Lelio Basso

I limiti del 2 giugno 1946

Lelio Basso, La Repubblica, in Due totalitarismi: Fascismo e De­mocrazia cristiana, Milano, 1951, pp. 33-39. Testo ripreso da "Dalla Monarchia alla Repubblica", op.cit. pp.241-247. La nota introduttiva è di Enzo Santarelli.



Questi scritti (stralciati e ordinati dallo stesso autore da tre diversi interventi del 1947) furono presentati nel corso del 1951, in pieno clima di guerra fredda e quindi di forte tensione sociale. Si tratta di un tentativo «socia­lista» di ricostruire gli sviluppi che avevano condotto al 2 giugno, e di esaminarne, per quanto possibile obietti­vamente, i limiti politici. L'accento cade, in questo caso, più sulle difficoltà soggettive della sinistra, e sulla situa­zione interna italiana, che sul carattere generale del pro­cesso storico, del resto strettamente intrecciato alle condi­zioni internazionali. La corrente socialistica percepì acu­tamente le asprezze della nuova condizione italiana, già all'indomani dell'evento repubblicano (cfr. ad esempio l'articolo di Rodolfo Morandi, Il partito e la classe, in Socia­lismo, luglio-agosto 1946). Fin dal 1947 - con la scissio­ne socialdemocratica - il partito socialista venne d'altra parte a perdere il suo primato fra i partiti della classe operaia ad orientamento marxista. (Morandi si impegnò poi per quasi un decennio a ristabilire un forte partito socialista, autonomo ma strettamente collegato al PCI: era un modo di reagire alla controffensiva reazionaria co­me ai pericoli di revisionismo che insidiavano la condotta dei socialisti.) Lelio Basso denunciava la continuità dei «due totalitarismi» (fascismo e Democrazia cristiana) ri­torcendo contro il blocco centrista l'accusa che in quegli anni veniva lanciata contro il movimento di classe. In seguito Basso sviluppò la sua critica politica nel saggio Il principe senza scettro. Democrazia e sovranità popolare nella Costituzione e nella realtà italiana, Milano, 1958.


La lotta contro il fascismo condotta per un ventennio dalla classe operaia e dagli intellettuali di avanguardia, divenuta nel 1943 la lotta dell'immensa maggioranza del popolo italiano, era una lotta per la conquista di un regime di democrazia. Anche se la nuova generazione, nata, cre­sciuta ed educata sotto il fascismo, non sapeva che cosa veramente fosse un regime democratico, che cosa vera­mente significasse democrazia, tutti coloro che combat­terono veramente il fascismo sapevano che combattevano per un rinnovamento totale della vita italiana. Essi ave­vano tutti, almeno confusamente, una grande speranza nel cuore: che i mali di cui l'Italia aveva sofferto durante il fascismo avessero definitivamente a cessare e che una nuova fase si aprisse per la storia del nostro paese. E poiché il fascismo era venuto sempre più svelandosi per un regime di dittatura e di oppressione poliziesca, di sfrut­tamento economico e miseria, e infine di guerra, l'antitesi del fascismo appariva come un regime di vera libertà, di progresso sociale e benessere economico e di pace. Era questa, del resto, l'aspirazione comune alla grande mag­gioranza dei popoli d'Europa, che nel corso di una gene­razione avevano conosciuto due guerre mondiali e, bene spesso, un regime di dittatura fra le due guerre.

   Perché queste speranze non furono realizzate? Perché la loro realizzazione implicava una lotta contro le cause del fascismo, cioè contro le oligarchie plutocratiche che sono all'origine della speculazione, della guerra e della miseria del popolo, lotta che solo le forze conseguente­mente democratiche e in particolare la classe operaia ave­vano interesse a proseguire. Perciò, come sul piano inter­nazionale era logico che si rompesse la coalizione delle potenze che avevano condotto insieme la guerra vittoriosa, sul piano interno era logico che si rompesse ad un certo momento l'unità delle forze antifasciste. Queste forze ave­vano abbracciato quasi tutto il popolo italiano quando si era trattato di combattere il nazifascismo; mantennero ancora una certa compattezza sul terreno istituzionale, ma non poterono più trovarsi unite quando si trattò di affrontare le questioni sociali, esasperate dalla guerra e dalla disoccupazione.

   Per non assumersi la responsabilità della rottura, i partiti di sinistra finirono con l'accettare la tattica temporeggiatrice delle destre che miravano a rimandare sempre più in là la trattazione dei problemi di fondo. Dall'aprile 1945, fino alla rottura del tripartito, la lotta politica in Italia fu dominata da questo equivoco. In omaggio all'idea dell'unità, il CLN non aveva elaborato un programma su cui fosse necessario dividersi, e in omaggio alla stessa unità le sinistre rinunciarono ad elaborarlo per proprio conto ed a lottare per esso. Il problema della democrazia, che vuol dire al tempo stesso iniziativa popolare e riforme di struttura, fu in pratica sacrificato ad un compromesso di vertici. La lotta contro il fascismo, anziché essere por­tata sul suo vero terreno di lotta contro le cause economi­co-sociali del fascismo, con la conseguente mobilitazione delle forze popolari interessate al rinnovamento sociale delle strutture del paese, fu inaridita nella lotta contro alcuni aspetti più appariscenti e superficiali del vecchio fascismo, senza reale importanza e incapaci di costituire un obiettivo politico di classe.

   La tregua istituzionale, che obbligò poi le sinistre a una serie di compromessi, non ultimo dei quali l'accetta­zione di un governo De Gasperi pur di potere ad un certo punto arrivare ad un referendum; il fallimento dell'epura­zione, che, anziché apparire come una conseguenza poli­tica del crollo del regime, fu frantumata in una serie assur­da di processi individuali, e che, lasciando intatta di fatto la vecchia burocrazia, paralizzò qualunque azione nell'ambito delle strutture statali; la liquidazione dei CLN resi impotenti dalla pariteticità e dalla soggezione ai vertici dei partiti svuotati di ogni iniziativa popolare alla base, e perciò agevolmente sacrificati alla necessità dei compro­messi governativi; la rapida eliminazione dei prefetti e questori politici, dei commissari agli enti e alle industrie e la loro sostituzione con i vecchi elementi tornati tutti in circolazione, così come le vecchie testate e le vecchie firme dei giornali, e il conseguente riformarsi della vec­chia rete di omertà fra plutocrazia, altissima burocrazia e mondo giornalistico-politico, che rese vano ogni pur mo­desto sforzo di rinnovamento e ogni pur limitata conquista in senso sostanzialmente democratico; la mancanza di una qualsiasi riforma sociale nei programmi dei primi governi Parri e De Gasperi e il loro rinvio alla Costituente prima e alle Camere legislative poi, che svuotò la lotta politica italiana di ogni serio contenuto capace di orientare ed educare democraticamente le masse popolari, lasciandole così preda della demagogia dei programmi e della retorica dei discorsi da parte degli uomini della Democrazia cristia­na e degli altri partiti borghesi, anziché del chiaro linguag­gio dei fatti; infine, come corollario di tutto ciò, la perdita di slancio del moto stesso popolare e il crescente stato di insoddisfazione e di irritazione, e quindi di apatia o di impazienza, sono tutti anelli di una catena che ha porta­to gradualmente alla restaurazione del vecchio ordine.

   Fu preoccupazione essenziale dei partiti borghesi quel­la di impedire che qualche cosa di nuovo uscisse dall'insur­rezione vittoriosa del 25 aprile, o quanto meno si conso­lidasse stabilmente; essi identificarono subito la democra­zia con la legalità, cioè con il suo aspetto più estrinseco e formale (che era in ultima analisi la legalità fascista, perché fasciste erano le leggi in vigore), e su questo ter­reno ebbero facile gioco per difendere quello che era il loro obiettivo principale: assicurare la continuità formale e sostanziale con il passato. La tattica era chiara: temporeggiare sempre, procrastinare ogni soluzione di problemi, evitare ogni passo in avanti della marcia popolare; cercare all'ultimo momento dei compromessi e intanto addormen­tare lo slancio delle forze democratiche che nell'aprile 1945 appariva possente e minaccioso per i detentori dei vecchi privilegi, e dare a questi ultimi e alla reazione il tempo di rafforzarsi e di sostenere la controffensiva.

   Fu il partito liberale che svolse in un primo tempo questa funzione, assecondato subdolamente dalla Demo­crazia cristiana, che ancora tendeva a non scoprirsi, e la crisi del governo Parri, dopo l'impegno assunto di con­vocare la Costituente, con la conseguente formazione del primo governo De Gasperi, fu il fatto saliente di questa prima fase della lotta, che, protraendo sempre i termini della consultazione popolare, riuscì a immobilizzare per oltre un anno la lotta politica sul problema istituzionale. Parallelamente a questa azione dei partiti di destra, se ne svolgeva un'altra più di fondo, consistente nel tentativo di scindere le forze popolari, isolandone una parte. Di fronte al fatto evidente che, pur rinviati e differiti al di là della consultazione popolare, i problemi fondamentali della struttura del paese avrebbero dovuto essere un gior­no sul tappeto, le forze conservatrici miravano ad ottenere che gli inevitabili contrasti interni del popolo italiano, dopo l'euforia dell'unità antifascista, si polarizzassero su altri motivi che non fossero quelli della struttura sociale, e soprattutto su motivi ideologici o religiosi o astratta­mente politici, intorno ai quali fosse possibile dividere fra di loro anche i partiti di sinistra o i ceti lavoratori, in modo che la linea di frattura fra i due campi cadesse il più a sinistra possibile e lasciasse quindi dall'altra parte della barricata politica solo una parte delle forze popola­ri. Le armi usate per questa azione consistevano, per i partiti borghesi, nello strappare di mano ai partiti di sini­stra e far proprie, naturalmente solo nei programmi, le principali rivendicazioni sociali e spostare i termini della polemica sul terreno puramente politico, presentandosi come difensori della democrazia ed accusando i partiti di sinistra di volontà totalitarie e dittatoriali. Vecchia ar­ma di propaganda già ben nota alla reazione fascista: de­nunciare i comunisti come nemici di tutto ciò che l'uomo medio ha di più caro (la famiglia, la patria, la libertà, la religione, la tranquillità, ecc.) e accusare di essere co­munisti o cripto-comunisti o paracomunisti o comunque succubi dei comunisti tutti coloro che non sono disposti ad allearsi con la borghesia.

   Dal canto loro i lavoratori italiani, in questa atmosfera politica, ebbero dal 25 aprile 1945 al 2 giugno 1946 l'illusione che un pieno sviluppo della democrazia politica in Italia, con l'avvento della repubblica e della Costituen­te, avrebbe potuto risolvere i loro problemi. «Pane, lavo­ro e Costituente» fu l'ingenua espressione di questo stato d'animo popolare che apparve su tutti i muri d'Italia. Molti lavoratori finirono così col non intendere che i partiti politici sono in realtà espressioni di interessi sociali e che è sulla base degli interessi che essi difendono che i partiti vanno giudicati. Molti lavoratori italiani dispersero così il 2 giugno i propri voti, senza capire che la molteplicità dei partiti giova alla classe borghese, e che solo una corag­giosa impostazione di classe può dare garanzia al proleta­riato che i suoi problemi saranno veramente affrontati e risolti. L'antitesi «dittatura (di destra o di sinistra) - de­mocrazia», artificiosamente mantenuta in vita dalla pro­paganda borghese, dominò l'atmosfera del 2 giugno, e la paura del salto nel buio solleticò gli istinti conservato­ri del popolo italiano.

   Il risultato del 2 giugno fu quindi un risultato equivo­co e dipese in gran parte dal fatto che alcuni milioni di elettori si orientarono più sulla base di atteggiamenti sen­timentali o di preoccupazioni ideologiche o addirittura di contingenti aspirazioni, che sulla base di una effettiva su­bordinazione della propria scelta ai propri permanenti interessi di classe o alle proprie maturate convinzioni politi­che. E la delusione, con le conseguenti necessarie chiari­ficazioni, non doveva tardare a venire.