che ci si andasse.

   Ma è venuta la guerra, e la guerra ha accelerato lo svolgimento degli avveni­menti sociali, e la guerra ha fatto vivere, non agli Stati - che gli Stati hanno subito un arresto - ma alla società ha fatto vivere in cinque anni la vita di 50 anni, non semplicemente perché ha esasperato le passioni, ma perché ha esaspe­rato l'organismo di produzione, ma perché han cominciato a spezzarlo le indu­strie allargate, i contadini strappati alla terra e portati nel pubblico col fenomeno dell'urbanesimo spinto fino all'esagerazione; infiniti altri episodi che conoscete e che è inutile venire riportando, hanno fatto sì che quest'oggi la classe proletaria e la società si sono trovate, dopo la guerra, non come se avessero vissuto cinque anni di orrori, ma come se avessero vissuto cinquanta anni di svolgimento nor­male e pacifico della loro attività.

   E dopo la guerra il proletariato si è trovato all'improvviso di fronte al proble­ma assoluto e concreto della presa di possesso del potere.

   Claudio Treves dice: no, dopo la guerra ci siamo trovati in questa terribile tra­gedia: dall'una parte la borghesia che non sa più tenere il potere, dall'altra il proletariato che non sa ancora prenderselo; ed è in questa parentesi che egli vede e pone l'orrore dei nostri tempi.

   Noi diciamo: no, la tragedia, l'orrore dei tempi nostri è che la borghesia non era più capace di tenere il potere, e che il proletariato che ne sarebbe stato capace non aveva gli organismi e gli strumenti adatti perché questa sua capacità potesse entrare in azione.

   Nel frattempo la rivoluzione mondiale aveva in Russia la sua prima manife­stazione.

   Orbene, il concetto profondo della rivoluzione russa, il concetto profondo che i compagni bolscevichi, teorizzatori della rivoluzione russa, hanno realmente da­to all'esperienza mondiale del proletariato, e ci porgono perché noi ne sappiamo usare per i nostri moti e le nostre lotte, è stato quello della rivoluzione mondiale, concetto che pare così semplice e così facile a comprendersi, ma che, invece, pare sia impenetrabile per certe mentalità, non solo borghesi, ma anche socialiste. [...] «Proletari di tutti i paesi unitevi». Ma non semplicemente per un'unione senti­mentale, non per lanciarsi fiori e confetti attraverso le frontiere, era il concetto dell'universalità della rivoluzione, per cui nel 1917 in Russia non è incominciata, non si è sviluppata la rivoluzione russa, ma nel 1917 in Russia ha conquistato la sua prima forma concreta la rivoluzione mondiale!

   Per cui, compagni, quando alcuni dicono: ma voi pensate che l'Italia debba per prima fare la rivoluzione, che l'Italia debba essere quella che ad un tratto fa il movimento nel suo interno prima delle altre nazioni, costoro indicano che non sanno creare e non sanno vedere questo nesso indissolubile che c'è tra i mo­vimenti rivoluzionari dei diversi paesi, ed immaginano che la rivoluzione russa sia un fatto compiuto, che ha spezzato tutti i suoi legami con le altre rivoluzioni attuali e future, e costoro immaginano che la rivoluzione sia veramente il fatto miracolista, perché siamo noi gli accusati di miracolismo, perché si dice che cre­diamo che le rivoluzioni siano il fatto improvviso che divampa e trasforma il mondo, perché si dice che se noi creiamo il Partito comunista, quando noi avrremo creato il Partito comunista saremo obbligati a fare il giorno dopo la rivoluzione!

   Ora, compagni, quale mentalità più miracolistica di questa che affibbia a noi le proprie credenze, perché pensa che la rivoluzione sia il fatto improvviso che risolve in 24 o in 48 ore una situazione, e quando noi diciamo che la rivoluzione deve essere fatta, pensano che noi pensiamo che in Italia occorre far divampare il fuoco nelle 24 ore!

   No, la rivoluzione in Italia c'è da molto tempo, perché, badate, è rivoluzione la creazione della guardia regia da parte della borghesia, perché è rivoluzione la conquista delle fabbriche, sia pure in quella determinata forma, è rivoluzione l'invasione delle terre nella Sicilia e nelle Puglie, perché per noi comunisti è un atto rivoluzionario la stessa scissione del Partito socialista, che noi chiediamo in questo momento.

   Ora siamo dunque d'accordo [...] che il periodo è rivoluzionario, che il potere deve essere conquistato, ma siamo in disaccordo profondo su questo fatto: se il Partito socialista italiano, quale oggi è congegnato possa prendere il potere, per creare lo sbocco logico e necessario della lotta rivoluzionaria del proletariato.

   Ora noi comunisti affermiamo che la presa di possesso del potere in Italia da parte del proletariato, non può avvenire in altra forma che con la costituzione di una Repubblica dei Consigli degli operai e dei contadini. Non, badate, per puro spirito di mimetismo, non perché nella Russia la conquista del potere da parte del proletariato sia avvenuta attraverso i Soviety, ma perché noi pensiamo che ogni periodo rivoluzionario il quale confluisce alla creazione di un determi­nato potere di una determinata classe, ha la facoltà di creare le sue forme speciali di potere; e quello che è avvenuto nel periodo dal 1750 all'epoca moderna - la trasmigrazione dall'Inghilterra della forma specifica del potere borghese, cioè della forma parlamentare - sta avvenendo, deve avvenire, da qualche anno a questa parte, e continuerà nell'avvenire per la forma specifica del potere proleta­rio, cioè nella trasmigrazione, non nella imitazione, nella trasmigrazione della forma del potere dei Consigli della Russia in tutti gli altri Stati.

   Perché l'universalità del fatto rivoluzionario non è data soltanto dalle manife­stazioni esteriori che nel periodo rivoluzionario si denotano e si controllano, ma dal risultato di questo periodo rivoluzionario.

   E un periodo rivoluzionario dà sempre un risultato solo: creare un determinato potere. Il periodo rivoluzionario borghese ci ha dato il potere parlamentare, quello operaio ci darà il potere dei Consigli.

   E allora credete proprio che sia mimetismo il fatto che in Germania, quando nel novembre del 1918 crollò l'impero del kaiser, gli operai della Germania in quel periodo di sgomento, nei primi momenti quando il Partito socialdemocrati­co tedesco non poteva da solo assumere l'eredità pesante della sconfitta e del Governo, credete che sia proprio per un caso, che hanno creato i loro Consigli degli operai e contadini?

   Credete che sia proprio per un caso che nella Ungheria la forma unica che si è affacciata alla mente di tutti, quando in quella speciale caratteristica maniera il potere è passato dalla borghesia al proletariato, è stata quella di creare i Consi­gli degli operai e dei contadini?

   Credete che sia proprio per un vano mimetismo, o per un fatto sentimentale che, quando nell'Italia avvengono dei movimenti vasti, quando le folle assaltano i municipi, perché hanno fame o perché hanno necessità, o perché hanno rabbia e malcontento da sfogare, esse non creano più le forme particolari di potere prov­visorio e transitorio a cui eravamo abituati nel passato, ma creano nei centri del Veneto, creano nei centri della Sicilia delle forme di potere collettivo, le quali arieggiano la forma dei Consigli degli operai e contadini?

   No, è perché la situazione crea una determinata forma di potere, e la situazio­ne rivoluzionaria di oggi in Russia, in Germania, in Ungheria, in Italia, dovun­que essa arriverà, al momento in cui potrà creare qualche cosa, creerà la forma dei Consigli degli operai e contadini.

   Noi, comunisti, diciamo che in Italia il potere operaio dovrà unicamente pren­dere questa forma e questa configurazione, e quindi ci dividiamo dai compagni della concentrazione, i quali sono con noi i primi nel riconoscere che il periodo è rivoluzionario, sono con noi quando sentono che al potere occorre che vada il partito nuovo della classe nuova, ma non sono più con noi quando essi stabilisco­no la forma di questo potere e quando stabiliscono il modo con cui a questo po­tere occorre andare.

   Io ho detto: i compagni della concentrazione; avrei potuto dire: molti compa­gni unitari, ma poiché la tendenza unitaria non è mai entrata veramente nel noc­ciolo della discussione, ma anche nella polemica passata si è sempre tenuta alla superficie ed ha parlato più di apparenza che di realtà, dovendo discutere del nocciolo, mi rivolgo ai compagni della concentrazione.

   Essi pensano che al potere si possa andare con l'attuale forma del potere; essi credono che il proletariato possa guidare la cosa pubblica anche attraverso un re­gime parlamentare.

   La divisione è netta e profonda, ed è sufficiente, e non c'è bisogno di altro per creare una divisione insanabile tra noi e i compagni della concentrazione.

   Badate, il riformismo, si diceva stamani, si è detto ieri, ha sempre voluto dire, in Italia, la collaborazione al potere. Posso concedere questo: ha sempre voluto dire la collaborazione al potere, ma allora che nome dobbiamo dare a questa men­talità di quella parte che non vuole collaborare al potere, ma vuole andarci con l'attuale forma del potere?

   Noi la chiamiamo socialdemocratica; ma essa se ne offende, ed allora accenno piuttosto al nome di riforma.

   Perché il riformismo di prima della guerra, e ne ho già detto il perché, perché la conquista del potere non era un fatto possibile per nessuno, il riformismo si limitava, nei suoi campioni degeneri, a parlare di collaborazionismo; da che la conquista del potere è possibile, il riformismo parla di conquista integrale del potere, e non più di collaborazione, ma con l'attuale forma del potere.

   Ora ciò è socialdemocrazia, e, quindi, noi non ingiuriamo, ma constatiamo solo una realtà di fatto quando diciamo che nel Partito socialista oggi c'è una corrente socialdemocratica e diciamo che questa corrente socialdemocratica non può che comportarsi nella stessa maniera con cui si è comportata negli altri paesi.

   Voi strillerete, perché negli altri paesi è capitato che la socialdemocrazia si è confusa ed ha combaciato quasi perfettamente col socialpatriottismo, ma sono due fenomeni diversi, e voi, compagni della concentrazione, non siete socialpatrioti; ma voi siete dei socialdemocratici.

   Badate che se ci sono delle misure sentimentali esteriori per vedere la concezio­ne profonda e radicata di ciascuno di noi, se la guerra è la misura del socialpa­triottismo, e noi la usiamo ogni giorno per misurare i nostri peccati ed i nostri errori, per dirci delle piccole insolenze, noi possiamo anche trovare una misura la quale serva a dirci se c'è socialdemocrazia nel nostro partito.

   Ora davanti alla guerra, il Partito socialista è stato compatto ed unito? Potrem­mo anche qui, fra di noi, anche se ci sono i giornalisti borghesi, sollevare qualche velo e dire che non c'è stata questa compattezza, perché vorrei chiedere a Camil­lo Prampolini se la sua avversione alla guerra sia veramente cagionata dalla stessa cagione per cui era contrario alla guerra il compagno Misiano [...].

   E quindi, continuando, chiederei a Filippo Turati se la sua avversione alla guerra è stata motivata nella stessa maniera logica e sentimentale con cui l'ha motivata il compagno Serrati.

   Credo di no, perché il compagno Serrati è stato contrario alla guerra perché la guerra era la manifestazione più caratteristica e più crudele del regime borghe­se; Filippo Turati è stato contrario alla guerra perché la guerra, anche per l'orga­nizzazione sociale attuale, può costituire per il proletariato un danno ed un no­cumento, e Filippo Turati ha sempre cercato, secondo la linea logica del suo pen­siero, e secondo la sua coerenza, di impedire che al proletariato potesse venire del danno, conservando così, soggettivamente, quell'onestà politica che nessuno gli può negare.

   Prampolini è stato contrario alla guerra perché nella guerra c'è del sangue, e Prampolini ha un timore pazzo del sangue. [...].

   Ma, dicevo poco fa che la guerra è la misura del socialpatriottismo, ed allora guardiamo se da qualche anno a questa parte non ci sia un fenomeno più gran­dioso, più importante, più profondamente importante per lo sviluppo della so­cietà umana, che non la guerra.

   Perché la guerra se non si fosse risolta in altro che in un grande ammazzamen­to, in un grande impoverimento, e se noi per un caso perdessimo la memoria tutti, e tra un decennio ci trovassimo senza ricordarci che la guerra c'è stata, la società intorno a noi sarebbe come prima della guerra, perché i morti sarebbero rimpiazzati dai vivi, e le miserie sarebbero state sanate.

   La guerra per sé è stata un grande fatto politico, ma non sarebbe stata un gran­de fatto sociale, se non avesse aperta la via alla rivoluzione mondiale, se non avesse creato l'occasione incidentale della rivoluzione russa.

   La rivoluzione russa è la misura della mentalità socialdemocratica, come la guerra è la misura della mentalità socialpatriota.

   Ora, compagni, se di fronte alla guerra il partito nostro è stato compatto, è stato coeso, ha avuto un'anima ed un'azione sola, io vi chiedo - non risponde­temi, risponderò io - se di fronte alla rivoluzione russa ci fu nel nostro partito lo stesso senso in tutti noi, e se tutti noi abbiamo conservato di fronte alla rivolu­zione russa la stessa posizione. Orbene, io [...] dico di no!

   E badate, non prendiamo la rivoluzione russa come un fatto tutto esteriore, tutto coreografico: la rivoluzione russa è fatto grandioso, fatto importante, fatto splendido!

   E vero, è una realtà che nessuno può negare, che ci sia un peso sulle spalle degli Stati borghesi, un peso sul bilancio della lotta di classe, e come non po­tremmo negare che piove quando piove, non possiamo negare che la rivoluzione russa è esistita ed esiste. Ma noi la rivoluzione russa non la prendiamo come fatto esteriore, coreografico, non è un balletto russo, la rivoluzione russa, che noi ve­diamo e diciamo: quanto è bella, quanto è imponente!

   Si accetta la rivoluzione russa accettandone le forme, i metodi e gli scopi, ed io chiedo allora ai compagni della concentrazione se essi la rivoluzione l'accetta­no in questa forma.

   Ora, poiché si ha la brutta abitudine, ma è necessario, di prendere il pensiero di qualcuno - perché le elites non devono formarsi, [...] ma si formano per for­za, perché qui che siamo duemila parliamo in dieci e non siamo un'elite, perché siamo i più capaci, ma perché parliamo per l'occasione, e quando dobbiamo mi­surare una tendenza prendiamo coloro che la rappresentano - ed allora devo ancora parlare di Filippo Turati, il quale ha fatto un discorso meraviglioso in di­fesa della rivoluzione russa ed è stato il primo discorso in difesa della rivoluzione russa che si è fatto al Parlamento italiano, e poi ne ha fatto un secondo, più bello ancora, e poi... si è taciuto, e, almeno, avesse taciuto.

   Ora i discorsi di Filippo Turati in difesa della rivoluzione russa sono stati fatti prima del novembre 1917, quando la rivoluzione russa era una rivoluzione so­cialdemocratica, quando non era la rivoluzione bolscevica, ma da allora Filippo Turati, non solo non ha più difeso la rivoluzione russa, ma l'ha, scusatemi la pa­rola, spregevolmente diffamata! E badate, compagni, io non voglio con questo creare a Filippo Turati una particolare situazione di dispregio o di odio; io lo am­miro, perché se egli doveva e poteva difendere la rivoluzione di Kerenskij, non può e non deve difendere la rivoluzione di Lenin.

   Ma poi, badate, la frazione di concentrazione, i socialdemocratici, i riformisti, hanno anche un organo ufficiale in Italia, il quale non è molto letto, per fortuna di noi comunisti, ed è «La Giustizia» di Reggio Emilia. Ora io vorrei che il con­gresso non fosse così occupato di questioni gravi e di compiti enormi, per leggersi «La Giustizia» di Reggio Emilia, organo ufficiale della frazione concentrazionista, sulla quale si sono scritti, in questi ultimi sei mesi, articoli pieni di fiele, di odio e di diffamazione contro la rivoluzione russa.

   Noi comunisti, invece, la rivoluzione russa la accettiamo integralmente, senza rinnegare né una miseria né un errore suo. Noi la rivoluzione russa, e non perché ci creiamo dei feticci - noi abbiamo insegnato che sappiamo, con dolore, ma in caso di necessità, spezzarne tanti di idoli - noi la rivoluzione russa, quando anche fosse più misera, quando anche fosse più orribile, fosse più crudele di quella che deve essere, noi l'accetteremmo in blocco, integralmente, lo stesso! Siamo dunque profondamente divisi dai compagni dell'ala di concentrazione. E, badate, la divisione non è soltanto per questo apprezzamento, che qualcuno potrebbe dire sentimentale, della rivoluzione russa, perché noi siamo uomini po­litici ed il sentimento dobbiamo spezzarlo - sovente voi ci accusate di spezzarlo troppo, e ci chiamate cinici - e badate non è un apprezzamento sentimentale; ma noi accettiamo la rivoluzione russa perché pensiamo che la lotta rivoluzionaria del proletariato non può che seguire nelle sue linee generali le tracce che la rivoluzione russa ha segnato. Voi non l'adorate, e la rinnegate in parte, perché pensate che la rivoluzione russa ha violato le buone norme delle rivoluzioni proletarie. Quindi, divisione; non c'è assolutamente una possibilità di andar d'ac­cordo tra di noi [..].

   I compagni della concentrazione non possono accettare la dittatura del prole­tariato, perché essi non hanno ancora compreso quello che noi intendiamo per dittatura del proletariato, se no nei loro bei discorsi, nei loro articoli, non fareb­bero tante sottolineazioni: la dittatura del proletariato, la dittatura sul proleta­riato; perché essi pensano sul serio, e sono in buona fede, che quando noi, comu­nisti, parliamo di dittatura del proletariato, parliamo non soltanto di dittatura del partito di classe del proletariato, ma giungono al punto di credere che noi parliamo della nostra dittatura, di qualcuno che eccelle nel partito di classe del proletariato.

   E, badate, che anche quando i compagni della concentrazione credessero che noi per dittatura del proletariato intendessimo veramente quella forma particola­re di potere politico che si instaura al momento in cui la rivoluzione giunge al suo sbocco naturale e decisivo, e deve permanere per quel periodo di tempo in cui la organizzazione, non politica, ma economica della società sia una organiz­zazione comunista, quando anche credessero che noi pensiamo questo, che è quello che noi pensiamo, essi smentiscono di accettarla, per questa forma, per bocca dei loro maggiori uomini.

   Ho letto sull'«Avanti!», giorni fa, una polemichetta, mi pare Serrati-Prampolini, in cui Prampolini parlava di dittatura del proletariato, e Serrati risponde­va - mi pare che siano quelli i due compagni che erano in polemica, e ad ogni modo è certo che erano un compagno della concentrazione e un compagno unitario, e da questa polemica si vede chiaramente che i compagni della concentra­zione non hanno davvero capito cosa intendiamo noi per dittatura del proletaria­to. Prampolini scriveva che la dittatura del proletariato è quella forma speciale di governo che vigeva nell'antichità, ed egli se la immagina in quella particolare forma esteriore nella quale culmina il tiranno che ha ai suoi piedi gli strumenti della tortura, con cui schiaccia e fa sanguinare gli uomini che sono sottoposti e subordinati alla sua schiavitù.

   Voi, come accusate noi di miracolismo, quando parliamo noi di rivoluzione, così ci accusate anche in questo caso di avere delle idee strambe, assurde, del re­gime che occorre instaurare quando parliamo di dittatura del proletariato, che invece è null'altro che la vostra concezione. [...]

   Non è il regime di costrizione feroce in cui il signore è uno, e porta aggiogati al suo carro gli schiavi incatenati. Noi intendiamo per dittatura del proletariato altra cosa; ciò che non intendono i compagni della concentrazione, che hanno messo la formula nella loro mozione, senza offendere nessuno, perché essi sono unitari, ed occorreva trovare qualche anello di congiunzione tra una scuola e l'al­tra del partito, e un anello è stato la dittatura del proletariato, tanto più che i compagni della concentrazione pensano che sia un anello molto debole e male congegnato, che possa spezzarsi facilmente avanti al terrore che della dittatura proletaria ha la borghesia italiana.

   E passiamo avanti. La socializzazione. Nel campo economico la socializzazione è il problema che si presenta alla rivoluzione proletaria così come nel campo politico si presenta il problema della forma di potere, che noi risolviamo per mezzo della dittatura del proletariato.

   Ora i compagni della concentrazione, da molto tempo a questa parte, molto lodevolmente, perché hanno molto fatto per fare istruire anche noi su questo ar­gomento, sulla «Critica sociale» hanno parlato a lungo di socializzazione, e c'è stata una vasta discussione: progetti, proposte come socializzare.

   Badate che i compagni della concentrazione non intendono il problema della socializzazione come il problema della risoluzione del regime economico, quan­do il proletariato sarà classe di governo, ma come problema da risolvere in regi­me borghese, ed essi pensavano che la soluzione dei doveri e dei problemi post­bellici, economici e industriali, potesse essere raggiunta attraverso la socializza­zione. E coerentemente la loro socializzazione era congegnata alla socialdemo­crazia, tanto è vero che il cardine di questi progetti di socializzazione sta là a di­mostrare come essi non pensassero che quella socializzazione fosse ciò che biso­gnava applicare dopo l'avvento rivoluzionario, ma prima, tanto vero che essi parlavano di socializzazione dietro indennizzo, cioè una forma speciale di espropria­zione della proprietà privata.

   Ora noi, comunisti, che siamo così poco capaci di comprendere marxisticamente gli avvenimenti, osserviamo debolmente che espropriando dietro indennità si com­pie questa funzione: si toglie la fabbrica e si dà il capitale. E noi, modestamente, pensiamo che fra gli strumenti della produzione, oggi, in regime borghese, il capitale sia uno dei principali, e che si fa un buon affare... strappando un'arma per consegnarne un'altra!

   Ma i compagni della concentrazione sono logici e coerenti, perché essi pensano che si va al potere negli attuali organi del potere, ed evidentemente sappiamo tutti che un potere è congegnato allo scopo di difendere il privilegio della classe che ha quel potere, e finché la classe è la classe borghese, e il privilegio è la pro­prietà privata, l'attuale organismo del potere, anche col suffragio universale, è congegnato al solo scopo di difendere e garantire la proprietà privata, e non po­trete mai, anche mandando al posto di ministri, in un regime completamente costituzionale, Lenin e Trotzkij, non potrete fare mai che si riesca ad espropriare senza indennità.

   Ogni forma di governo ha delle leggi imprescindibili, dalle quali non si può derogare, e l'attuale forma di governo ha, come sua legge imprescindibile, que­sta: che deve impedire la lesione del diritto di proprietà privata, ed i compagni della concentrazione che pensano che al governo si possa andare con l'attuale for­ma di governo, non possono che accettarne le leggi assolute ed imprescindibili. [...]

   Noi comunisti diciamo che prima della presa di possesso del potere politico è assolutamente impossibile iniziare la sia pure più piccola opera nel campo eco­nomico, la quale tenda a scalzare il privilegio borghese, ed è per questo che i compagni di Torino hanno saputo, dopo la presa di possesso delle fabbriche e il conseguente abbandono, rifiutare di creare e di organizzare in cooperativa una quantità di fabbriche, compresa la FIAT, che gli industriali offrivano [...].

   Noi, comunisti, pensiamo che ogni modificazione nel regime economico e di produzione non possa essere che susseguente alla presa di possesso del potere po­litico, che essa non deve essere semplicemente un velo, o una panacea che nulla guarisce; ma debba veramente essere un avviamento alla vera socializzazione [...]. Il controllo sulla produzione [...] è stato incensato dagli uni, denigrato dagli altri, e per tanti è un fatto indifferente. E voi potreste trovare una contraddizione in questo: che mentre noi, comunisti, diciamo che questi tentativi di presocializ­zazione servono a nulla, viceversa noi siamo i sostenitori del principio del controllo sulla produzione. Come vi parrà anche forse un po' strano che i compagni i quali pongono il principio della socializzazione e della presocializzazione, e che sono tra gli unitari, dicano poi che il controllo sulla produzione è nullo, non ha valore, era una conquista rivoluzionaria buona quando non lo si aveva, e che il giorno in cui lo si è avuto ha perso ogni sua bontà nella lotta di classe.

   Constatiamo, inoltre, che queste parole di questi compagni unitari perdono ormai ogni valore, perché la conquista del controllo, compagni, non è una paro­la; ma dovrebbe essere una realtà, ed avere acquistato il controllo sulla produzio­ne con l'agitazione dei metallurgici e la conquista delle fabbriche, non ha voluto dire tradurre nella realtà il controllo sulla produzione; per quanto questo sta a significare che le conquiste rivoluzionarie sono rivoluzionarie soltanto a patto di tradurle nella pratica, non solo, ma che queste conquiste sono rivoluzionarie an­che dopo che le si sono conquistate a parole; ed aver fatto l'agitazione dei metal­lurgici per il controllo della produzione, ed avere ottenuto un decreto ministeria­le che lo concedeva, ha tolto ogni valore alla questione del controllo, e gliel'ha tolto soltanto perché la questione del controllo operaio era stata agitata senza com­prendere in che senso il controllo operaio era una conquista rivoluzionaria.

   No, compagni della Confederazione Generale del Lavoro: il controllo sulla pro­duzione come avviamento e primo passo alla socializzazione dell'industria, non si conquista così come si è conquistato, ad un tratto, di colpo, per averlo imposto sotto una minaccia; non lo si conquista nella forma che voi l'avete pensato, e se si vuole che sia una conquista rivoluzionaria, non lo si motiva come lo avete motivato voi, cioè perché gli operai, attraverso il controllo, possano vedere quan­to le industrie sono in condizioni da sopportare ancora maggiori aggravi per i salari. Gli operai constatano col controllo che un'industria non può sopportare maggiori aggravi, ed avere lo sciopero, l'agitazione, e così il controllo diviene un'ar­ma rivoluzionaria!

   Noi pensiamo che il controllo sulla produzione può essere un primo, l'unico passo per la socializzazione dei mezzi di produzione, consentito in regime bor­ghese, soltanto quando, conquistato, chi se ne serve se ne serva non per esercitare il controllo, che è un vano fantasma che si persegue, perché non si può andare a vedere dove l'attuale organizzazione della produzione ha le sue radici, ma solo per dare la possibilità alla massa operaia di creare nell'interno delle fabbriche de­gli organismi suoi di controllo che l'abilitino alla direzione dell'industria, che le diano una capacità di autogoverno, organismi i quali riescano a ledere il diritto della proprietà assoluta dell'industriale, creando di fianco e di fronte al suo pote­re nella fabbrica, un potere proletario. E noi, che l'abbiamo inteso così prima dell'agitazione del settembre, appunto per questo abbiamo creato i Consigli di fabbrica. [...]

   C'è ancora un argomento che voglio toccare per riconfermare, se ancora ce ne fosse bisogno, che fra la concezione dei compagni di Reggio Emilia e la concezio­ne comunista non c'è nessuna possibilità di contatto. Perché nella mozione di Reggio Emilia si accetta anche il principio della violenza, e lo si motiva, e poi, fra le righe si affibbia a noi comunisti un'opinione della violenza che, ancora una volta, non è proprio la nostra.

   Perché noi non parliamo mai della violenza come di una violenza incomposta e disordinata, appunto perché noi, nei nostri programmi d'azione, parliamo di un ordinamento della forza e della violenza come voi la intendete per accusarci.

   Se noi tacessimo, e questa violenza si sfrenasse lo stesso, come si sfrenerebbe lo stesso, perché siamo in periodo rivoluzionario, e non ripeto quanto ho già det­to, se questa violenza non la nominassimo, ed essa si sfrenasse, come si sfrenereb­be, lo stesso, voi avreste uno strale di meno da lanciarci.

   Noi invece affermiamo che la violenza è necessaria, che non la si può sfuggire, ed appunto per questo pensiamo che occorre organizzarla.

   Perché, badate, miracolisti, siamo d'accordo, cioè, siete d'accordo voi; ma chi più miracolisti di voi, che dite che la violenza sarà sì la levatrice della storia, ed assisterà alla nascita della nuova società, e poi vi affidate, così con le parole, a quella violenza che in un momento qualunque sarà sfrenata a fare per conto suo quello che invece i socialisti devono fare per conto del proletariato. [...]

   Compagni della concentrazione, voi me lo insegnate, voi che avete stretto le folle brute nelle organizzazioni e le educate nella disciplina: occorre disciplinare la violenza, darle una legge. Perché se no, cari compagni, noi ci troveremo, il proletariato si troverà, come si è trovato in un momento non lontano, nel quale la violenza all'improvviso si è presentata e pareva dovesse compiere la sua funzio­ne di levatrice della storia, e la massa proletaria si è trovata priva di ogni organiz­zazione, spezzata, disunita, e c'è da ringraziare, non la forza proletaria, ma la soverchia debolezza borghese, se la massa proletaria non è stata dissanguata! Al­ludo all'occupazione delle fabbriche.

   Un'altra parentesi, ma è necessaria, perché i compagni della concentrazione, che non accettano la violenza nel senso che io dicevo poco fa, accettano poi, vice­versa, l'uso della violenza, creando la situazione violenta, e noi non facciamo lo­ro colpa di creare una situazione violenta, ma di crearla inconsciamente.

   Ricordiamoci, compagni, nel mese di settembre quando, con una deliberazio­ne del Consiglio nazionale della FIOM, per un'idea sorta ai compagni dirigenti della FIOM, è stata deliberata in certi casi, che si sarebbero forse presentati, e si sono presentati, l'occupazione delle fabbriche; ricordiamoci come gli operai e la massa dei metallurgici si son trovati nei primi giorni in cui le fabbriche erano state occupate, quando non si sapeva come si sarebbe comportato il governo bor­ghese, perché io penso, e voi me lo confermate, che l'occupazione delle fabbri­che non era una burletta preordinata, come altri episodi che si erano verificati qualche mese prima, l'occupazione delle fabbriche era l'incognita nella quale la massa proletaria non metteva a rischio soltanto l'aumento del salario o la dimi­nuzione delle ore di lavoro, ma poneva la sua vita e il suo sangue!

   E gli operai che avevano in sé il senso della forza di questa nuova arma di agi­tazione, gli operai che hanno una disciplina e stanno a quanto viene deliberato dagli organismi loro e dai loro consigli dirigenti, gli operai hanno occupato le fabbriche, ma quando però si parlava di cannoni pronti e di mitragliatrici piazza­te, e delle guardie rosse armate di bombe, ditemi voi, compagni, come i nostri compagni proletari avevano lo spasimo di essere così tremendamente impreparati e di sentire sopra di loro la minaccia che avrebbe potuto da un momento all'altro disfrenarsi...

   Compagni della Confederazione Generale del Lavoro, non vi faccio il torto per il modo con cui l'agitazione è finita, e per il controllo sulla produzione apparso come un arcobaleno alla fine di un terribile temporale; io vi faccio torto di aver creato una situazione che poteva costare fiumi di sangue al proletariato, e non averlo prima armato, perché potesse almeno difendersi.

   Compagni, accennati così i tre punti che noi troviamo ugualmente considerati nelle mozioni e nelle manifestazioni di pensiero della concentrazione e dei co­munisti, io non penso che alcuno fra di noi possa ancora dire che non vi sia una diversità profonda ed insanabile di valutazione e di programmi. Ed anche i com­pagni unitari, dopo avere nelle prime manifestazioni del loro pensiero e nelle polemiche passate, negato che esistesse una profondità sostanziale con la conce­zione comunista, hanno dovuto poi ammettere che nel nostro partito esistono i socialdemocratici.

   Essi hanno detto ancora, non veramente una tendenza, una scuola, ma una frazione esiste di socialdemocrtici ed i compagni di destra, non noi, hanno dato la smentita più palmare ai compagni unitari, perché hanno trovato fra di loro tanta forza e tanta possibilità di coesione che hanno formato una frazione ben congegnata, col suo giornale, col suo Comitato direttivo, che si presenta quest'oggi al congresso affermantesi, almeno per ora, sopra una propria mozione.

   Ora esistono dunque i riformisti, i socialdemocratici: è vero. I compagni uni­tari lo ammettono, finalmente; ma essi dicono ancora: no, noi non possiamo espel­lerli dal partito, o, per usare una parola che sia meno offensiva, per quanto noi nulla di offensivo mettiamo nella parola espulsione, essi dicono: no, non si può scindere il partito per questo.

   Noi abbiamo, essi dicono, un'altra arma che non è l'arma della scissione; ma è l'arma ferrea della disciplina, per mezzo della quale noi potremo impedire che i compagni dell'ala destra possano avere una qualsiasi influenza sopra le delibe­razioni del nostro partito.

   Ed allora non spetta a me, compagni della concentrazione, spetta a voi rispon­dere agli unitari su questo campo. Io però affermo che i comunisti hanno tanta onestà politica da non pensare che si possa, di fronte ad un nucleo così forte e numeroso di compagni, di fronte ad una così chiara concezione politica, di fron­te a delle così alte intelligenze, che si possa spezzare la loro attività e la loro ener­gia e vincolarceli al nostro seguito, ripetendo un trionfo da imperatore romano, portandoci Filippo Turati aggiogato al carro del nostro trionfo.

   È impossibile. Noi pensiamo che i riformisti, se hanno istinto di conservazione del loro programma, debbono, perché questo è un momento storico al quale nessun uomo e nessuna collettività di uomini può sottrarsi, debbono esplicare tutti la loro funzione nell'interesse dell'organismo sociale; se hanno possibilità di azio­ne, sarebbe delittuoso da parte di un partito politico, impedire che quella loro azione si esplicasse, e se noi volessimo tenerli con noi, essi non farebbero più nul­la, e se essi hanno una funzione da compiere forse utile, noi impediremmo che fosse compiuta, e siccome noi diciamo «possono fare qualche cosa», allora non leghiamoli, tanto più che essi non si lascerebbero legare.

   Perché credete proprio che se sino ad oggi un complesso di fatti storici, ma transitori, hanno creato nel nostro partito la predominanza della tendenza di si­nistra, credete proprio che sia impossibile nel futuro che la destra possa riprende­re le redini del partito? Ma non pensate che se si è potuto dalla frazione intransi­gente rivoluzionaria prendere la Direzione, ed attraverso i massimalisti ed i co­munisti giungere sino ad oggi dirigendo il partito così, non pensate che lo si debba molto anche agli avvenimenti contingenti italiani ed alla guerra libica che ha spezzato in Italia quel socialpatriottismo che forse avremmo avuto nel 1914 se non ce lo avesse sradicato fin d'allora quella guerra? Non pensate che abbia po­tuto avere un'influenza in questo la guerra europea, durante la quale la massa, dopo il primo attimo di aberrazione, s'è gettata verso di noi, perché eravamo i più decisi avversari della guerra? Ma se la guerra non ci fosse stata, forse oggi il partito avrebbe a suo capo non la frazione massimalista e comunista: forse po­trebbe avere i compagni dell'ala destra, i quali comprendono che solo se restano nel partito possono ritornare a questo posto di direzione, e per questo vogliono stare nel partito, non perché dirigere il partito sia un onore o una gloria, ma per­ché essi pensano lealmente che avendo una concezione ed un programma politi­co, è loro obbligo cercare in ogni maniera di attuarlo, ed un programma politico si attua solo con un partito politico forte, ed il Partito socialista è un partito forte che possono guadagnare. Ed allora perché a Bologna hanno accettato con riserva e perché da Bologna hanno continuato ad invocare il programma di Genova, se essi non pensassero di potere un giorno ridargli vita nuova, farlo risuscitare e ri­porlo sulle nostre tessere, al posto di quello di Bologna?

   I compagni della concentrazione hanno diritto di pensare questo, ed io mode­stamente penso che se essi resteranno nel partito, sia anche socialista comunista, torneranno presto a dirigere le sorti dell'organismo di classe del proletariato italiano.

   Dunque la disciplina non basta. Non si può usare, prima di tutto perché an­che se voi autorizzaste una qualsiasi Direzione ad usarla, non potrebbe usarla. Ve la immaginate voi una Direzione del partito costituita eternamente in alta corte di giustizia per giudicare tutti coloro che falliscono? [...]

   La disciplina può essere applicata soltanto in un organismo coeso e compatto - ed il Partito comunista, attraverso la selezione, attraverso la revisione, attra­verso la candidatura, potrà diventarlo; potrà darsi che qualcuno riesca a sventar­la; lo vedremo, ma quando il partito si sarà data questa compattezza di organiz­zazione, allora veramente potrà servire la disciplina, questa legge superiore di con­vivenza civile in un partito; ma la disciplina non può essere applicata tra disu­guali, e nessuna Direzione del partito, sia pure bolscevica, potrà imporre ai rifor­misti di stare sottomessi a ciò che essi non vogliono lealmente accettare e che non possono accettare.

   E allora, i riformisti ci sono, la disciplina non si può usare, ed ecco sorgere le armi puramente polemiche e sulle quali debbo, per forza [...] soffermarmi, per­ché contro di noi comunisti esse sono state solamente usate, e noi dobbiamo spuntarle.

   Armi polemiche: la servilità a Mosca, la poca conoscenza dei compagni russi delle condizioni italiane, ed altre, che però non hanno tanta importanza.

   E quindi, mentre a questo punto della divisione del partito, noi giungiamo per una conseguenza logica di differenziazione, ecco che all'improvviso ci si fa apparire di fronte alla massa ed al partito come gli schiavi sottomessi agli ordini di Mosca.

   A Mosca c'è stato il secondo congresso della Terza Internazionale, al quale era­no presenti i rappresentanti di oltre trenta partiti comunisti. Questi trenta partiti comunisti non sono andati a Mosca solamente per fare un atto di contrizione, ma perché c'era il congresso che doveva deliberare.

   Il Partito socialista italiano aveva mandato da qualche tempo in Russia la propria missione, nella quale c'erano Bombacci, Graziadei e Serrati, ed in Russia essi hanno saputo che il congresso era convocato. Si sono messi in comunicazione con la Direzione del partito, ed hanno ricevuto da essa la delega di rappresentate il Partito socialista italiano nel secondo congresso della Terza Internazionale.

   Ah, ma sorgono qui le prime proteste: dovevano andare al congresso e non sapevano neppure cosa bisognava discutervi! Ma come, nel partito nostro non si erano discusse le questioni che dovevano essere discusse là? Ma via! Non ci creia­mo noi stessi degli ostacoli nel nostro lavoro per delle piccole sciocchezze!

   Incominciamo, intanto, con il dovere ammettere che il secondo congresso del­la Terza Internazionale non è stato convocato in un momento di normalità, e per questo non ha potuto seguire le regole assolute di convocazione.

   Erano momenti di guerra per la Russia sovietistica, e voi forse avrete letto lo scritto di Zinoviev che, ricordando il giorno in cui era stato convocato il primo congresso della Terza Internazionale, ricordava come la situazione fosse diversa da allora, perché la Russia sovietistica era stremata, spezzata, accerchiata, ma di­ceva: «Oggi non siamo liberi, ancora, ma combattiamo: tutti i nostri fronti sono in fiamme, ciononostante il secondo congresso si convoca, e questo è un segno della forza della Terza Internazionale».

   C'era la guerra, ed il congresso non è stato convocato con lettera raccomandata inviata alle Direzioni di tutti i partiti. Ma, però, badate: se i compagni sono an­dati al congresso senza sapere cosa dovevano discutere, e quindi pieni di ansia di dover impegnare il proprio partito per cose che il partito ignorava, constato che l'ansia non ha loro impedito di andare al congresso, di parteciparvi vivamen­te, di essere o alla opposizione, o nella maggioranza. E badiamo anche che, poi, in fondo, il congresso ha deliberato sì, ma non ha imposto nulla, perché dobbia­mo deliberare noi oggi. Perché le deliberazioni del congresso diventano effettive se noi le accettiamo; ma noi non abbiamo l'obbligo di accettarle, possiamo an­che non accettarle, e se anche non le accettassimo, saremmo lo stesso vivi doma­ni, soltanto che saremmo fuori della Terza Internazionale.

   Quindi abbiamo libertà di accettare o no, e la discussione che non si è fatta prima, possiamo farla adesso, e se per caso, adesso, discutendo, veniamo alla con­clusione che quelle condizioni non si possono accettare, se noi avessimo discusso cinque mesi fa saremmo venuti lo stesso a questa conclusione, ed avremmo man­dati i nostri rappresentanti a Mosca con delega di votare contro le conclusioni, e saremmo fuori della Terza Internazionale lo stesso.

   Quindi questo posporre la ratifica alla discussione è stata una condizione ne­cessaria, dato il momento di guerra: non è stato un vano e sciocco mezzo col qua­le i compagni di Russia abbiano voluto svincolarci.

   E il congresso è stato grandioso. Ho sentito Serrati dipingerci il congresso con una descrizione che me lo presentava davanti agli occhi quasi come un quadro biblico: tutti questi rappresentanti che venivano da tutte le parti del mondo ed avevano anche i costumi dei loro paesi, e alcuni non si conoscevano e si scambia­vano le prime parole di fratellanza nelle sale del congresso; non i soli russi c'era­no; ma c'erano i rappresentanti di dieci e dieci proletariati, e le deliberazioni non sono state deliberazioni imposte ma sono state deliberazioni prese da uomini li­beri e che non erano vincolati a nessuna premessa ed a nessuna pregiudiziale.

   E il secondo congresso della Terza Internazionale, dopo che ha deliberato co­me ha deliberato, dopo che ha tenuto molto conto nelle sue deliberazioni delle osservazioni dei nostri rappresentanti, i quali hanno parlato, ed il compagno Ser­rati ha partecipato vivamente ai dibattiti; [...] dopo che il secondo congresso del­la Terza Internazionale ha deliberato, ha creato un organo esecutivo, il quale avreb­be dovuto essere il continuatore dell'opera e l'applicatore delle deliberazioni del congresso.

   Russo questo Comitato esecutivo? [...] Ci sono cinque russi su sedici rappre­sentanti dei proletariati internazionali, e c'è anche il compagno Serrati, il quale, per ragioni che apprezzo, e che non discuto, ha creduto che la sua presenza fosse più necessaria in Italia che in Russia, ma che non avrebbe avuto nessun impedi­mento a restare a Mosca presso il Comitato esecutivo ad impedire che la tirannide russa imperversasse nel Comitato stesso.

   E' tornato in Italia ed ha fatto bene, ma non può inficiare l'azione di quelli che sono restati, perché non abbiamo adorazioni o feticismi, ma crediamo che il Comitato esecutivo della Terza Internazionale sia l'organismo superiore, al quale tutte le volontà comuniste devono piegarsi e, in caso di necessità, devono piegar­si anche le opinioni particolari e contingenti, perché il movimento internaziona­le rivoluzionario vuole la disciplina, e noi non possiamo violarla, a meno che non vogliamo violare i nostri doveri verso il movimento rivoluzionario internazionale.

   Quindi, compagni, ordini russi no; se mai deliberazioni internazionali, e pre­se con piena conoscenza di causa.

   Ma ci sono le inesatte informazioni! E' una farsetta così gioiosa, così facile, che ormai si scrive e si pronuncia ad ogni pie' sospinto. Ma chiedo al compagno Serra­ti, se è qui presente, se non è proprio lui in persona che ha presentato al compa­gno Lenin ed al Comitato esecutivo una relazione sopra il movimento italiano e sulla situazione del Partito socialista in Italia, nella quale si parla dell'esistenza dei riformisti nel partito e nella quale si parla di esistenza di riformisti nel grup­po parlamentare socialista! Ed ecco che il Comitato esecutivo ha attinte le sue informazioni anche in questo documento, che la Direzione del partito conosce, ed ha approvato, perché rispondente a verità. E oggi si dice che i compagni russi non conoscono la situazione italiana!

   Eppure Serrati sa che a Mosca si ricevono molti giornali italiani, ed egli ha po­tuto vedere a Mosca non solo l'«Avanti!», non solo «Battaglie sindacali», non solo l'«Ordine Nuovo», non solo i giornali nostri, ma, si rallegri il corrispon­dente del «Corriere della Sera», anche il «Corriere della Sera», ed a Mosca si conoscono non soltanto le notizie che sortono da noi, o dai nostri giornali, ma si conoscono anche le notizie che sono racchiuse nelle colonne dei giornali dei nostri avversari.

   E poi c'è quella famosa diplomazia segreta, altro mezzuccio risibile polemico, col quale si cerca di gettare sopra i compagni della Terza Internazionale il di­sprezzo non solo della borghesia, del quale ci infischiamo, ma anche del prole­tariato.

   Ora noi tutti sappiamo che la Terza Internazionale ha all'estero, in tutti i pae­si, i propri rappresentanti, ma questi non vivono e non operano distaccati dai partiti socialisti di questi paesi. Anche in Italia ci sono i rappresentanti della Ter­za Internazionale, e non svelo misteri, e non faccio delazioni, perché ognuno lo sa; ma questi rappresentanti non operano quasi mai, anzi, direi addirittura mai, senza che il partito sappia quanto essi fanno, e le informazioni che Mosca ha avu­to e che hanno servito a creare la situazione attuale che la Terza Internazionale ha assunto di fronte al Partito socialista italiano, sono state mandate in modo che, ad esempio, Serrati sapeva tutto quello che andava a Mosca e quindi il dirsi quest'oggi, per l'appunto da coloro che controllavano giorno per giorno, ora per ora, la vita, l'azione e l'opera di questi emissari segreti o diplomatici, che in Rus­sia non si hanno esatte informazioni sulle cose nostre, mi pare che sia poco leale.

   E d'altra parte abbiamo noi la prova che i compagni a Mosca, che la Terza In­ternazionale ignorino così veramente la situazione italiana?

   Si sbagliano forse essi perché hanno detto che abbiamo tra noi dei riformisti? Non credo!

   Si sbagliano forse essi perché dicono che viviamo in un periodo rivoluzionario? Non credo!

   Ma sapete quale grave errore essi hanno fatto? Di scrivere in una loro lettera, che ad Ancona c'erano stati quattrocento morti durante quel movimento! Eh, sono errori gravi, i quali possono impedire che una persona possa farsi un chiaro concetto di una situazione nazionale! Essi hanno messo 400. Sono stati 20 soltan­to. Meglio! Ma un morto solo, in quel fatto, avrebbe significato, di fronte allo svolgimento nazionale, la stessa cosa di 400 morti.

   E ricordate, compagni, che, ad esempio, durante la guerra libica, i comunicati che giungevano alla nazione, al popolo italiano, da parte del Governo, parlavano sempre di minime perdite nell'esercito italiano, di nessuna perdita, e c'era qual­che giornalista arguto, che diceva che durante le battaglie in Tripolitania nasce­vano dei bambini! Ma ciò non ha impedito che il Partito socialista italiano assu­messe, di fronte alla guerra libica, quella tal posizione che ha assunto, e la falsità delle notizie non ha impedito che l'importanza della guerra italo-turca fosse ben valutata in Italia, ed anche se noi non avessimo saputo che morivano a centinaia ed a migliaia i soldati italiani in Tripolitania ed in Libia, abbiamo ciononostante preso quella linea di condotta che è poi apparsa come giusta, e che ha portato ad utili conseguenze.

   Non quindi da queste valutazioni esteriori si può dire che i compagni russi co­noscono o non conoscono, perché, ripeto, sarò grato a chi di voi potrà portarmi un solo documento dell'Internazionale comunista, dal quale balzi evidente la sco­noscenza che i compagni russi hanno della situazione italiana.

   Ma badate, compagni: queste cose che sono venuto dicendovi, erano per indi­carvi che quand'anche queste cose che sono in discussione tra di noi, «l'espulsio­ne dei riformisti, la scissione del partito», fossero conseguenza di ordini che ven­gono da Mosca, badate che questi ordini giungerebbero in Italia trovando già una situazione di fatto la quale moralmente confluisce a quello che oggi stiamo discutendo.

   Perché io non risalgo all'espulsione dei socialpatrioti, io vengo più indietro; [...] a Bologna, l'altro anno, c'era una tendenza, la quale era piccola di numero, ma che ha avuto un valore nello svolgimento della lotta proletaria in Italia in questi ultimi anni: era la frazione astensionista, la quale chiedeva, come conclu­sione, l'espulsione dei riformisti dal partito. Era il primo documento concreto che noi avevamo nel nostro movimento; ma la domanda di espulsione dei rifor­misti, se andassimo bene a cercare, potremmo ritrovarla assai più indietro.

   Dopo Bologna, il Consiglio nazionale di Firenze, e mi ricordo che, modesta­mente, parlando molto breve, allora, io ho fatto presente come, data la situazio­ne in Italia, l'espulsione dei riformisti era una necessità per il partito.

   Al Consiglio nazionale di Milano, la Sezione socialista torinese ha presentato a quel Consiglio nazionale una mozione che la maggior parte del partito ignora, che è stata affogata in quell'ambiente cattivo che si era creato nel Consiglio na­zionale di Milano contro ogni cosa che venisse da Torino, perché Torino in quei giorni stava combattendo la sua grande battaglia per il controllo; e fu una batta­glia condannata allora, ma riscattata ultimamente, nel settembre, nonostante i sacrifici che è costata ai torinesi. Ma, dato quell'ambiente che si era creato, per cui accostandosi al movimento di Torino, ogni cosa che veniva da Torino era con­dannata, quella mozione non venne discussa, ma se qualcuno di voi la possiede, e la legge, o l'ha letta nel passato, vedrà che in quel programma pratico di azione per il Partito socialista, era prevista, come condizione assoluta perché il partito potesse operare in Italia secondo le direttive che oggi egli deve seguire, l'espul­sione dei riformisti.

   E, badate, abbiamo questo piccolo conforto: che noi non ubbidiamo a Mosca, perché se mai Mosca non ha fatto altro che prendere quello che in Italia era già stato concretato.

   E l'accenno sull'«Ordine Nuovo», che è apparso sopra la tesi speciale che con­sidera la situazione italiana, nonostante che abbia fatto inalberare tanti, i quali, non so perché - e confesso loro che hanno torto - vollero vedere nel movimen­to del gruppo dell'«Ordine Nuovo» qualche cosa di cattivo e di arrivista, nono­stante quest'aria di antipatia, sta ad indicare che i compagni di Russia sono giun­ti dopo, quando in Italia era già creato quel concetto che si era già affermato concretamente sopra un pubblico documento.

   In conseguenza, né ordini e neppure improvvisazioni, ma sbocco logico di un movimento che in Italia ha le sue radici profonde nel passato e che finalmente quest'oggi deve giungere a definizione.

   Perché il problema è che bisogna concludere. Perché il movimento operaio e proletario in Italia si trascina inutilmente, da quando la guerra è finita, e non tende al suo sbocco naturale, e si arrovella, e non sa che fare, ma non perché il proletariato non sia capace. Ho sentito qualcuno tra di voi che sovente innalza il proletariato italiano ai sette cieli, parlare oggi di esso come una massa incapa­ce, non pronta, che è solo attaccata al proprio interesse, che non sa perseguire altra idealità. No, il proletariato italiano, e ne ha dato la prova molte volte, è capace e sarebbe capace di alte gesta, ma ha bisogno di una guida, e bisogna dargliela, e per questo bisogna creare un Partito politico di classe del proletariato.

   Date dunque queste premesse, cioè la situazione rivoluzionaria in Italia, le de­liberazioni del congresso della Terza Internazionale, e la maturazione di una cor­rente di idee che aveva cittadinanza già da prima nel Partito socialista italiano, noi diciamo che oggi il Partito socialista italiano deve, basandosi sopra queste tre basi, determinare una situazione decisiva nel proprio interno. Ed allora dicia­mo: occorre la divisione del Partito comunista dalla tendenza socialdemocratica.

   Ho con ciò dimostrato quali sono le ragioni nostre per le quali quest'oggi noi diciamo che il congresso occorre proceda a questa espulsione, o usciremo noi per creare il Partito comunista.

   Ma vi è un'obiezione, ed è l'unica obiezione la quale abbia un valore di fronte a tutte quelle che ci si sono fatte, e indica essa sola veramente una preoccupazio­ne che noi, comunisti, condividiamo, ed è questa: la scissione nel partito, non porterà come conseguenza la scissione nell'organizzazione sindacale?

   Rispondo subito. Noi comunisti diciamo che la divisione del partito non por­terà, come conseguenza, la divisione dell'organizzazione sindacale.

   Perché, badate, la scissione del partito è un fatto storico, e come tale non può dipendere esclusivamente da un fatto di volontà, e vi ho spiegato bene adesso quali sono gli elementi che hanno contribuito a creare questa divisione, ma ci vuole anche l'atto di volontà, perché se noi non risolvessimo la situazione, la si­tuazione inevitabilmente si ripresenterebbe ogni giorno di fronte al partito poli­tico. Ma nell'organizzazione sindacale gli elementi che sono maturati nel partito non sono maturati, perché l'organizzazione sindacale ha sì una caratteristica po­litica, può anche, sì, considerarsi in se stessa come un partito politico nel quale la dichiarazione di fede non si fa con l'adesione individuale e personale, ma qua­si per acclamazione collettiva, nella scelta dei funzionari che appartengono a questo o a quell'altro partito, ma pure essendo, all'ingrosso, un partito politico, non c'è la coscienza, la fede radicata, profonda, concreta, come c'è nel partito politico.

   Le organizzazioni sindacali hanno una tendenza nelle questioni politiche, non hanno un programma politico. Le organizzazioni sindacali non si dividono di fronte ad una situazione politica, perché non sono esse che devono risolvere la situazio­ne politica.

   Ora, nell'organizzazione sindacale, il processo di divisione non si è svolto, e non vi sarà neppure l'atto volontario che crea la divisione, perché noi comunisti non creeremo mai, e prendetene pure segno, non creeremo mai una scissione nella Confederazione Generale del Lavoro.

   Perché noi comunisti non creeremo mai delle organizzazioni le quali debbano svolgere la loro attività in concorrenza della Confederazione Generale del Lavo­ro; perché noi comunisti abbiamo, di fronte ai sindacati, la nostra tattica, la qua­le non mira a spezzarne gli organismi, ma mira a conquistarli, e la tattica sinda­cale del Partito comunista si svolgerà per l'appunto sopra questa direttiva [...].

   Che politica farà il Partito comunista di fronte ai sindacati? La politica che i comunisti d'Italia hanno già iniziato ed hanno invano tentato di fare accettare alla massa del partito: la costituzione di gruppi comunisti dei sindacati, delle azien­de, delle fabbriche, e la costituzione dei Consigli di fabbrica sono i due strumen­ti che daranno sicuramente al partito politico di classe, la direzione del movi­mento sindacale in Italia.

   Permettete e non urlate a Torino, se la nomino ancora, ma Torino è stato un campo di esperienze anche nel campo sindacale in questi ultimi due anni, ed a Torino l'azione metodica comunista, con un programma prestabilito, con la creazione, prima, dei Consigli di fabbrica che hanno dato alla massa proletaria torinese quell'inquadramento completo che i sindacati mai, per un'impossibilità organica, avevano potuto dare loro; e con la creazione dei gruppi comunisti di azienda, per mezzo dei quali l'azione del partito può essere utile per far giunge­re nei centri di produzione le disposizioni e gli ordini, ed attingere le informa­zioni; ha fatto sì che a Torino la massa proletaria, se subirà la ripercussione della scissione, la subirà in un modo soltanto: che non abbandonerà i sindacati, ma si presenterà al congresso della Confederazione Generale del Lavoro come una for­za organizzata e decisa alla conquista della Confederazione stessa su un program­ma comunista.

   Ma voi dite: credete che sarà possibile la permanenza nei sindacati di masse operaie le quali siano comprese nell'orbita d'azione del Partito comunista, e di masse operaie che siano nell'orbita di azione di altri partiti politici?

   Ed allora io vi rispondo con le parole che D'Aragona disse quando volle spie­gare perché oggi la Confederazione Generale del Lavoro fa ancora parte, dell'In­ternazionale di Amsterdam.

   Egli disse: «Noi dell'Internazionale di Amsterdam costituiamo una minoran­za, la minoranza di sinistra, e noi potremo, se restiamo nell'Internazionale di Amsterdam, conquistare quell'Internazionale, raggiungere la maggioranza, fin che l'Internazionale di Amsterdam diventi essa stessa l'Internazionale comunista».

   E noi, che nel campo politico internazionale non riconosciamo la possibilità di questo accomodamento, riconosciamo però che nello stesso organismo sinda­cale possano restare tendenze, gruppi o collettività che seguano scuole diverse, quando le seguano non per una coscienza profonda e concreta, ma come le masse organizzate seguono il Partito socialista, soltanto perché esso è il partito dei lavo­ratori, non per la sua dottrina o la specializzazione di essa.

   Noi resteremo nei sindacati, non solo, ma il Partito comunista esplicherà in essi quell'opera che il Partito socialista non ha mai esplicato e che la Confederazione Generale del Lavoro non ha mai voluto esplicare.

   Divisione del partito, ma unità del proletariato, e, badate - adesso mi urlere­te e mi direte che sono un anarchico e che domani abbraccerò Borghi - noi vi diciamo che uno dei nostri scopi, nel campo sindacale, sarà di creare l'unità sin­dacale in Italia, perché la Confederazione Generale del Lavoro deve riunire nelle sue file tutte le organizzazioni proletarie d'Italia. [...]

   In ogni modo, di fronte a tutte le organizzazioni sindacali, il Partito comuni­sta esplicherà quell'opera la quale, dando ad esse la coscienza che soltanto attra­verso alla lotta di classe condotta dal partito politico della classe proletaria, che soltanto attraverso a quel metodo tattico e d'azione che la Terza Internazionale suggerisce a tutti i proletariati internazionali, può essere data, riuscirà a farle uni­re tutte alla Confederazione del Lavoro.

   Così il Partito comunista, [... ] tendendo con tutte le sue forze a distaccare dal­le masse illuse e condotte agli errori, i loro capi, i quali non sanno quale è la via precisa della lotta rivoluzionaria del proletariato, staccherà i capi dalle masse e porterà le masse alla Confederazione Generale del Lavoro.

   Questa è l'azione che il Partito comunista esplicherà nel campo sindacale, non facendo altro che applicare in Italia i metodi e la tattica che sono stati sanciti dal­la Terza Internazionale nel suo secondo congresso.

   Quindi vedete che di fronte al problema sindacale, mentre si afferma che la divisione del partito porterà come conseguenza inevitabile la divisione dei sinda­cati, il programma nostro nei sindacati non può legittimamente far prevedere a nessuno che quell'evento, certamente infausto, possa verificarsi.

   E c'è infine l'altro problema, che sta molto a cuore a qualcuno, forse più di quello dei sindacati, e sono i comuni e le provincie.

   Io non so che grado di inferiorità possa costituire per me il parlare di questo argomento, essendo consigliere provinciale, quando per nessuno di noi è una con­dizione di inferiorità il parlare di socialismo essendo socialisti.

   Di fronte ai comuni, ai consigli provinciali ed al gruppo parlamentare, il Parti­to comunista non provocherà in nessuna maniera la possibilità che questi posti occupati, non da un partito, ma dalla massa operaia per mezzo dei suoi rappre­sentanti, debbano essere abbandonati e debbano cascare nelle mani degli avversari.

   In quale maniera potrà essere risolta questa situazione? In una maniera molto semplice e non so perché in questo momento si senta la necessità di questa di­scussione, quando voi potreste aver letto, non fosse altro che per curiosità, quan­to abbiamo scritto nella nostra relazione. In quale maniera, dunque, si potrà ri­solvere questa situazione? Molto semplicemente, compagni. Il Partito comunista potrà provocare delle crisi di giunte municipali, potrà provocare delle crisi di de­putazioni provinciali, ma il Partito comunista pensa che i consigli comunali o provinciali devono essere mantenuti dai propri iscritti.

   Ho così accennato, in maniera molto schematica, ad alcuni problemi che spe­cialmente son stati di fronte alle nostre discussioni, e vi ho fatto noto come la frazione comunista li risolva.

   Quindi è inutile ormai cercare con altri mezzi di dimostrare la reciproca posi­zione delle nostre frazioni. È inutile lanciare ed accettare ponti di passaggio, i quali dovrebbero avere come propria pregiudiziale l'abbandono, da parte di noi o di altre frazioni, delle loro premesse che sono state fermamente stabilite nelle polemiche dei mesi passati ed in questi giorni al congresso. Ed è anche risolto il dubbio che [...] l'affermazione dell'accettazione integrale da parte della fra­zione unitaria dei 21 punti di Mosca possa creare la base di unione tra gli unitari ed i comunisti, non per respingere una possibilità, se la possibilità ci fosse, ma per un'impossibilità materiale.

   Perché accettare integralmente i 21 punti di Mosca, senza riserve, non è fare quanto l'adesione alla Terza Internazionale impone ai partiti comunisti. L'ade­sione alla Terza Internazionale dice che occorre accettare i 21 punti, ma dice nel contempo che l'occasione nella quale i 21 punti devono essere accettati ed appli­cati è il congresso straordinario che i partiti debbono convocare nel termine di 4 mesi dal congresso di Mosca. Ne deriva come conseguenza che accettare i 21 punti, e specialmente il punto che si riferisce all'esclusione dei riformisti, porta come conseguenza inesorabile ed insopprimibile, se non vi sono riserve, che lo stesso congresso deve prima di sciogliersi deliberare l'attuazione pratica di quelli dei 21 punti che sono decisivi per la costituzione del Partito comunista. Cioè questo congresso, approvando una mozione la quale accetti i 21 punti, approva nello stesso tempo e senza ulteriori parole la esclusione dei riformisti.

   Quindi voi vedete che la situazione è di una chiarezza tale alla quale nessuno può sfuggire, sulla quale dubbi non vi possono essere, e noi comunisti, che non siamo i feticisti della scissione, diciamo che se veramente gli unitari accettano i 21 punti di Mosca essi debbono venire sopra questo terreno, il quale non è una sottile e sofistica interpretazione dei punti di Mosca perché, guardiamo in Fran­cia, guardiamo in Germania, si criticherà o si loderà, ma in Francia ed in Germa­nia i partiti convocati per discutere l'adesione a Mosca hanno contemporanea­mente applicati quei punti delle tesi di Mosca che considerano l'esclusione dei riformisti.

   Dopo la Direzione del Partito comunista potrà applicare i punti della revisio­ne, della candidatura, dello accentramento, della riorganizzazione del partito; ma noi non potremmo delegare alla Direzione l'applicazione del punto che con­sidera l'esclusione dei riformisti, appunto perché esso non deve ridursi ad una sanzione individuale o personale, sulla quale possono valere apprezzamenti par­ticolari dei membri della Direzione; e appunto perché l'esclusione dei riformisti è l'atto solenne, doloroso ma necessario col quale il Partito comunista crea la sua prima base, non la Direzione del partito, organo esecutivo, ma il congresso na­zionale, solenne assemblea di tutto il partito di classe del proletariato italiano deve ciò deliberare e deve ciò esaminare.

   Voi vedete bene che non ci sono ponti, voi vedete bene che non ci sono mezze misure, voi vedete che la frazione comunista, spiegando con le parole che io vi ho detto quale è l'atteggiamento che i socialisti italiani debbono assumere di fronte alla Terza Internazionale, non fa che ribadire quello che è stato il concetto che essa ha espresso nella mozione di Imola, la quale ha avuto un merito solo, un solo grande merito, quello di posare immediatamente le basi della propria azio­ne, del proprio sviluppo, del proprio organismo, il che sta ad indicare se non altro che essa ha ferma coscienza di fare qualche cosa di giovevole e su cui quindi, evidentemente, non si può transigere.

   Io sono convinto che se i compagni unitari accettando i 21 punti di Mosca in questa forma resteranno con noi, io sono convinto che nessuno più dei compagni comunisti ne avrà gioia, perché l'adesione alla Terza Internazionale, la disciplina internazionale non ha come suo sottinteso la inimicizia nazionale, ma ha un cul­mine più alto e supremo che è l'organizzazione internazionale dei lavoratori, cui devono tendere e devono confluire i proletari di tutti i paesi, uniti fra di loro attraverso le frontiere, ma uniti anche nell'interno delle frontiere.

   La Terza Internazionale supera tutte le divisioni, la Terza Internazionale vuole colmare tutte le lacune, la Terza Internazionale dice ai compagni socialisti italia­ni: «Siate disciplinati alle deliberazioni che voi stessi avete voluto, e sarete real­mente il primo esercito della lotta rivoluzionaria internazionale».

   Compagni, sono momenti, questi, di una certa solennità, e sono momenti in cui siamo compresi delle parole che diciamo, e sentiamo il rammarico di non sa­pere esprimere in altra forma i nostri sensi. Oggi, in cui dobbiamo dare al nostro partito, e quindi al proletariato il suo mezzo risolutivo di lotta e di vittoria, non fermiamoci sulle parole, pensiamo soltanto che la Terza Internazionale riscatta le colpe della Seconda Internazionale, e riscattiamoci anche noi, non come parti­to, ma come individui dalle colpe passate, e sappiamo renderci degni dei sacrifici immensi, dei disastri immensi, degli orrori immensi che il proletariato russo sop­porta per dare a noi quest'oggi una base di creazione e di ricostruzione del futu­ro. Vada alla Russia il nostro saluto, alla Terza Internazionale, alla rivoluzione mondiale!