Palmiro Togliatti

Per una via italiana al socialismo.
Per un governo democratico
delle classi lavoratrici

Relazione di Togliatti all'VIII Congresso del PCI, Roma, 8-14 dicembre 1956. Testo tratto da "Da Gramsci a Berliguer, la via italiana al socialismo attraverso i Congressi del Partito comunista italiano", Edizioni del Calendario, vol. III, 1956-1964, pp. 23-71.


   Questo ottavo congresso del Partito comunista italiano si riunisce in un mo­mento assai grave e ha davanti a sé compiti di eccezionale importanza. Non po­trebbe essere e non sarà un congresso di ordinaria amministrazione. Se a questo si riducesse, verrebbe senz'altro meno agli scopi per cui è stato convocato e per raggiungere i quali ne è stata condotta la preparazione.

   La situazione internazionale ha avuto negli ultimi tempi sviluppi drammatici. Nel momento in cui poteva sembrare giustificata la speranza di un pacifico esten­dersi del processo di distensione dei rapporti tra i popoli e tra gli stati, gli impe­rialisti francesi e inglesi hanno aggredito a tradimento il popolo egiziano, hanno portato la guerra nel mondo arabo. In conseguenza di questa aggressione siamo stati a poca distanza dallo scoppio di un terzo conflitto mondiale e noi sappiamo che oggi un conflitto mondiale significherebbe la totale devastazione della mag­gior parte dell'odierno mondo civile. La nostra civiltà stessa è quindi stata ancora una volta spinta sull'orlo di un abisso.

   Anche nel mondo socialista sono accaduti fatti gravi. È proseguita con grande successo, nella maggior parte dei paesi che fanno parte di questo mondo, la co­struzione pacifica di una nuova economia e di una nuova società. In due1 di essi si sono avuti fenomeni di assestamento, accompagnati da improvvisi sommovi­menti popolari e dall'aperto o mascherato intervento di forze controrivoluziona­rie. Nell'Ungheria, piccola per numero di abitanti e per estensione, ma di gran­de importanza per il posto che occupa nel cuore dell'Europa e per le tradizioni storiche si è giunti sino a una tragica rottura, ad azioni insurrezionali e ad atti di guerra. Anche i fatti di Ungheria si sono svolti in modo tale che ha reso evi­dente il pericolo che non solo alcuni stati, ma tutta l'Europa fosse trascinata in un conflitto. È balenata ancora una volta agli occhi dei lavoratori la prospettiva della istaurazione di una sanguinosa tirannide fascista. Questi fatti hanno colpito e commosso profondamente l'opinione pubblica, e soprattutto l'animo e la mente degli operai rivoluzionari e delle masse lavoratrici. Ingenuità ed errore sarebbe non riconoscere che alla loro origine sta una profonda crisi del movimento comunista e operaio ungherese e che i problemi emergenti da questa crisi interessano e nella loro soluzione coinvolgono la responsabilità di tutto il nostro movimento. E sono problemi che non si risolvono dando un pugno sul tavolo o ripetendo fra­si, ma con analisi sincere e con deduzioni coraggiose, essendo questo il solo mo­do per togliere qualsiasi possibilità di successo alla campagna anticomunista, an­tisocialista e antidemocratica che da ciò che è accaduto in Ungheria trae alimento e pretesto.

   Il nostro paese ci offre il quadro di una situazione critica e acuta. Mentre si affacciano serie difficoltà economiche, è palese la tendenza a esasperare i rapporti politici. Vecchi problemi si ripresentano in forme nuove, problemi nuovi si af­facciano, e tra di essi alcuni sono decisivi per gli sviluppi del movimento operaio, per le sorti della democrazia, per la unità delle forze di classe e popolari italiane.

   Il congresso è stato preparato in un clima particolare e in modo tale che deve essere a tutti presente e sottolineato. Superata, e non molto male, la parentesi della campagna elettorale amministrativa, il nostro partito si è investito in pieno delle decisioni, delle critiche, delle gravi denunce uscite dal XX Congresso del Partito comunista dell'Unione Sovietica. Ciò era necessario e avevamo il dovere di farlo. Il XX Congresso - ora lo si vede anche meglio di prima - è stato una tappa non solo di sviluppo, ma di svolta rinnovatrice. A questa svolta non vi è una parte del nostro movimento che possa non partecipare, così come non è pos­sibile che da essa si ritorni indietro. È stato a noi comunisti italiani meno difficile comprenderlo, per il contenuto che la nostra politica ha avuto da più di dieci anni e per il carattere che il partito già aveva cercato di dare a se stesso e alla propria azione, per la preparazione ideale che ci viene dall'insegnamento di An­tonio Gramsci. Attraverso una discussione cui il partito ha preso parte in misura non mai toccata prima d'ora, è però risultato quante questioni e di quale gravità dovessero anche da noi venire approfondite, errati indirizzi politici e di lavoro precisati o corretti, affinché non si arrestasse, ma prendesse nuovo impulso la ri­cerca di un particolare cammino che porti la classe operaia a adempiere anche in Italia la sua funzione, che è di porre fine al regime dello sfruttamento e creare un regime socialista. Non abbiamo solo discusso. La discussione si è intrecciata con la lotta, è stata lotta essa stessa, contro avversari e nemici che dall'esterno assalgono il partito, e contro la penetrazione nelle nostre file di una loro qualsiasi influenza, contro ogni tentativo di trasformare il necessario dibattito in denigra­zione del partito e dei suoi quadri dirigenti, in disgregazione delle sue file. I con­gressi delle cellule, delle sezioni, delle federazioni provinciali già ci hanno dato il quadro della unità e compattezza con la quale tutto il partito si accinge, nella rinnovata consapevolezza di tutti i suoi compiti, ad operare per la loro attuazione.

   Il congresso è l'ultimo atto di un grande processo, che già in sé contiene gli elementi di un profondo rinnovamento. Rinnovare non vuol dire né rigettare né rivedere per distruggerli i grandi e nuovi principi ideali, politici e di organizza­zione che abbiamo affermato con la creazione del Partito comunista e da cui ci siamo sforzati di non discostarci mai, in tutta la successiva azione nostra. Rinno­vare vuol dire determinare con la maggior chiarezza i fondamenti e il contenuto della azione che in Italia conduciamo per la democrazia, per la pace e per il socia­lismo; vuol dire sottolineare ancora una volta il carattere nazionale e democratico del nostro partito; vuol dire eliminare qualsiasi forma di aperta o larvata resisten­za a questa azione e a questo carattere e alla loro traduzione in pratica quotidiana; vuol dire rompere e distruggere le incrostazioni burocratiche e lo schemati­smo organizzativo che limitano o deformano i rapporti con le masse lavoratrici, comprimono la vita interiore del partito e quindi ne impediscono lo sviluppo. Rinnovare e rafforzare sono quindi obiettivi strettamente uniti. Anzi, essi coincidono.

   Spetta a noi, ora, trarre dalla discussione che si è svolta e dalla lotta che l'ha accompagnata tutto ciò ch'essa ha dato di positivo, eliminare le scorie, offrire alla classe operaia e al popolo, nel nostro partito, uno strumento più efficace per l'orientamento e la direzione delle loro lotte. Non anticipiamo nulla se fin da questo momento ci sentiamo in grado di affermare che coloro i quali, o con fran­chezza reazionaria o con maggiore o minor dose di ipocrisia, vaneggiano di una crisi fatale del nostro partito, dovranno subire la più amara delle delusioni.

   A Livorno avremmo voluto riunirci, dove siamo nati, quasi trentasei anni or sono. Qui a Roma, undici anni fa, ebbe luogo il congresso della nostra rinascita. Qui a Roma, dal congresso attuale, usciremo rinnovati e rafforzati, forti della ela­borazione di nuove esperienze nazionali e internazionali, e proseguiremo nel no­stro cammino, con maggior fiducia di prima, con slancio migliore, con la certez­za di nuovi successi.


1. Crisi dell'imperialismo e lotta per la pace


Il fatto più grave, quello da cui dobbiamo partire perché dalla sua considera­zione derivano i compiti principali, è il rischio corso da tutto il mondo civile di essere gettato nell'abisso di un conflitto generale, provocato dall'aggressione franco-inglese, cioè imperialista e socialdemocratica, al popolo egiziano.

   Si era finalmente arrivati, dopo il lungo periodo della guerra fredda e altri mo­menti di acuto pericolo di guerra generale, a una certa distensione dei rapporti internazionali. Vi si era giunti per il fallimento dei piani aggressivi e ripetute volte sconfìtti degli imperialisti, per l'allarme e la pressione dei popoli, per i suc­cessi di un grande movimento di difesa della pace, per la vittoria della politica di pace dei paesi socialisti. Sembrava restasse solo il compito di estendere e con­solidare questa distensione, poggiando sulla prevalenza delle forze di pace, sulle modificazioni della struttura stessa del mondo, dovute alla creazione di un siste­ma di stati socialisti e al crollo, anche se non ancora totale, del sistema coloniale. Da una giusta valutazione di queste modificazioni noi stessi partivamo per con­cludere alla possibilità che un nuovo conflitto mondiale e anche nuove guerre locali vengano evitati.

   Era però chiaro, e ripetutamente abbiamo detto, che questa conclusione non significa e non poteva significare che l'imperialismo, con le sue appendici social­democratiche, abbia modificato la propria natura di forza aggressiva e perfida, nemica della pace. Si può mettergli una camicia di forza, cambiare questa sua natura non si può.

   Per un consolidamento della distensione dei rapporti internazionali si richie­dono infatti parecchie cose. Si richiede che venga riconosciuta l'esistenza di un mondo socialista e si rinunci quindi alle cospirazioni e alle avventure di ogni ge­nere sia per scuotere la solidità di questo mondo, sia per tenere al bando della società degli stati una parte di esso, come vergognosamente tuttora si fa con la grande Repubblica popolare cinese. Si richiede venga riconosciuto che la guerra e la pace non debbono dipendere dai calcoli, dalle provocazioni, dai giuochi tragici sull'orlo dell'abisso, dalle intimidazioni dei governi imperialistici, tanto più oggi, che questi governi hanno perduto il monopolio dei mezzi di intimidazione e non sono più la forza dominante del mondo. Si richiede che venga riconosciuto il crollo del colonialismo, la impossibilità di farlo risorgere e il diritto dei popoli coloniali ad avere i loro nuovi stati indipendenti e al rispetto completo della loro sovranità e delle loro ricchezze nazionali. Si richiede, in una parola, una politica europea e mondiale nuova, fondata sulla rinuncia alla organizzazione dei blocchi militari che spezzano il mondo e spingono alla guerra, sulla rinuncia, in partico­lare, alla resurrezione del militarismo tedesco come mezzo di provocazione e in­timidazione, sulla smobilitazione delle basi militari straniere in tutto il mondo, sulla soluzione pacifica di tutte le controversie fra gli stati.

   Costringere i dirigenti, e soprattutto i dirigenti reazionari dei grandi paesi im­perialistici, a questi riconoscimenti e a subire le conseguenze che ne derivano, è risultato essere compito arduo. Le modificazioni avvenute nella struttura del mondo hanno reso più profonda la crisi generale del capitalismo. Il consolida­mento e l'estensione di queste modificazioni, cioè il rafforzamento degli stati so­cialisti e dei nuovi stati africani e asiatici, e nuovi crolli di quanto rimane del sistema coloniale minacciano l'imperialismo di una ulteriore riduzione delle sue posizioni. I soli imperialisti americani hanno speso, per attuare la politica della guerra fredda, la fantastica somma di 350 miliardi di dollari. Non hanno rag­giunto gli scopi che si proponevano. Hanno fondato gran parte della loro econo­mia sullo sviluppo della produzione di guerra. Hanno favorito il sopravvento, in tutti i paesi dove si esercita la loro influenza, dei gruppi più forti del capitale monopolistico, accelerando un processo che è, del resto, proprio e caratteristico dell'attuale fase del capitalismo. I centri di provocazione e di aggressività si sono, così, moltiplicati. Ogni passo verso la distensione ha accresciuto, negli ambienti reazionari, la preoccupazione e creato persino del panico, come ci hanno rivelato senza pudore le gazzette ispirate dalla grande borghesia in Italia. Questi stati d'a­nimo si sono ancora aggravati quando, negli ultimi mesi, sono apparsi nei grandi paesi capitalistici alcuni sintomi che sembrarono premonitori di una crisi econo­mica assai profonda. La fine del sistema coloniale ha già provocato spostamenti e rotture gravi in tutta l'economia delle grandi metropoli, che su quel sistema fondavano gran pane della loro prosperità. Si accentua così il contrasto tra gli stati imperialistici, stretti tra il proposito di impedire con la forza la liberazione dei popoli coloniali, e la ricerca di nuovi metodi di asservimento di questi popo­li. Vecchi stati imperialistici vedono cadere l'una dopo l'altra le colonne su cui si reggevano il loro prestigio internazionale e la loro tracotanza. Altri, come gli Stati Uniti, si sforzano di trasformare la crisi del sistema coloniale in un nuovo rafforzamento del loro predominio mondiale.

   Da questo complesso di elementi è venuta fuori la crisi del canale di Suez, che ha tratto origine da un provvedimento sotto ogni aspetto legittimo del governo egiziano ed è sboccato, dopo settimane di tensione febbrile, nell'aggressione anglo­francese. Respingiamo, perché falsa, la opinione che si tratti di un episodio di scarso significato. La crisi di Suez scaturisce da tutta la situazione attuale dell'im­perialismo, dalla ricerca febbrile di una via di uscita. Respingiamo, perché anche ridicola, oltre che falsa, quantunque sostenuta con prosopopea da qualche stori­co di altri tempi, oggi diventato gazzettiere anticomunista, la interpretazione che fa della crisi di Suez e di tutto il movimento di liberazione dei popoli del Medio Oriente il risultato di una macchina­zione ordita dallo Stato russo, come ai tempi della «questione d'Oriente» del secolo passato, e quindi profetizza che si dovrà uscirne col delimitare in questa parte del mondo le sfere d'influenza delle grandi potenze. Denunciamo come provocatori di guerra coloro che parlano, a proposi­to dell'odierno Egitto e dei popoli arabi dell'Asia e dell'Africa, niente meno che di un imperialismo islamico, che minaccerebbe il mondo come nel passato lo mi­nacciò l'imperialismo hitleriano e contro il quale, quindi, si dovrebbero prende­re le armi. I popoli musulmani del Mediterraneo e del Medio Oriente non hanno nemmeno ancora raggiunto tutti la loro indipendenza nazionale. In Algeria ven­gono massacrati giorno per giorno per ordine di un governo socialdemocratico. Altrove sono ancora governati da equivoci agenti dell'uno o dell'altro imperiali­smo. Dappertutto i loro ordinamenti economici sono deboli, scarsa la ricchezza sociale, quasi nulla la potenza industriale, assai limitata la forza delle loro armi. Parlare di un loro imperialismo minaccioso è tale enormità politica e storica che solo si può spiegare con la potenza della sterlina e del franco francese con i quali vengono retribuiti i banditori di questa dottrina. È verissimo che questi paesi non hanno ancora ordinamenti democratici. Ciò è conseguenza dello scarso sviluppo economico ed è anche conseguenza del modo come gli imperialisti, per poterli dominare, hanno ostacolato e corrotto la loro vita politica. Ma ciò che importa, oggi, è la liberazione dall'imperialismo di tutta una parte del mondo, di popoli di antiche e grandi tradizioni culturali, che abitano tutta la costa meridionale mediterranea. Questi popoli possono dare e daranno un contributo nuovo, origi­nale, al mutamento del carattere stesso di questo mare, che non può continuare a essere un lago per le esercitazioni delle flotte inglesi o americane, ma deve tor­nare ad essere un centro di scambi tra popoli e stati liberi ed eguali, che si com­prendano e di cui ciascuno rispetti l'indipendenza e la sovranità di tutti gli altri.

   La solidarietà della classe operaia e dei comunisti con il popolo egiziano aggre­dito e con la lotta liberatrice dei popoli arabi è conforme alla natura del nostro movimento, che ha nell'imperialismo il suo nemico principale. Questa solidarie­tà coincide con gli interessi della nostra lotta per la pace e strettamente coincide, per noi, con la difesa dei nostri interessi nazionali.

   Ma la brigantesca aggressione al popolo egiziano non esprime soltanto lo spiri­to di rapina della finanza inglese e francese, il fallito proposito della Francia e dell'Inghilterra di salvare, schiacciando l'Egitto, le loro posizioni coloniali e il loro prestigio di potenze imperialistiche in decadenza. Accanto a questo sta an­che una profonda ribellione di queste potenze e dei gruppi più reazionari del mondo imperialistico alla distensione dei rapporti internazionali; sta il tentativo di arrestare il processo distensivo e tornare alla guerra fredda, nella speranza che nel clima della guerra fredda i contrasti tra gli imperialisti possano essere superati più agevolmente, si ristabilisca tra di essi una più efficace solidarietà e sia loro più facile opporsi al grande processo di trasformazione del mondo che oggimai è arrivato a un punto così avanzato e per essi tanto pericoloso.

   Che questo nostro giudizio sia esatto è dimostrato dai fatti, in particolare dal modo come nella crisi internazionale per il canale di Suez si sono inseriti gli acca­dimenti ungheresi e la spudorata speculazione sopra di essi. Già nel passato, nei momenti più critici della situazione internazionale, era apparso chiaramente nel­le grandi potenze imperialistiche lo sforzo di superare o per lo meno di masche­rare i loro contrasti unendosi per la lotta e la guerra contro l'Unione Sovietica. Questa tendenza è stata una delle cause da cui è stata provocata la seconda guerra mondiale. Oggi questa tendenza, nella misura stessa in cui i contrasti oggettivi tra gli imperialisti si fanno più acuti, riappare. È essa che alimenta il proposito di riportare il mondo alla guerra fredda nella forma tradizionale del consolida­mento di un blocco politico e militare antisovietico, antisocialista e di opposizio­ne aperta alla definitiva distruzione del colonialismo. Così si intrecciano, nel mo­mento presente, due momenti in apparenza contraddittori dell'odierna situazio­ne internazionale: la disgregazione del campo imperialista, e la ricerca di una sua nuova unità sulla base di una aggressività nuova.

   Sulle cause degli avvenimenti di Ungheria che derivano dagli errati indirizzi politici seguiti nella costruzione di una società socialista, parleremo in seguito ampiamente, perché, come già abbiamo pubblicamente dichiarato, questi errati indirizzi sono secondo noi il fatto più importante per spiegarci ciò che in Unghe­ria è accaduto. Se non vi fossero stati quegli errati indirizzi politici, l'azione di­sgregatrice e provocatoria degli imperialisti difficilmente avrebbe potuto avere successo.

   Ma l'azione degli imperialisti rimane e deve assumere il più grande rilievo nel giudizio che dobbiamo dare su tutta la situazione. I fatti vi sono, e se per noi costituiscono sicure prove, credo dovrebbero per lo meno essere elemento di per­plessità e di cautela anche per i nostri avversari.

   È un fatto l'appello continuo alla rivolta lanciato al popolo ungherese per anni di seguito, con tutti i mezzi possibili, e con particolare intensità alla vigilia degli avvenimenti, e nel corso di essi trasformatosi nella concreta direttiva per atti in­surrezionali e di banditismo.

   È un fatto la presenza di gruppi armati e di un preciso piano insurrezionale, nelle prime ore della sommossa, quando non vi era ancora stato nessun interven­to di truppe straniere.

   È un fatto il successivo venire alla luce, nella assenza o decomposizione di qualsiasi forza dirigente popolare, di una direzione reazionaria, che fa appello all'inter­vento armato degli imperialisti mentre organizza il terrore bianco e prepara l'av­vento di un regime fascista.

   È un fatto che sono venute dall'America assai imprudenti dichiarazioni, del dirigente i servizi segreti americani e di un capo fascista, che tutto ciò che doveva accadere in Ungheria era da loro conosciuto da parecchio tempo.

   È un fatto che alla vigilia degli avvenimenti lo stanziamento nel bilancio ame­ricano per l'organizzazione del sovvertimento dei paesi socialisti venne aumenta­to di 20 milioni di dollari e ora sembra sia stato portato a 500 milioni.

   Persino qui in Italia, vi è chi è venuto a vantarsi pubblicamente di avere prepa­rato e diretto la partecipazione alla sommossa degli studenti ungheresi. E dove ha parlato questo signore? Ha parlato al recente congresso del Movimento sociale italiano, cioè del fascismo.

   Se si dimenticano i fatti di questa natura che via via vengono alla luce, e pur­troppo vi sono anche dei compagni socialisti che alle volte li dimenticano, non si può dare un giusto giudizio su tutta la situazione internazionale. Noi troviamo in questi fatti la conferma del nostro giudizio. Siamo in presenza di un momento di crisi generale di tutto il sistema dei rapporti internazionali, e di questa crisi fa parte l'attacco premeditato che tende a distruggere i grandi progressi politici, sociali e di pace che si sono sinora compiuti. Ci conferma in questo giudizio la stessa campagna antisovietica, anticomunista e antisocialista che oggi si è scate­nata. È stata preceduta e annunciata dallo scioglimento del partito comunista nella Germania occidentale, fatto di per sé già abbastanza significativo e contro il qua­le eleviamo ancora una volta la nostra protesta. Ha preso l'aspetto, in Francia, del banditismo fascista contro il partito francese, al quale ancora una volta espri­miamo la incrollabile solidarietà di tutti i lavoratori italiani. Ha stimolato e spin­ge ancora una volta in primo piano le volontà reazionarie e i gruppi reazionari più dichiarati. Ha già autorizzato il fascista Franco, che forse sta diventando l'i­deale dei cosiddetti «amici del popolo ungherese», a riprendere le criminali fu­cilazioni dei combattenti per la libertà. Nel nostro paese, dove la forza del nostro movimento e di quello socialista impone un certo freno, ha eccitato ancora una volta il proposito dei gruppi clericali di conquistare il monopolio assoluto della direzione politica, respingendo addietro le forze popolari e umiliando i loro stes­si alleati. L'assieme ci dà il quadro di una grande ondata reazionaria, cui si deve far fronte e che deve essere respinta da una nuova avanzata del movimento popolare.

   Non fa nessuna maraviglia che la socialdemocrazia del nostro paese e le corren­ti socialdemocratiche reazionarie di altri paesi europei siano tra gli animatori di questo proposito di riscossa reazionaria e di ritorno alla guerra fredda, tra gli ispi­ratori più attivi di tutto l'isterismo antisovietico e anticomunista. La socialdemo­crazia compie in questo modo un tentativo, disperato e grottesco, ma vano, spe­riamo noi, di coprire le proprie tragiche responsabilità. Chi, se non i socialdemo­cratici francesi sono gli autori diretti e consapevoli dell'aggressione al popolo egi­ziano? Chi, se non il governo socialdemocratico francese, è l'organizzatore del­l'indegno massacro dei patrioti algerini? Alla luce dei fatti recenti comprendia­mo meglio perché, alla vigilia della aggressione all'Egitto, un capo socialdemo­cratico francese venne a seminar confusione nel movimento operaio italiano. È partito dai socialdemocratici italiani, prima ancora che dagli altri partiti del cam­po governativo, l'appello alla «solidarietà» atlantica per il ritorno alla guerra fred­da, per la lotta contro il mondo socialista e contro la liberazione dei popoli colo­niali. La condotta dei socialdemocratici francesi è un tradimento di ogni princi­pio di solidarietà internazionale, di ogni ideale socialista. È un tradimento che sta al livello di quello compiuto dalla Seconda Internazionale allo scoppio della prima guerra mondiale. Peggio ancora, i socialdemocratici sono stati gli iniziato­ri di una guerra di aggressione e spingono, essi stessi, a nuove esasperazioni dei rapporti internazionali e a nuove avventure. Alla prova dei fatti risulta quanto sia profonda la degenerazione reazionaria a cui conduce una politica di gestione del potere nell'interesse della borghesia capitalistica, quale è quella che oggi vie­ne predicata e attuata dall'attuale direzione del Partito socialista francese. Espri­miamo la speranza che nessuna parte, né grande né piccola, del movimento ope­raio italiano si lasci abbacinare al punto da essere trascinata nella direzione di una politica simile.

   Ma se noi vediamo la gravità di tutto ciò che oggi sta accadendo nel mondo, non abbiamo però dimenticato quanto sono ingenti le forze di pace e come la struttura stessa del mondo sia oggi tale per cui la guerra può essere evitata. Lo stesso corso degli ultimi avvenimenti conferma la validità di questa nostra posi­zione. Gli imperialisti non hanno cambiato la loro natura, vogliono regolare con la guerra le questioni che stanno loro a cuore, non indietreggiano neanche da­vanti alla reale minaccia di un nuovo conflitto mondiale; essi però non sono più in grado di fare tutto quello che vogliono. Lo scatenamento della sommossa un­gherese fece loro sperare che fosse libera la via per attuare i loro propositi crimi­nosi, che fosse paralizzato il più potente dei difensori della pace, l'Unione Sovie­tica, e completamente disorientata l'opinione pubblica. Solo in piccola parte si è attuata questa loro speranza. Il severo ammonimento sovietico agli aggressori è intervenuto nel momento giusto. L'opinione di Stati e popoli interi, sdegnati per l'attacco proditorio all'Egitto, è riuscita ad imporsi. Il voto stesso dato in quei giorni dai cittadini degli Stati Uniti è stato un voto a favore di chi veniva giudica­to, a ragione o a torto, come l'uomo della distensione e della pace2. Il secondo intervento sovietico, escludendo ogni possibilità anche di un passeggero soprav­vento in Ungheria dei provocatori di guerra e dei fascisti, per quanto sia stato una dura necessità, ha però influenzato in modo decisivo anche l'azione degli aggressori nel Medio Oriente. È risultato che anche in momenti di grande confu­sione e incertezza, e ad arte provocati, si può fermare una aggressione, si può imporre il rispetto di una legge internazionale, si può evitare il peggio e salvare la pace. Per questo è necessario, però, che le forze di pace siano attive e unite e che il mondo socialista, che della pace è il difensore naturale, primo e più po­tente, mantenga la sua compattezza interiore, il suo prestigio e la sua forza.

   Da questa costatazione deriviamo alcuni tra i nostri compiti, e tra i principali.

   Non consideriamo perduta la causa della distensione internazionale. Al con­trario. I fatti recenti possono anzi avere come una delle loro conseguenze di scuo­tere la opinione pubblica, che è già impressionata dal pericolo che ha corso la pace di tutti, e più ancora sarà spinta alla riflessione quando si faranno palesi le conseguenze materiali della brigantesca spedizione contro l'Egitto. Il conflitto del Medio Oriente non è ancora del tutto spento. La minaccia di nuove avventure di guerra, in altre zone di questa parte del mondo, è ancora viva e ad essa si colle­ga la minaccia, tuttora presente, di un conflitto generale. La pace non è sicura, e, se si venisse a un conflitto generale, è persino cosa macabra mettersi a discutere se più o meno generali sarebbero gli effetti di distruzione della civiltà e sterminio degli uomini. Si tratta di una discussione circa la maggiore o minore estensione di quello che sarebbe, dopo la guerra, un cimitero. È vero che questa stessa pro­spettiva può servire, in certo qual modo, da freno, ma la macchina della guerra, una volta messa in moto, va avanti da sé. La pace deve essere salvata e messa al sicuro con azioni positive e misure che la garantiscono. Non bastano le convulse trattative con gli aggressori, in presenza dei campi di battaglia. Sono necessari atti politici nuovi, solenni, di grande e nuovo impegno per tutti, che segnino la ripresa e una nuova avanzata del processo di distensione.

   Tale noi pensiamo dovrebbe essere un sollecito incontro dei capi delle più grandi potenze. Il fine da raggiungere è di regolare alcune questioni di importanza de­cisiva per le sorti di tutta la umanità, come il divieto delle armi atomiche e la riduzione generale degli armamenti, e di grande importanza per le sorti dell'Eu­ropa, come la unificazione della Germania. Le proposte avanzate ancora una vol­ta dall'Unione Sovietica offrono più che una base. Anche prima di giungere a questi più grandi risultati, vi è però un obiettivo immediato, che è di liquidare la tensione estrema di oggi, di creare di nuovo una atmosfera di comprensione e di possibile intesa. I capi socialdemocratici propongono il contrario; il contrario propongono i clericali. Essi vogliono il ritorno alla guerra fredda e anche ad una esasperazione di essa, sperando, come nel passato, che ne possa uscire non solo l'isolamento, ma il crollo del mondo socialista. L'esperienza non è loro servita a niente. Non si sono accorti che la prima tornata della guerra fredda è stata vinta dal mondo socialista, il quale vincerebbe certamente anche le successive. Ma noi respingiamo la prospettiva stessa di un ritorno alle durezze, alle assurdità, alle fatali minacce degli anni passati. Da questo ritorno non può venire altro che il danno per tutta l'umanità, e per il nostro paese prima di tutto.

   Condanniamo dunque il richiamo alla «solidarietà atlantica» che oggi viene lanciato. Ci siamo sentiti vicini, nelle ultime settimane, ad alcune posizioni dife­se dal governo americano nell'interesse della pace, sappiamo che il popolo ame­ricano desidera una politica di pace e ci auguriamo che i suoi governanti accon­tentino questo desiderio. Consideriamo però dannoso ai popoli d'Europa e in particolare al popolo italiano il fatto che tutto l'Occidente, in conseguenza della violenta crisi attuale, caschi sotto l'incontrastato e duro predominio della poten­za, della finanza, della economia e della politica americana. Respingiamo la soli­darietà atlantica in quanto formula del ritorno alla guerra fredda e della adesione italiana a qualsiasi azione diretta a contrastare il processo di liberazione dei po­poli coloniali, a impedire il crollo definitivo del colonialismo. La solidarietà dei popoli e degli stati deve trovare una espressione nuova nella distensione, nella liquidazione di tutti i contrapposti blocchi militari, nella smobilitazione di tutte le basi di guerra straniere, nel ritiro di tutte le truppe straniere da tutti i luoghi dove esse oggi si trovino. A chi ci parla di europeismo e di missione dell'Occi­dente, rispondiamo che siamo europeisti anche noi e disposti a partecipare a qual­siasi iniziativa che valga a creare nuovi rapporti tra popoli e stati di tutta l'Euro­pa, nell'interesse della pace. Alle attuali organizzazioni europeistiche chiediamo di prendere parte, per potere anche in esse sviluppare e difendere la nostra politi­ca di pace, e come rappresentanti di una parte così importante del popolo italiano.

   È oggi del resto diventato palese che i più sfrenati predicatori della «solidarie­tà occidentale», in realtà avrebbero voluto che l'Italia si mettesse alla coda degli aggressori anglofrancesi, e persino partecipasse all'aggressione. La guerra per il colonialismo altrui, questo essi volevano! Ma sono stati lasciati soli con la loro demenza.

   Noi vediamo oggi aprirsi prospettive nuove e grandi a una politica di pace ita­liana, anche se non se ne accorgono i nostri governanti attuali, incapaci di libe­rarsi dalle incrostazioni mentali e politiche della guerra fredda. Il passato periodo di guerra fredda si è chiuso con tali trasformazioni della situazione mondiale, che un paese il quale abbia interesse soltanto a una politica di pace, e voglia far­la, non corre più nessun pericolo di trovarsi isolato, o alla mercé di un blocco ostile. Il mondo è diventato policentrico. Nello stesso campo delle potenze im­perialistiche vi sono differenze che possono offrire punti di appiglio a una politi­ca nazionale di pace. Le nostre possibilità economiche di commercio in tutte le direzioni sono più grandi di prima, anche in relazione ai progressi tecnici com­piuti. Non ha più nessun senso il subire le imposizioni straniere, come il divieto di riconoscere la Repubblica popolare cinese, o i limiti artificiali ai nostri scambi internazionali. Si affaccia alla storia, accanto al mondo socialista, il nuovo gran­de mondo dei popoli fino a ieri asserviti al colonialismo. Noi non abbiamo e nemmeno possiamo più avere velleità alcuna di colonialismo. In questo mondo pos­siamo trovare i migliori amici e le più ampie possibilità di libera collaborazione economica, tecnica, culturale. Vorrà il popolo italiano rinunciare a questa occa­sione? Vorremo ribadire le catene dell'asservimento a quei paesi imperialistici, per cui noi diventiamo una «base», in sostituzione di quelle perdute in Africa, e che in fondo ci disprezzano e ostacolano il nostro sviluppo come potenza nuova e grande, come potenza di pace?

   L'Italia è in grado di dare un contributo grande, decisivo, alla distensione in­ternazionale e alla pace. Ma non lo daranno gli attuali governanti, non lo daran­no i clericali, non lo daranno i fanatici della «solidarietà» occidentale e atlanti­ca. Lo dimostrano le recenti dichiarazioni e iniziative del nostro ministro degli esteri, dopo tanto tentennare accodatosi agli istigatori della guerra fredda e persi­no preoccupato di toglier loro l'iniziativa, di essere più americano degli america­ni, più oltranzista degli oltranzisti. Il contributo alla pace lo deve dare il popolo italiano, come già ha saputo fare nel passato, e fare abbastanza bene. Dal popolo dobbiamo far uscire la richiesta imperiosa di una politica coerente, che non si trascini alla coda degli avvenimenti, che abbia un volto di pace e risponda a una volontà di pace chiara. Dal popolo deve venire una spinta che obblighi i gover­nanti a seguire una tale politica. Ottenerlo è compito nostro, come avanguardia della classe operaia e del popolo stesso. Perciò continueremo a partecipare al mo­vimento dei partigiani della pace e a svilupparlo. Siamo contrari a ogni tendenza a svalutare questo movimento, a frenarlo o impedirlo proprio nel momento in cui ha compiti più urgenti e più evidenti.

   La causa della distensione e della pace è nelle mani non solo dei governi, ma dei popoli. E nel popolo, per poter salvare la pace, impedire il ritorno alla guerra fredda e fare ritorno invece alla distensione, noi dobbiamo conquistare un segui­to sempre più grande. Guida della lotta per la salvezza della pace deve essere in tutto il mondo la classe operaia, e tra gli operai devono essere i comunisti. Il rafforzamento del nostro movimento è compito essenziale, se vogliamo che la pace sia salva.


2. Problemi del movimento operaio internazionale


Nel movimento operaio e socialista del mondo intiero, e soprattutto per noi comunisti, che di questo movimento siamo la consapevole avanguardia, il fatto più importante è stato, nell'ultimo periodo il xx Congresso del Partito comuni­sta dell'Unione Sovietica, per la svolta rinnovatrice che esso ha annunciato, giu­stificato, determinato. Due sono state le grandi colonne di tutte le decisioni di questo congresso. La prima, la costatazione della esistenza di un sistema di Stati socialisti, cui si accompagna il progressivo crollo del colonialismo. La seconda, la denuncia degli errati indirizzi politici seguiti sotto la direzione di Stalin, che portarono, secondo la stessa descrizione data dai compagni sovietici, a «brutali violazioni dei principi leninisti di direzione, a violazioni brutali della legalità so­cialista», con conseguenze giunte sino ad atti delittuosi. Dalla costatazione sono state derivate conseguenze importanti, circa la strategia e la tattica del movimen­to comunista: l'affermazione della possibilità di evitare la guerra in conseguenza delle modificazioni stesse della struttura del mondo, il riconoscimento della pos­sibilità di una avanzata verso il socialismo che escluda la violenza insurrezionale e si compia nell'ambito della legalità democratica, utilizzando anche gli istituti parlamentari. Dalla denuncia non poteva non derivare, e fu derivata, la necessità di profonde correzioni e di nuovi indirizzi.

   Una osservazione, però, deve essere fatta ed è che non si è con la necessaria evidenza messo in rilievo subito lo stretto legame esistente tra le nuove posizioni di principio e politiche affermate con tanta chiarezza, e la critica e denuncia de­gli errati indirizzi seguiti da Stalin, nell'ampio periodo di tempo dal congresso stesso indicato. È quindi rimasto in ombra un punto di grandissima importanza, sia teorica che pratica. Quegli errati indirizzi politici, che il congresso denuncia­va, non soltanto non erano mai stati compatibili coi nostri programmi, non sol­tanto avevano arrecato danno alla costruzione della società socialista, ma un dan­no ancora più grande potevano arrecare e arrecavano nel momento in cui si è pas­sati, dalla costruzione ed esistenza del socialismo in un paese solo, alla esistenza di un mondo socialista, costituito da un sistema di stati.

   Questo difetto è forse da far risalire al fatto che l'infiammata denuncia di erro­ri così gravi da giungere sino al delitto, non fu accompagnata subito dalla appro­fondita ricerca e dalla indicazione critica delle loro origini e condizioni. Si rima­neva nell'ambito della drammatica segnalazione postuma della aberrante natura e delle colpe di un dirigente, anziché ricercare quali erano le deformazioni pro­dottesi e da correggersi nell'ordinamento politico da lui diretto, quali le cause per cui si erano potute produrre e quale, di conseguenza, il modo di farle defini­tivamente scomparire. Questo difetto ha in una certa misura reso più difficile la lotta contro la campagna dei nemici di ogni genere, interessati e impegnatisi subito a fondo a sostenere che tutto il sistema sovietico e lo stesso sistema sociali­sta sono da considerarsi responsabili dei fatti denunciati e quindi da condannarsi in linea di principio. Più serio però ci sembra il fatto che da questo difetto derivò l'assenza di una valutazione immediata e completa di tutte le conseguenze che dalle denunce del XX Congresso dovevano essere ricavate, e quindi delle corre­zioni e modificazioni, di cui alcune assai profonde, che dovevano farsi in tutti i paesi dove i comunisti sono alla testa dello Stato e della società.

   Le cose non sono andate dappertutto in egual modo. Nell'Unione Sovietica la denuncia era stata giustamente preceduta da importantissime correzioni, già costituenti la sostanza di una svolta. Erano stati posti in modo nuovo i problemi dello sviluppo industriale, dell'agricoltura, della direzione politica del partito. Erano stati energicamente e senza alcuno scrupolo modificati la direzione e l'atti­vità degli organi di sicurezza. Si erano attuate correzioni notevoli nel campo del­la cultura e della scienza. Nella Cina il Partito comunista non poteva essere sor­preso, perché sempre aveva avuto una condotta propria, originale, adeguata alle condizioni di quel grande paese, nel quale la costruzione di una società socialista si compie in forme nuove e la vita stessa del partito ha una sua impronta partico­lare, che deriva dalla lunga ed eroica lotta che ha strettamente collegato il partito con tutti gli strati della popolazione lavoratrice e fa dei comunisti cinesi la espres­sione più alta della coscienza nazionale e sociale di tutto il popolo della Cina. La sorpresa invece vi è certamente stata per lo meno in alcuni paesi di democrazia popolare ed è probabilmente stata profonda. Questo contribuisce a spiegare il perseverare in situazioni che rapidamente avrebbero dovuto essere affrontate con coraggio e modificate, contribuisce a spiegare lo smarrimento seguitone, gli sban­damenti, la perdita del controllo degli avvenimenti e l'inserirsi in tutto questo della azione perfida e violenta dei nemici di classe, come drammaticamente è avvenuto in Ungheria. Consideriamo molto importante che nell'Unione Sovieti­ca sia stato scritto che il dovere dei compagni sovietici era non soltanto di non opporsi agli indispensabili mutamenti di indirizzo politico e personali che si im­ponevano, ma era di intervenire in modo attivo, con critiche e consigli, perché le resistenze venissero superate e i mutamenti avessero luogo. Questo infatti, e non altro, era nella logica delle decisioni del xx Congresso.

   Il ritardo verificatosi ha aperto la strada a conseguenze assai gravi. Nei paesi di democrazia popolare dell'Europa orientale i nuovi regimi sorsero in conseguenza della guerra, per il crollo degli ordinamenti reazionari preesistenti e perché la presenza delle truppe sovietiche impedì che si ritornasse indietro, che avvenisse una restaurazione capitalistica di contenuto reazionario. Così i partiti della classe operaia poterono, con l'appoggio del popolo, mettersi alla testa di un ampio mo­to di trasformazione rivoluzionaria delle basi economiche e della struttura politi­ca della società. Fu cambiato il volto di questa parte dell'Europa, che nei venti­cinque anni precedenti era stata un vespaio di agenzie imperialistiche, di provo­catori di guerra e di fascisti. Furono risolti problemi che da secoli attendevano invano soluzione, come la distruzione della grande proprietà feudale; furono ra­pidamente create le basi per la costruzione del socialismo. Esperienze nuove di larghe collaborazioni sociali e politiche vennero compiute. Quando, superata be­ne la prima tappa, di carattere democratico borghese, si iniziava il passaggio alla tappa delle trasformazioni più marcatamente socialiste, fu scatenata la guerra fredda e la situazione fu resa ancora più difficile dalla rottura con la Jugoslavia. I compi­ti della difesa esteriore e della vigilanza interna presero il sopravvento e vi fu, s'intende non dappertutto e non in ugual modo in tutti i paesi, una certa chiusu­ra in se stessi. Fu in quel momento, probabilmente, che incominciò ad avere il sopravvento la imitazione servile del modello sovietico nella soluzione dei pro­blemi legati alla costruzione socialista e alla difesa del nuovo potere. Era il solo modello che si presentasse, d'altra parte; e l'Unione Sovietica era il solo paese che alle nuove democrazie offrisse aiuto e appoggio, mentre dall'Occidente veni­vano soltanto l'appello alla distruzione dei nuovi regimi e il sostegno a tutte le forze reazionarie che si muovessero con questo scopo, a qualsiasi mezzo esse fa­cessero ricorso.

   La trasposizione meccanica ai nuovi paesi socialisti dei risultati della grande esperienza sovietica, errata in linea di principio, doveva rivelarsi dannosa nella pratica. Alcune posizioni di principio che hanno guidato alla vittoriosa soluzione del grave problema storico del passaggio al socialismo in un paese solo, l'Unione Sovietica, non potevano e non possono avere un valore universale, né essere co­piate meccanicamente. Penso, per esempio, alla obbligatoria rapida organizza­zione di una industria pesante a costo di qualsiasi sacrificio, alla necessità di svi­luppo di tutte le fondamentali branche dell'industria, alla estensione nel corso di pochi anni della conduzione collettiva a tutta la massa della popolazione agri­cola. La traduzione meccanica di questi esempi sovietici in paesi dove le condi­zioni erano assai diverse doveva creare difficoltà superflue, asprezze e squilibri pesanti, rendere più stentata l'accumulazione, più lenta la elevazione del livello di esistenza, e alla fine far ricadere troppo gravi pesi sulle masse operaie e conta­dine. La tendenza a mascherare le difficoltà con ingiustificate misure repressive, giunte sino alla violazione della legalità, aggravava la situazione. Si aggiunga che nei paesi di nuova democrazia non esisteva una avanguardia operaia che fosse paragonabile, per la compattezza, la forza morale, la capacità di lavoro e l'ampiez­za dei collegamenti con le masse, con il partito dei bolscevichi russi. Mancavano anche, per sostenere i nuovi regimi, forme radicate di organizzata democrazia diretta, che integrassero l'attività delle assemblee parlamentari, mentre i sinda­cati non si investivano più in pieno della loro funzione di regolatori dello svilup­po economico attraverso la difesa delle rivendicazioni immediate dei lavoratori. Le basi democratiche tanto della vita economica quanto di quella politica veniva­no dunque ristrette.

   In questo modo veniva dimenticata quella che è per noi una posizione di prin­cipio, la necessità che l'avanzata verso il socialismo si compia e venga dalla classe operaia guidata in modo diverso a seconda delle condizioni e particolarità econo­miche, politiche, nazionali e culturali di ciascun paese. Già nel 1902, discutendo del programma del partito operaio socialdemocratico russo, Lenin affermava che «il programma russo non può essere... identico a quello degli altri paesi euro­pei» (Op. IV, 6, 41). Questo concetto fu in seguito sempre confermato e svilup­pato sino, si può dire, a quel discorso del 1921 sulla questione italiana, in cui lo stesso Lenin diceva: «Noi non abbiamo mai preteso che Serrati copiasse in Ita­lia la rivoluzione russa. Sarebbe sciocco pretenderlo. Siamo abbastanza intelli­genti e flessibili per evitare una sciocchezza simile» (Lenin, L'Internazionale co­munista, p. 320). Né si tratta solo del rispetto delle tradizioni e dei sentimenti nazionali, a proposito di che durante gli ultimi fatti ungheresi abbiamo appreso cose che ci hanno riempiti di stupore, come la soppressione da parte dei compa­gni ungheresi della festa celebrativa della rivoluzione del 1848, che sarebbe come se noi, comunisti italiani, ci rifiutassimo di celebrare le Cinque giornate di Mila­no. Si tratta soprattutto di seguire una linea politica tale che consenta di unire le forze operaie, di raccogliere attorno ad esse il blocco più ampio e più solido di alleanze di classe e politiche di ceti urbani e rurali, e quindi progressivamente isolare e rendere innocui i gruppi reazionari, privandoli con una ampia azione politica, e non solo con misure di sicurezza, della possibilità di un appoggio qual­siasi. Siffatta linea politica non può venire elaborata e non può applicarsi se non tenendo conto di tutte le particolarità della vita nazionale.

   Chiuso il periodo più acuto della guerra fredda, la stessa costatazione, fatta al XX Congresso, della esistenza di un sistema di Stati socialisti, doveva portare a riconsiderare secondo questo angolo visuale e tenendo conto di tutte le altre critiche e denunce fatte al congresso la situazione dei paesi di nuova democrazia. Un sistema di Stati socialisti, che abbia alla sua base il riconoscimento di princi­pio delle diverse vie di sviluppo verso il socialismo, deve essere un sistema di Stati indipendenti, in cui la sovranità dei paesi più piccoli non può essere limitata e messa in forse da interventi e pressioni degli Stati più forti. La dichiarazione so­vietica del 30 ottobre ha ben messo in luce questo principio, e anche maggiore importanza avrebbe avuto se fosse stata fatta prima, subito dopo il XX Congresso. Essa sarebbe allora anche servita di stimolo, ai singoli paesi e ai par­titi che li dirigono, ad affrontare con coraggio e attuare quel mutamento di indi­rizzi che in alcuni di questi paesi, soprattutto, si imponeva come una urgente necessità vitale.

   Che cosa è avvenuto, invece? È avvenuto - e qui mi riferisco in particolare all'Ungheria - che le decisioni e i documenti più significativi del XX Congresso furono portati a conoscenza dei partiti e dell'opinione pubblica, ma mentre stimolavano il popolo a pensare non stimolavano i gruppi dirigenti ad agire, e ad agire con energia, in modo che tutti vedessero che la necessaria svolta si compiva sotto la ferma direzione del partito. Così incominciò quel processo che doveva portare a una situazione acuta in Polonia e a un crollo in Ungheria. Chiusura ideologica, imprevidenza e testarda resistenza dall'alto, mentre dal basso si sca­tenava non più una critica, ma una vera campagna pubblica di denigrazione con­tro i dirigenti del partito, il partito stesso e il regime intiero. Questa campagna, a cui dal partito non si opponeva una difesa seria e argomentata, ma si oppone­vano soltanto altezzosi e schematici giudizi sommari, era causa a sua volta di ul­teriore disfacimento. L'agitazione del famoso Circolo Petoefi diventava, in que­ste condizioni, la premessa della controrivoluzione, perché nel vuoto che si veni­va aprendo doveva inevitabilmente inserirsi l'azione del nemico di classe e di ogni sorta di avversari, puntando apertamente sulla possibilità di travolgere il nuovo regime attraverso un movimento insurrezionale armato. I regimi di democrazia popolare non esistono da tanto tempo quanto il regime sovietico. Le vecchie clas­si dirigenti reazionarie vi conservano, soprattutto in alcuni paesi, una forza e basi di organizzazione; hanno l'incondizionato appoggio dell'imperialismo occiden­tale e un appoggio nella forma del continuo appello alla rivolta e del concreto contributo alla organizzazione di essa.

   Nel giudicare i fatti di recente accaduti noi poniamo quindi l'accento, prima di tutto, sugli errati indirizzi politici, troppo a lungo seguiti e non corretti a tem­po, e sull'aberrante metodo della loro denuncia fuori del partito, distruggendo la unità e la forza del partito stesso. Gravissimo errore sarebbe però il limitarsi a questo, escludendo senz'altro l'intervento e la presenza del nemico, ritenendo quasi giustificato il ricorso alla violenza contro i regimi di democrazia popolare, o anche solo l'assurdo appello alle masse contro il partito che le deve dirigere, dimenticando che il nemico non sono soltanto i dollari degli imperialisti ameri­cani, pure abbastanza di per sé già efficaci, ma sono anche le sopravvivenze nella coscienza degli uomini di falsi orientamenti ideali e pratici, perché la coscienza degli uomini si trasforma più lentamente di quanto non sia possibile trasformare le strutture economiche e politiche.

   Con questo concorso di diversi elementi spieghiamo la gravità dei fatti unghe­resi, risoltisi di fatto nel crollo di un regime che avrebbe potuto e dovuto avere infrangibili legami con le masse lavoratrici, nel disfacimento di un partito comu­nista e quindi in una notevole partecipazione di popolo, nella più grande confu­sione, a un sommovimento in cui sin dai primi momenti si inseriva, per cercare di dominarlo, il nemico aperto di classe. Così si è giunti a quella situazione che ha reso inevitabile, come una dura necessità, l'intervento sovietico per sbarrare la strada a ciò che sarebbe stato peggio di tutto, al fascismo e alla guerra, cioè per adempiere non soltanto un dovere di classe, ma un dovere verso tutte le forze della democrazia e della pace.

   Non ci siamo stupiti e non ci stupiamo che di fronte a fatti così gravi, che pon­gono complicate questioni politiche e per chi non riesca a orientarsi subito solle­vano anche problemi di coscienza, vi siano state tra i lavoratori incertezze, esita­zioni e abbiano potuto essere formulati giudizi sbagliati. Queste cose si debbono superare e si superano facendo opera di persuasione e concentrando il fuoco con­tro il nemico che specula per tirare acqua al suo mulino, contro le forze della reazione che spera invano aver trovato la strada che le consenta di rialzare il capo.

   Stiamo senza dubbio attraversando un momento difficile del nostro movimen­to. Non ce lo nascondiamo, e non ce lo nascondiamo appunto per riuscire tanto a comprendere bene di che si tratta, quanto a fare bene ciò che è necessario fare. Momenti critici ha attraversato il movimento operaio, in paesi singoli e interna­zionali, tutte le volte che sono state necessarie, o la correzione di indirizzi errati che precedentemente avessero gettato radici profonde, o l'adozione di nuovi in­dirizzi politici e di azione, dettati da modificazioni intervenute nella situazione oggettiva. Entrambi questi motivi sono oggi presenti, e il nostro movimento se ne rende conto. Le critiche e denunce del XX Congresso, qualora siano giusta­mente valutate, creano le condizioni di un nuovo sviluppo e di uno sviluppo mol­teplice, in forme diverse e originali, su uno spazio sterminato. Il mondo sociali­sta si rafforza rinnovandosi, articolandosi nel proprio interno in modo nuovo, spez­zando schemi e incrostazioni che ne frenavano lo slancio, organizzando legami più solidi con le masse lavoratrici, liquidando le illegalità, le limitazioni assurde dei diritti democratici, accettando il dibattito e confronto aperto con ideologie diverse dalla nostra, liberando la scienza e l'arte da dannose pastoie. In modo nuovo si costruiscono le relazioni tra i singoli paesi socialisti, come già ho accen­nato. Mi sia consentito aggiungere - per quanto il tema sia lontano dalla nostra competenza diretta - che anche nel campo delle relazioni economiche tra questi paesi siamo probabilmente all'inizio di un periodo nuovo, in cui queste relazio­ni ci sembra dovrebbero svolgersi a un livello superiore. Ciò è imposto dallo stes­so abbandono della meccanica e servile imitazione delle realizzazioni sovietiche in questo campo. L'Unione Sovietica ha fornito sino ad ora un aiuto enorme per lo sviluppo dei paesi socialisti, per superare le loro difficoltà, per costruire fabbri­che, per impadronirsi delle conquiste più avanzate della tecnica, sino a quella delle installazioni atomiche più moderne. Se fosse possibile fare un calcolo di valore materiale di questo aiuto, si toccherebbero cifre sbalorditive. I popoli del­l'Unione Sovietica si sono conquistata, con questo impegno e con questo sacrifi­cio, la riconoscenza imperitura di tutto il movimento operaio. Ma giunge il mo­mento in cui anche il metodo degli aiuti è inadeguato a risolvere il vero proble­ma, che è quello della istaurazione di un sistema di cooperazione economica, che, senza ledere in nessun modo la indipendenza e sovranità dei singoli stati, con­senta, attraverso una sorta di divisione del lavoro internazionale, la riduzione dei costi, l'aumento della produttività e quindi un maggior benessere in ogni singo­lo paese. Questo è sempre stato l'obiettivo di cui parlavano gli iniziatori e i gran­di maestri del nostro movimento, quando gettavano lo sguardo verso il futuro.

   Le condizioni sono tali che oggettivamente richiedono e rendono possibile un nuovo slancio e progresso del movimento comunista. Il momento critico che at­traversiamo è dunque momento non di revisioni, non di ripensamenti sterili, ma di sviluppi creativi, che ci danno la sicurezza di immancabili nuovi successi.

   È naturale che la questione dei rapporti tra i partiti comunisti e operai si ponga essa pure, in questa situazione, con acutezza e in forme nuove. La Internazionale comunista ha compiuto una grande opera, per dare un orientamento rivoluzio­nario al movimento operaio, e educare più di una generazione dei suoi quadri. Vi fu spesso, nelle sue decisioni, la prevalenza di un certo settarismo, che isolava i comunisti dalle grandi masse lavoratrici. Il settarismo venne però liquidato con energia quando, di fronte alla minaccia del fascismo e della guerra, l'unità dei lavoratori e delle forze democratiche si presentò come la suprema delle necessità, il primo dei doveri. Anche nell'azione, breve e frammentaria, dell'Ufficio di in­formazione, vi fu una tendenza a certe chiusure settarie, come ha dimostrato la errata decisione che portò alla rottura con il movimento comunista jugoslavo. La indispensabile ricerca da parte di ciascun partito di una propria via di avanzata e lotta per il socialismo, nonché di una propria via di sviluppo interno, esige au­tonomia di ricerca e di giudizio nella applicazione alle situazioni nazionali dei principi del marxismo-leninismo che sono la nostra guida. Questi stessi principi non sono un dogma. Ci forniscono un metodo, seguendo il quale noi siamo in grado di intendere la realtà, di adeguare ad essa la nostra azione, e attraverso l'azione sviluppare gli stessi principi e scoprire nuove leggi regolatrici della crea­zione di un mondo socialista, nuovi orientamenti e indirizzi di un movimento comunista diventato oggi una forza mondiale e di un movimento di masse, diretto dai comunisti non mai esistito prima di oggi. Tener fede ai principi e da essi dedurre tutto ciò che è necessario per il nostro rinnovamento, questo è il com­pito che oggi sta davanti a tutti noi.

   È un compito difficile, e per bene assolverlo è necessario l'aiuto reciproco di tutti i settori del nostro movimento, di tutti i nostri partiti. Non essendovi più una organizzazione unica e quindi un centro unico di direzione, si era pensato a un sistema di gruppi e centri molteplici, ma anche questa forma di organizza­zione è apparsa non compatibile con la piena autonomia di ogni partito e tale da addossare all'uno o all'altro di essi eccessive responsabilità. Il sistema dei rap­porti bilaterali soddisfa le esigenze di autonomia. Esso però deve essere seriamente attuato, e con particolare animo, rendendosi conto della particolare situazione odierna. I rapporti bilaterali devono quindi comprendere, prima di tutto, la co­noscenza reciproca e il reciproco rispetto, e devono ammettere, anzi, devono sol­lecitare le critiche amichevoli, che pongono i problemi e spingono all'approfon­dimento di essi. Ciò che non è ammissibile, da qualunque parte possa venire, sarebbe un ritorno ai sistemi che abbiamo criticato e superato, l'intervento nelle questioni interne di altri partiti, la trasformazione della critica in attacco che get­ti discredito e confusione, la sfiducia preconcetta, l'appoggio aperto o larvato a una lotta di frazione, lo stimolo alla rottura della unità di altri partiti o di tutto il nostro movimento.

   Sulla base di questi principi abbiamo regolato i nostri rapporti con la Lega dei comunisti jugoslavi. Consideriamo positivo questo fatto e per noi istruttivi i pri­mi risultati del nostro studio della esperienza della costruzione socialista in Jugo­slavia. Svilupperemo questi amichevoli rapporti. Non si deve però ricadere in er­rori che violerebbero i principi sopra indicati. Consideriamo pericoloso, non vero e non giusto il tentativo di spezzare in due il movimento comunista, come se esistesse una parte per principio contraria alle decisioni del xx Congresso e alle conseguenze che se ne debbono ricavare. Esistono invece modi diversi, in diversi paesi, di attuare le necessarie correzioni. Nelle stesse democrazie popolari, sba­glierebbe molto chi considerasse comune a tutti la situazione che si rivelò in Un­gheria, chi chiudesse gli occhi davanti ai progressi già compiuti e ai nuovi succes­si ottenuti, come la recente legislazione ceca sulle assicurazioni sociali. Il rinno­vamento deve esserci. Fatti come quelli di Ungheria non debbono a nessun costo ripetersi. Ma rinnovamento non vuol dire rottura, e perché non si ripetano fatti gravi, sono essenziali l'unità e la compattezza dei partiti operai e una loro giusta attività che stringa in modo inscindibile i loro legami con le masse.

   Sentiamo tutti il bisogno che attraverso avvicinamenti e contatti fra le diffe­renti parti del nostro grande movimento internazionale la conoscenza reciproca delle questioni alla cui soluzione lavoriamo nei differenti paesi, talora con meto­di diversi, si faccia più precisa e più profonda. Siamo contrari al ritorno a una forma qualsiasi di organizzazione centralizzata. Non escludiamo invece, anzi au­guriamo perché riteniamo sarebbe cosa assai utile per tutti, per l'esame di pro­blemi di particolare importanza, per il confronto tra le diverse strade che vengo­no seguite per risolverli in situazioni diverse, l'organizzazione di incontri inter­nazionali di rappresentanti di parecchi partiti, non allo scopo di elaborare deci­sioni impegnative per tutti, ma di chiarire a tutti le posizioni reciproche e per questa via accrescere l'unità del movimento. Anche rappresentanti di organizza­zioni non comuniste, ma socialdemo­cra­tiche e democratiche di vario tipo, e che rifiutino di prendere parte, agli ordini della reazione, alla crociata anticomuni­sta, potrebbero prendere parte a simili incontri, e questo sarebbe un passo, an­che se piccolo, per superare la scissione attuale del movimento operaio interna­zionale, o per lo meno creare le condizioni in cui nell'avvenire possa venire superata.

   Il movimento operaio ha un dovere fondamentale, quello dell'internazionali­smo, e l'internazionalismo deve esprimersi con una solidarietà politica effettiva, non solo tra i partiti che tuttora combattono per giungere al potere, ma anche con quei partiti che già sono al potere e dirigono uno stato. Se non vi è solidarie­tà internazionale proletaria, non vi può essere giusto orientamento né nella poli­tica estera, né nella politica interna. Né questo vuol dire che noi siamo, di fronte al sentimento nazionale e ai doveri nazionali, cioè ai problemi della indipenden­za e libertà della nazione e alle sue tradizioni, dei nichilisti. Sorto in un paese dove questo nichilismo nazionale tendeva a prevalere in alcuni strati di lavorato­ri, per le stesse condizioni di miseria e abbandono in cui erano costretti a vivere, abbiamo saputo felicemente superarlo. Abbiamo guidato la classe operaia italia­na a porsi alla testa della lotta di liberazione nazionale, a far propria la bandiera della indipendenza, mentre le classi dirigenti si asservivano allo straniero. Dalla nostra coscienza internazionale di classe non deriva nessun sentimento, nessun dovere, nessuna posizione che possa essere contraria agli interessi della nazione. Anzi, è nella lotta per un rinnovamento socialista che la nazione trova le condi­zioni per una superiore affermazione della sua libertà e sovranità, per progredire e meglio affermare le sue qualità originali. Il socialismo non può mai essere im­portato dall'esterno; è una trasformazione sociale che deve sgorgare dal lavoro e dalle lotte di tutto il popolo, alla luce sì di una esperienza internazionale, ma sotto la guida delle migliori tradizioni nazionali, e di una dottrina rivoluziona­ria, di una esperienza compiuta dal popolo stesso e il formarsi in esso di una nuo­va coscienza.

   Il movimento comunista deve avere, non solo nazionalmente, ma internazio­nalmente, una sua unità. Questa unità si può intenderla in due modi. Si può intenderla come risultato di una costrizione proveniente dall'esterno, di una tra­sposizione meccanica o imitazione servile di indirizzi altrui, e questo lo respin­giamo. Ma può essere unità che si crei nella diversità e originalità delle singole esperienze, si alimenti del reciproco spirito critico, si rafforzi nella autonomia dei singoli partiti. Di questa seconda unità abbiamo bisogno. Dobbiamo essere uniti perché abbiamo gli stessi principi e perseguiamo lo stesso scopo finale. La nostra unità è la prefigurazione della società internazionale per cui noi combattiamo, in cui tutti i popoli siano eguali, liberi e fratelli. Dobbiamo essere uniti perché solo nella nostra unità i proletari di tutto il mondo possono trovare la guida per comprendersi, avvicinarsi, collaborare al di sopra delle frontiere. Dobbiamo esse­re uniti perché sempre riescono ad unirsi per combatterci con tutte le armi i ne­mici della classe operaia. L'attacco brigantesco alla sede del Partito comunista fran­cese in Parigi ha fatto capire a tutti quali propositi sono sempre pronti a esplode­re dal seno delle attuali classi dirigenti. La gioia sfacciatamente espressa dai gaz­zettieri reazionari allo spettacolo dei comunisti impiccati e squartati per le vie di Budapest ci fa ben comprendere a che cosa pensano, di fatto, queste classi di­rigenti, quando osano parlare di «liberazione» dei paesi dove noi siamo oggi al governo. Il fascismo e il terrore bianco sono il loro unico ideale, nei nostri con­fronti. E non fanno tante distinzioni, tra di noi. Qualunque cosa diciamo o fac­ciamo, siamo sempre i «nemici del genere umano», i «servi di Mosca», gli in­fedeli. Lo siamo per il fascista, per il clericale e per il liberale, per l'iracondo Saragat, l'esuberante La Malfa e l'isterico Gedda. Non è per entrare nelle grazie di nessuno di costoro che operiamo per un nostro rinnovamento, per una unità meglio articolata di tutto il movimento comunista internazionale. Lo facciamo perché, superando qualsiasi chiusura settaria, questo è il modo migliore per raf­forzarci, per essere più strettamente uniti tra di noi e con le masse lavoratrici, per combattere e battere meglio tutti i nostri nemici.

   Si fa scandalo per il nostro attaccamento all'Unione Sovietica, per la parte che attribuiamo, nel mondo socialista e nel movimento comunista internazionale, a questo paese e al partito che lo dirige. Nessuno però mai è uscito, a questo pro­posito, dal terreno degli insulti e delle menzogne. Abbiamo detto, e nessuno ha nemmeno tentato affrontare seriamente la discussione, che il nostro attacca­mento all'Unione Sovietica deriva dal fatto che nei momenti decisivi della storia, dopo la prima guerra mondiale, negli anni della stabilizzazione temporanea del capitalismo, quando si scatenò l'attacco fascista e poi quando scoppiò la guerra e durante la guerra, dall'Unione Sovietica vennero le indicazioni e l'esempio di una azione che poneva e risolveva in modo giusto questioni che erano di vita o di morte per il movimento operaio e democratico. Nell'Unione Sovietica è stata spezzata per la prima volta la catena del capitalismo e per trentanove anni si è lavorato a costruire una società nuova. Questa società esiste, è il primo grande modello di organizzazione socialista, è una società che si sviluppa secondo leggi nuove, che non sono più quelle del profitto e dello sfruttamento, ma di un pro­gresso produttivo, tecnico e di cultura, che serve a elevare il benessere di tutti. Che cosa hanno da contrapporre a questa grandiosa creazione, che ha modificato il corso della storia, le socialdemocrazie reazionarie? L'azione loro è partita dal tradimento del 1914, è passata attraverso il soffocamento nel sangue della rivolu­zione spartachista del 1919, si vanta di avere amministrato la società nell'interes­se del capitalismo e per impedirne il crollo, è culminata oggi, nell'ultima pro­dezza del governo socialdemocratico francese, nella criminale aggressione contro il popolo egiziano. Che cosa hanno da contrapporre gli integralisti cattolici e i clericali, se non l'attuazione di regimi nettamente reazionari e fascisti?

   È stata la Rivoluzione di ottobre che ha aperto a tutti la strada verso il sociali­smo. È stata la costruzione socialista sovietica che ha dato animo e slancio a tutto il movimento operaio. Sono state le vittorie dell'Unione Sovietica che hanno per­messo di schiacciare il fascismo, che hanno determinato il crollo del regime coloniale, la formazione di nuovi stati liberi nell'Asia e nell'Africa.

   Anche noi, Partito comunista italiano, siamo sorti e cresciuti alla luce della Ri­voluzione di ottobre. Non esitiamo un istante a dichiarare che abbiamo sempre lavorato per continuare l'opera di quella rivoluzione e tuttora riteniamo sia que­sto il compito nostro e il compito della classe operaia nel mondo intero.

   Dei trentanove anni che ci separano dalla Rivoluzione d'ottobre, diciotto sono stati per l'Unione Sovietica anni di guerra o dedicati alla riparazione urgente dei danni lasciati dalle guerre. Una parte ingente del paese era abitata da popoli sog­getti a un regime coloniale, che dovettero essere guidati a uscire da questa situa­zione con uno sforzo economico del tutto particolare e costosissimo. Grandissimi furono gli aiuti forniti agli altri stati, che dopo la seconda guerra mondiale si po­sero sulla via del socialismo. La costruzione di una industria socialista e il pro­gresso dell'agricoltura richiesero investimenti colossali, e questi dovettero essere ricavati tutti da una accumulazione interna, il cui peso ricadeva sulla classe ope­raia, prima di tutto. Il capitalismo stesso non aveva ancora raggiunto, al tempo della rivoluzione, uno sviluppo tale che creasse nell'industria e nelle campagne un'ampia base oggettiva per la costruzione dei rapporti di produzione socialisti. Tutto questo deve sempre essere tenuto presente, per apprezzare appieno il valo­re delle vittorie ottenute, comprendere i sacrifici che esse sono costate e quindi esprimere il giudizio sul sistema, che oggi vi è chi vorrebbe condannare e buttare a mare, e proprio perché a un certo momento del suo sviluppo ha dimostrato la capacità di scoprire con energia i propri difetti, di criticarli con coraggio e di accingersi a correggerli. Per questo noi non accettiamo l'uso del termine di «sta­linismo» e dei suoi derivati, perché porta alla conclusione, che è falsa, di un si­stema in sé sbagliato, anziché spingere alla ricerca dei mali inseritisi, per cause determinate, in un quadro di positiva costruzione economica e politica, di giusta attività nel campo dei rapporti internazionali e di conseguenti decisive vittorie. Errano coloro che ritengono quei mali fossero inevitabili. Ancora più gravemente coloro che su di essi cercano di fondare una vana critica distruttiva.

   Abbiamo discusso con i compagni sovietici, apertamente, del carattere di que­sti mali, da noi indicati come deformazioni di alcune parti della organizzazione della società socialista; abbiamo cercato di contribuire alla valutazione del loro peso e della origine loro. Manteniamo questa nostra opinione, e se vi è un dissen­so, a questo proposito, tra noi e i compagni sovietici, sia ben chiaro che questo dissenso non riguarda in nessun modo la necessità delle critiche e denunce fatte dal XX Congresso, che abbiamo approvato senza riserva alcuna e dalle quali in nessun modo si può tornare indietro. Il dibattito sulle cause degli indirizzi errati e dei gravi, dolorosi, inammissibili fatti denunciati dal XX Congresso continuerà certamente, perché interessa tutto il movimento operaio, e l'attacco forsennato del nemico, che su questo punto vorrebbe far leva, può essere respinto tanto più agevolmente quanto più la indagine e la risposta nostra siano serie, argomentate e non lascino senza considerazione nessuno degli aspetti della realtà. Io continuo a essere convinto che la ricerca deve particolarmente essere volta a mettere in luce i rapporti, i contrasti e la reciproca influenza tra gli sviluppi economici e le sovra­strutture politiche, di cui fa parte anche il modo della direzione politica più ele­vata. Quando la evoluzione della base economica era già arrivata a un punto che consentiva ed esigeva una estensione della vita democratica, questa non venne attuata, e si ebbero invece restrizioni e chiusure artificiali. Qui mi pare stia la chiave che spiega come in una società socialista, il cui carattere sostanzialmente democratico risulta anche solo dalla continua iniziativa, dall'attività e dalla crea­zione economica e politica delle masse popolari anche nelle condizioni più diffi­cili, la democrazia potè subire, nel partito e fuori di esso, le violazioni e limita­zioni che oggi si denunciano. Anche da questa prova il sistema è però uscito vit­torioso. I compagni sovietici hanno avuto il coraggio della denuncia, hanno il coraggio e la capacità della correzione.

   A noi spetta conoscere le cose e studiarle prima di giudicare. Spetta conoscere meglio anche l'Unione Sovietica oltre che i paesi di democrazia popolare e la grande Repubblica cinese e farli conoscere meglio da tutto il nostro movimento. Non nascondere le difficoltà e i problemi della edificazione socialista. Non tacere dei sacrifici che essa può costare. Questo ci permetterà di meglio respingere le false argomentazioni dell'avversario e del nemico, di apprezzare pienamente il valore di quanto nell'Unione Sovietica è stato realizzato e il merito storico che spetta al Partito comunista dell'Unione Sovietica e ai suoi dirigenti, che per primi, sen­za avere davanti a sé alcun esempio cui ispirarsi, affrontarono i problemi pratici del socialismo, che nessuno mai si era posti, e riuscirono a risolverli, guidando popoli intieri per vie che mai erano state battute.

   Il posto che l'Unione Sovietica e il partito che la dirige occupa nel mondo so­cialista, di cui è l'asse e la forza suprema, è una realtà determinatasi storicamente e che non si può distruggere. Non vi è né Stato guida, né partito guida. La guida sono i nostri principi, gli interessi della classe operaia e del popolo italiano, la difesa permanente della pace e dell'indipendenza della nazione, i doveri della solidarietà interna­zionale. Seguendo questa guida, noi batteremo una strada del tutto nostra, che l'esempio e le esperienze dell'opera da titani che è stata com­piuta e si compie nell'Unione Sovietica continueranno a illuminare.


3. Socialismo e riforme di struttura


Dobbiamo seguire, nella nostra marcia verso il socialismo, una via italiana. Que­sto tema è stato al centro della preparazione del Congresso, ed è al centro dei documenti che il Comitato centrale ha presentato alla vostra approvazione.

   Non sto a ripetere ciò che già molte volte è stato ampiamente ricordato, circa la preoccupazione che il nostro partito ha avuto sin dal momento in cui ha inco­minciato a liberarsi dal vecchio settarismo dogmatico e impotente, e che è diven­tata via via sempre più grande, di elaborare una linea politica aderente con esat­tezza alla situazione del nostro paese, alle condizioni della lotta di classe che in esso si svolge. Durante la guerra e dopo la liberazione, da questa preoccupazione è disceso un orientamento politico reale, caratteristico del nostro partito anche nei confronti con molti altri partiti comunisti. Di qui sono derivate le principali posizioni dalle quali ci siamo mossi e i principali tra gli atti da noi compiuti, la nostra politica di unità nazionale, l'originalità dei nostri rapporti con il Partito socialista in seno al movimento operaio, l'attenzione data agli aspetti positivi del movimento popolare cattolico, il decisivo nostro contributo alla elaborazione della Carta costituzionale, il voto famoso dell'art. 7, cioè l'approvazione del Concor­dato con la Chiesa cattolica e la liquidazione del vecchio anticlericalismo, l'aiuto alla elaborazione del «piano del lavoro» confederale, il contenuto e il carat­tere di gran parte delle lotte di masse cui abbiamo partecipato, nelle campagne e nelle città, e soprattutto nel Mezzogiorno e nelle isole, il rilievo dato alla neces­sità della emancipazione della donna e alla lotta per questa emancipazione, lo studio del problema delle nuove generazioni e dei loro compiti. La stessa lotta contro il pericolo della guerra e attorno alle questioni della politica internaziona­le è stata da noi condotta con uno sforzo continuo di darle quel contenuto nazio­nale, di difesa della indipendenza e affermazione del prestigio del nostro paese, che l'hanno resa coerente con tutto il nostro orientamento generale.

   Qualcuno ha voluto parlare, a proposito di questa molteplice nostra azione po­litica, di tatticismo, cioè di semplice astuzia. Ha dimostrato di non capire la so­stanza delle cose di cui parlava, ed è necessario anche nell'interno del partito op­porsi con una argomentazione seria a coloro i quali ritengono che la ricerca di una via italiana sia un puro espediente, atto se mai a rendere più agevole la con­quista della maggioranza e quindi lo sviluppo di tutto il movimento. Si tratta di ben altro. Si tratta del modo stesso come il problema della rivoluzione sociali­sta si pone nella realtà. La necessità di distruggere l'ordinamento capitalistico e creare un ordinamento socialista, non esce né dalle decisioni, né dalla abilità o dalla forza di un partito politico. Non esce nemmeno dalla forza di un movimen­to sindacale di classe. Esce dallo sviluppo e dai contrasti delle forze reali e delle forze soggettive di cui è tessuta l'odierna società. Sono questo sviluppo e questi contrasti che rendono il passaggio al socialismo storicamente necessario, tanto che si può dire che il socialismo oggettivamente matura nel seno stesso del capitali­smo. È quindi evidente che le condizioni e forme della maturazione non possono che essere diverse da un luogo all'altro e dall'uno all'altro momento della storia. È diversa non soltanto la consistenza, ma la struttura stessa del regime capitalisti­co. Le forze produttive hanno raggiunto, nei diversi paesi, diversi gradi della loro evoluzione e diversamente sono ordinati i rapporti di produzione, entro un qua­dro generale, che è nelle grandi linee uniforme tra i luoghi dove il capitalismo è fattore dominante. Non uniformi sono i rapporti tra la città e la campagna, che cambiano a seconda del modo come fu condotta la rivoluzione borghese; non uniformi il peso e la natura dei gruppi di piccoli e medi produttori indipendenti; non uniformi le tradizioni della cultura. Queste diversità contribuiscono a deter­minare la struttura degli stati, la natura dei gruppi dirigenti, le condizioni e le forme delle lotte di classe. Anche le trasformazioni che sono comuni a tutto il mondo capitalistico, com'è, oggi, il sopravvento dei grandi gruppi monopolisti­ci, non si compiono dappertutto in egual modo, non portano dappertutto alle stesse conseguenze pratiche, non aprono dappertutto problemi eguali.

   La diversità delle vie di avanzata verso il socialismo sgorga dalla storia, dalla economia, dallo sviluppo del movimento operaio e spesso si ritrova nella sponta­neità stessa di questo movimento. Alla direzione politica della classe operaia spetta il compito di rendersene conto, di farne consapevole per lo meno tutta l'avan­guardia del proletariato e quindi di non staccarsi da quegli indirizzi politici e da quei metodi di lavoro che, nella stessa loro diversità da un paese all'altro, so­no i soli che possono assicurare la fondamentale unità e il successo di tutto il movimento.

   Per questo Antonio Gramsci, quando elaborammo le note tesi politiche del nostro III Congresso nazionale, volle fosse sottolineato come il duplice attacco al­l'ordinamento capitalistico italiano, quello della classe operaia in formazione e sviluppo, e quello delle masse contadine del Mezzogiorno e delle isole, si manifestasse e tendesse a confluire in un movimento unico ancor prima che la direzio­ne socialista se ne rendesse conto, e quando, anzi, questa direzione era ancora cieca e sorda davanti alle gravi questioni che sorgevano dalle regioni meridionali e venivano poste dai moti siciliani. Le contraddizioni insite nella struttura del nuovo Stato italiano determinavano particolari condizioni di sviluppo della lotta di classe in questa fase della nostra storia, facevano apparire sin dagli inizi quali potessero diventare le forze motrici della rivoluzione socialista italiana. Il movi­mento operaio non afferrò giustamente i termini del problema se non assai tardi, e per opera precisamente di Antonio Gramsci.

   A questo primo fondamentale insegnamento del Grande che ha fondato il no­stro partito, e al metodo che a questo insegnamento è inerente, ci siamo sforzati di restare sempre fedeli, liberandoci dagli schematismi che ci fecero ostacolo.

   L'arretratezza e disgregazione sociale del Mezzogiorno, lo squilibrio tra le re­gioni meridionali e insulari e le altre regioni italiane, con le gravi conseguenze che ne derivano per le masse lavoratrici sia delle campagne che del ceto medio e anche per una parte del ceto possidente, sono inerenti alla struttura economica e politica del capitalismo italiano. Scompaiono queste condizioni con lo sviluppo del capitalismo, con il progresso della produzione industriale e della tecnica? Si­no ad ora è risultato che non scompaiono, anzi tendono in parte a diventare più gravi. Si deve dunque aspettare che scompaiano con la rivoluzione socialista? No, sarebbe un errore di fatalismo e di inerzia, fin che si vuole ricoperta di frasi. Ol­tre che denunciare queste condizioni, occorre chiamare oggi le masse lavoratrici a combattere contro di esse, indicare concretamente come si può farle sparire, con una riforma agraria generale, con una rapida industrializzazione delle regio­ni meridionali, con una estensione del sistema delle autonomie regionali. E oc­corre dare vita a un movimento non solo locale, ma nazionale, per queste pro­fonde riforme. Così il nostro partito, che è il partito della classe operaia, si fa in pari tempo il partito delle popolazioni lavoratrici meridionali, il vero e il solo partito meridionalista del nostro paese.

   Ma lo stesso Gramsci già aveva allargato l'orizzonte politico quando, analiz­zando i termini della questione contadina in Italia, aveva detto che parte di essa è la questione vaticana, cioè il movimento cattolico. Qui si è senza dubbio pro­gredito in parecchie direzioni. Il movimento cattolico è oggi più maturo di quanto non fosse nel passato. Ma tra le masse contadine dei coloni, degli affittuari, dei piccoli e medi proprietari, l'iniziativa e l'azione di natura radicale, rivoluziona­ria, per creare loro nuove condizioni di esistenza, sono state insufficienti, fram­mentarie, confuse. Tanto più che oggi la decadenza dell'agricoltura nelle monta­gne apre problemi nuovi, che hanno alcuni punti di analogia con la questione meridionale. È tutta una parte della economia nazionale e quindi della popola­zione, che precipita nella miseria, mentre è perfino dato sentire gli apologisti del capitalismo esaltare lo spopolamento delle montagne, cioè esaltare la miseria, come aspetto del progresso nella società odierna.

   Nei centri urbani, poi, vive un ceto medio assai numeroso, il che ha luogo an­che in altri paesi occidentali di capitalismo assai sviluppato, ed esiste, inoltre, e questa è una nostra particolarità, un numerosissimo artigianato di vecchie tra­dizioni. Si tratta di ceti che siano per loro natura ostili a una marcia verso il socia­lismo, oppure di ceti che forzatamente debbano essere spinti alla rovina e trasfor­mati in proletari prima di poter sentire che hanno interesse alla lotta contro il capitalismo? Non è vera né la prima né la seconda di queste due affermazioni. Si tratta di una parte della popolazione lavoratrice la cui presenza determina sì una struttura sociale particolare, ma è in pari tempo ostile a questa struttura, per motivi che discendono dalle sue difficili, spesso assai dure condizioni di esisten­za, dalle quali non può liberarsi se questa struttura non subisce radicali trasformazioni.

   Il capitalismo stesso non è più quello di una volta, ma anche nella odierna sua evoluzione conserva particolari tratti caratteristici. In un ambiente sociale molto differenziato, esso si sviluppa da noi in modo tale che associa agli innegabili pro­gressi tecnici, agli aumenti della produzione e a quelli, stentati e tutt'altro che uniformi, del reddito nazionale, il prevalere incontrastato dei grandi gruppi mo­nopolistici dell'industria, della finanza e dell'agricoltura. Si ha quindi un accre­scimento unilaterale, deforme, che non supera le precedenti contraddizioni se non per ripresentarle in forma nuova, talora più profonda; non elimina i vecchi contrasti se non per dar luogo a contrasti nuovi, talora più aspri. La struttura stes­sa di tutto l'organismo economico e sociale risulta essere profondamente viziata. Alcuni fatti lo denunciano in modo clamoroso, e di essi il più grave è il permane­re di una disoccupazione totale di circa due milioni di unità e di una massa al­trettanto grande di lavoratori a orario ridotto, pure in un periodo in cui in tutti i modi viene messo in luce ed esaltato l'aumento degli indici della produzione nelle principali sue branche. Alcuni fatti che senza dubbio sono un progresso, come l'introduzione su vasta scale delle macchine nell'agricoltura, tendono ad aggravare tragicamente questa situazione, cacciando dal lavoro sulla terra nuove migliaia e migliaia di uomini. Le donne, per lo più, non sono inserite nella pro­duzione, per cui una enorme quantità di forza di lavoro non viene utilizzata. Altri fatti emergono dalle indagini ufficiali solo una volta ogni tanto, quando qualcuno si decide a dare un po' di attenzione alle reali condizioni di vita di tut­ta la popolazione, ma sono continuamente presenti al popolo e a chi vive col po­polo. Tale è lo stato di miseria che regna in zone intiere del paese, non solamente nel Mezzogiorno e nelle isole, ma nelle valli di montagna, nelle pianure stesse del Nord e attorno alle grandi città. Tale è l'impressionante squilibrio e vero di­stacco che esiste tra gli indici di una vita civile negli altri stati dell'Occidente ca­pitalistico e nella nostra patria. Noi siamo sempre agli ultimi posti; siamo battu­ti, in questa reale e grave arretratezza solo da paesi come la Spagna, la Turchia, la Grecia, o dagli oggi arretratissimi stati del Medio Oriente. Anche i confronti economici nel tempo portano a conclusioni impressionanti. Le calorie disponibili per abitante negli ultimi anni, sono solo in lieve aumento rispetto a quelle dispo­nibili nel periodo 1911-1913 e prima della seconda guerra mondiale. Il consumo della carne è in diminuzione. Anche tenendo conto delle differenze di congiun­tura tra i periodi confrontati, si deve concludere che se la lotta sindacale e politica degli ultimi dieci anni è riuscita a ostacolare con successo la tendenza a ridurre il tenore di vita delle fondamentali categorie dei lavoratori industriali, per il com­plesso della popolazione non si può negare che permane una tendenza all'impoverimento.

   Il quadro complessivo è di un sistema economico che non riesce ad assicurare uno sviluppo razionale e continuo delle forze produttive, che non è in grado di dare lavoro a tutti i cittadini, che non ci fa superare le contraddizioni e le arretra­tezze inveterate. Trasformare la struttura stessa di questo sistema è una necessità che si pone non soltanto agli operai, ma si presenta, pure attraverso vie diverse, alla grande maggioranza della popolazione. Attuare in modo radicale e definiti­vo questa trasformazione della struttura economica è il compito della rivoluzione socialista. Ci sono però trasformazioni, di carattere ancora parziale, che si impon­gono oggi in modo assoluto e non possono venire rinviate se si vogliono assicura­re migliori condizioni di esistenza a gruppi intieri della popolazione. Tale è, prima di tutto, una riforma agraria generale, attuata con la introduzione generale di un limite della proprietà fondiaria. Tali sono le più urgenti misure atte a ridurre il potere dei grandi gruppi monopolistici.

   Il peso del monopolio industriale e finanziario privato sulla economia italiana è aumentato in misura veramente mostruosa, più rapidamente e creando squili­bri più gravi che in altri paesi capitalistici.

   Sono note le cifre. Il 70% del capitale azionario è concentrato in 180 società per azioni, sulle migliaia e migliaia che esistono. Quaranta di queste società con­trollano i due terzi di tutto il capitale azionario italiano. Lo 0,015% degli azioni­sti dispone della metà del capitale esistente. Il dominio da parte dei grandi grup­pi monopolistici del mercato finanziario e dei prezzi è incontrastato e pesante. L'aumento medio annuo dei loro utili dichiarati, fra il 1948 e il 1954, si aggira attorno al 30% per le più grandi società e tocca astronomiche cifre assolute.

   Condurre una lotta efficace contro i grandi monopoli privati è nell'interesse immediato, è anzi oggi una necessità, per la difesa delle attività produttive della maggior parte della popolazione, compresi vastissimi strati di piccoli e medi pro­duttori, i cui guadagni vengono ridotti, a favore dei grandi monopoli, per il mo­do come questi dominano il mercato. I grandi monopoli sono la forza dirigente del capitalismo attuale. Sono la forza più reazionaria e più aggressiva. Sono i di­fensori di quei legami internazionali che minacciano l'indipendenza della nazio­ne. Concentrare i colpi contro i grandi monopoli, metterli in stato di accusa, iso­larli, proporre e adottare misure che limitino il loro potere e tendano a distrug­gerlo, è compito di chi oggi vuole efficacemente combattere contro il capitalismo e per il socialismo, in unione con masse popolari sempre più ampie e sempre più convinte, è compito di chi non voglia ridursi alla attesa inerte del gran giorno in cui cambieranno tutte le cose.

   Questa è la giustificazione generale della nostra lotta per delle riforme di strut­tura, la quale è uno dei principali punti di arrivo della ricerca di una nostra via di sviluppo verso il socialismo nelle condizioni attuali. Sarebbe errato confonde­re la rivendicazione di queste riforme con quelle che un tempo chiamavano ri­vendicazioni transitorie, cioè parole d'ordine da lanciarsi nel momento di una crisi rivoluzionaria acuta e destinate solo a dirigere le masse popolari verso la lot­ta per il potere, parole d'ordine, quindi, destinate a consumarsi rapidamente nel corso stesso di questa lotta. Le riforme di struttura sono un obiettivo positivo, che noi vogliamo realizzare e che è realizzabile nelle condizioni attuali della lotta politica. Noi vogliamo veramente una riforma agraria generale, secondo il prin­cipio fissato dalla Costituzione, perché i contadini e il paese ne hanno bisogno subito e questa riforma è attuabile anche oggi. Vogliamo la nazionalizzazione dei più pesanti monopoli privati dell'industria e della finanza, e anche questo si può fare. Vogliamo, attraverso forme di controllo democratico, sui prezzi, sul­la formazione dei profitti, sulle tariffe doganali, sulla speculazione edilizia, at­traverso una riforma radicale del sistema fiscale, riuscire a limitare e spezzare il potere economico dei monopoli. Vogliamo queste cose, le riteniamo attuabili e lottiamo per attuarle, perché da esse dipende la soddisfazione delle esigenze vi­tali di una grande parte della popolazione, dipende che vi sia terra e lavoro per i contadini, che l'artigiano e il piccolo produttore non siano soffocati da una gi­gantesca forza che è loro ostile, che tutto il paese sia liberato dalle catene che gli impediscono di progredire. Le riforme di struttura non sono il socialismo. So­no però una trasformazione delle strutture economiche che apre la strada per avan­zare verso il socialismo. Sono misure di lotta contro l'odierno nemico principale della classe operaia e del socialismo. Sono nell'interesse del popolo, del progres­so e della pace.

   Le obiezioni che si sentono fare sono che noi con questa azione tenderemmo a riformare, e non a distruggere il capitalismo e, d'altra parte, che si sono già avute riforme di struttura, certe nazionalizzazioni, per esempio, senza che nei paesi che le hanno attuate si sia progredito verso il socialismo. La prima obiezio­ne non regge, perché, se fosse valida, dovrebbe esserlo anche contro qualsiasi al­tra rivendicazione, sia economica, sia politica, che non sia di un puro aumento di salario. La seconda, invece, pone tutta la questione della lotta che deve con­dursi, nelle condizioni presenti, da parte della classe operaia e delle masse popo­lari, guidate dai loro partiti, per affermarsi come fattore dominante della politica e della economia nazionali. Da sola, una nazionalizzazione può non significare grande cosa. Fatta in certi modi, può persino dare certi vantaggi a certi gruppi capitalistici, o a gruppi politici non progressivi. Ma le cose cambiano quando questa o altre misure di lotta contro il grande capitale monopolistico, siano parte inte­grante di una azione continua, di una lotta incessante, che venga condotta con decisione, da grandi organizzazioni politiche e di massa, con l'appoggio di una parte notevole dell'opinione pubblica, per imporre, pur nelle condizioni attuali, una politica economica che sia a favore dei lavoratori e del ceto medio, che impe­gni il governo stesso, attraverso il Parlamento, alla azione antimonopolistica. Al­lora le cose cambiano. Allora anche l'intervento dello Stato nella vita economica può assumere un valore ben diverso da quello che ha quando il governo agisce come puro comitato di affari dei gruppi monopolistici e le forme di capitalismo di Stato non sono altro che forme di subordinazione dell'apparato statale alle volontà e agli interessi dei grossi capitalisti. Il problema non si risolve quindi con delle formule, ma si decide con l'azione, riuscendo a organizzare e dirigere un ampio movimento di masse, a condurre vittoriosamente lotte tali che impongo­no radicali mutamenti degli indirizzi economici e politici generali. Tutto sta nel riconoscere che oggi esistono condizioni tali che permettono di condurre un'a­zione simile e di condurla con successo. Il problema si riconduce quindi a quello delle condizioni politiche in cui si svolge la lotta di classe, del grado di maturità della classe operaia, delle masse contadine e del ceto medio, del posto che queste forze sociali occupano nella società civile e nella lotta politica, del loro grado di coscienza, della generale perdita di prestigio sia del capitalismo che delle classi dirigenti che esso esprime, e del prestigio e forza di attrazione sempre più grandi delle idee socialiste tra le grandi masse umane.

   L'analisi oggettiva ci fornisce, per il nostro paese, il quadro di una convergen­za, per la lotta contro il capitalismo nelle circostanze attuali, di un ampio fronte di forze sociali. Questa convergenza è la base oggettiva di un sistema di alleanze di classe vasto, molteplice, originale. Nella vecchia Russia si trattò essenzialmente della alleanza della classe operaia, come forza dirigente, con le grandi masse contadine prima della rivoluzione, con diverse parti di queste masse in seguito, a seconda del modo come la rivoluzione procedeva. Nell'odierna Cina popolare, anche gruppi di borghesia nazionale partecipano alla costruzione socialista. Da noi, attorno alla classe operaia, avversario storico del capitalismo, si raccolgono le grandi masse contadine sino a comprendere il piccolo e medio coltivatore indi­pendente, un numerosissimo ceto medio produttore urbano e non escludiamo la adesione all'azione antimonopolistica di numerosi piccoli e medi industriali. Le stesse condizioni che determinano queste alleanze di classe determinano an­che particolari vie di sviluppo nella costruzione di una società socialista. Per il nostro artigianato, per la grande massa dei coltivatori diretti, per forti gruppi di piccoli e medi produttori, il passaggio a forme di conduzione di tipo socialista, cioè fondate sul principio della cooperazione, è cosa lontana e non potrà essere altro che la conseguenza di un movimento spontaneo, di quella lunga riflessione del contadino sul suo piccolo appezzamento, di cui parlava Federico Engels. Il socialismo intanto dovrà garantire a questi strati sociali la loro proprietà, che il capitalismo monopolistico mina e distrugge. Per la lotta contro il capitalismo mo­nopolistico questi gruppi sociali oggi hanno urgente interesse e bisogno di unirsi e muoversi a fianco della classe operaia. La lotta della classe operaia contro il ca­pitalismo e per il socialismo è quella che assicura il loro avvenire.


4. Una via democratica al socialismo


La lotta politica nel nostro paese, per quanto riguarda i problemi di fondo, cioè i problemi della libertà, della democrazia e del socialismo, è dominata, sia nei fatti che nella coscienza delle masse consapevoli, dalla grande esperienza na­zionale, compiuta nella resistenza al fascismo e nella guerra di liberazione. Da questa esperienza sono risultate alcune grandi acquisizioni politiche. In seno alle classi dirigenti capitalistiche italiane esiste una tendenza permanente, di cui sono portatori i gruppi borghesi più potenti e più reazionari, a limitare e distruggere le libertà politiche e prima di tutto i diritti democratici dei lavoratori. Queste libertà e questi diritti sono considerati una trappola, una dannosa pastoia. Il fa­scismo è uscito dal predominio di questa tendenza per un intiero periodo e da un predominio che fu quasi incontrastato, nel campo capitalistico. La resistenza e la lotta contro il fascismo furono impostate e dirette dalla classe operaia e dal suo partito comunista. La classe operaia, le masse lavoratrici e i loro partiti avan­zati, tutti di ispirazione socialista, furono alla testa della guerra di liberazione e crearono, con la vittoria contro il fascismo, le fondamenta storiche e politiche dell'attuale regime democratico.

   Queste grandi acquisizioni storiche non si cancellano, non si possono cancella­re, così come non si possono distruggere le conquiste reali che ad esse corrispon­dono, a meno che non si voglia creare nella società italiana una frattura tale che, presto o tardi, renderebbe di nuovo attuale la minaccia di un ritorno al fascismo o ad un suo surrogato. Non sono bastati anni ed anni di forsennata e dissennata canea anticomunista a far dimenticare che da quasi un quarto di secolo il nostro partito è stato ed è la forza democratica più attiva e più conseguente: che ai co­munisti spetta il merito storico di aver guidato la classe operaia a essere, nel momento della più profonda crisi che l'Italia abbia attraversato nella sua storia mo­derna, la vera classe dirigente nazionale. Da molto tempo noi abbiamo saputo prendere nelle nostre mani la bandiera della libertà e dell'indipendenza, dagli altri lasciata cadere o calpestata. È stato, questo, un elemento permanente e via via sempre più evidente di tutta la nostra azione politica.

   La più grande conquista che la classe operaia e il popolo, avanzando in queste condizioni e sotto questa guida, abbiano realizzato è la attuale Costituzione re­pubblicana. Nel modo come noi abbiamo combattuto e lavorato per avere que­sta Costituzione era già contenuta, anche se implicita, una risposta a molti tra i quesiti posti nel dibattito attuale del movimento operaio, perché era risolto in modo positivo il problema di principio di una marcia verso il socialismo nell'am­bito di una legalità democratica. Cade così ogni accusa di furbesco tatticismo. A una Costituzione, che solennemente esprime i principi affermati da tutto un popolo nella Resistenza e nella guerra di liberazione, non si dà il proprio contri­buto e il proprio voto per astuzia o per ingannare altrui. Noi volemmo che la Costituzione avesse quel suo carattere programmatico e stabilisse un piano di grandi riforme della struttura sociale da compiersi col metodo democratico che essa stes­sa traccia, perché questo era il cammino che sceglievamo per il nostro partito, per la classe operaia e per l'Italia. Ci si può osservare che partivamo essenzial­mente dalla considerazione delle condizioni del nostro paese e questo è giusto. Questo fu un limite della nostra elaborazione. Oggi è stata formulata in modo generale la tesi della possibilità di una avanzata verso il socialismo nelle forme della legalità democratica e anche parlamentare, ma è stata formulata prendendo in considerazione le trasformazioni della struttura del mondo conseguenti alla creazione di un sistema di Stati socialisti, prendendo in considerazione l'appro­fondirsi della crisi generale del capitalismo per il crollo del sistema coloniale, pren­dendo in considerazione, infine, gli sviluppi del movimento operaio e l'accre­sciuto prestigio delle idee socialiste nel mondo intiero. La tesi, che era la nostra nel 1944-46, ha potuto venire formulata in modo generale in conseguenza delle grandi vittorie, che dieci anni fa non si potevano prevedere, riportate dopo lotte assai aspre, come quella che si combatté per fondare la Repubblica popolare ci­nese, e quelle che permisero al mondo socialista di uscire dalla guerra fredda più forte di prima. Queste cose noi non potevamo allora prevederle. La posizione no­stra era per noi giustificata dalla grande vittoria riportata nella lotta contro il fa­scismo e dal complesso delle conseguenze di questa vittoria, e tutto questo, no­nostante il modo come è avvenuta la successiva restaurazione del capitalismo, ri­mane valido ancora oggi.

   Non credo invece si possano accettare le posizioni dal compagno socialista Ric­cardo Lombardi in suoi recenti discorsi e scritti. Secondo lui il progresso della democrazia politica condizionerebbe tutta la evoluzione della società capitalisti­ca nell'attuale periodo. Di qui la obbligatorietà e uniformità di una marcia paci­fica verso il socialismo, che sarebbe ormai cosa fatale. Purtroppo non è così, e da questa concezione si può andare a finire diritto diritto nell'opportunismo di vecchio tipo, in un attesismo inerte, nella passività, nell'asservimento al capitali­smo. Non si deve cadere in false generalizzazioni. È vero che il progresso della democrazia politica ha la sua efficacia su tutta la evoluzione della società capitali­stica e anche sul modo come si realizzano certe leggi di tendenza del sistema ca­pitalistico. È questo un aspetto di quella influenza della sovrastruttura sulle strutture della società, che i marxisti ben conoscono. Il progresso della democrazia politica non modifica però la natura del capitalismo. Fino a che questo rimane, la demo­crazia è sempre limitata e falsa, perché tra gli uomini non esiste eguaglianza eco­nomica e i lavoratori non sono liberi dallo sfruttamento. Lo stesso progresso de­mocratico, ed è questo il momento essenziale, è dovuto, in alcune zone del mon­do, a condizioni economiche particolari, legate a quello sviluppo imperialistico che Lenin ha studiato e nei paesi a noi più vicini è dovuto soprattutto alla energi­ca pressione e alle lotte condotte dalla classe operaia per difendere i suoi interes­si, affermare se stessa come forza sociale dominante e far trionfare il socialismo. Sempre però esiste nelle classi dirigenti la tendenza ad arrestare questo processo, ricorrendo ai mezzi più diversi. Stiamo attenti, quindi, a parlare di fatale irrever­sibilità, e a rivedere, così, le fondamenta della nostra dottrina. Coloro che affer­mavano la irreversibilità fatale del processo di distensione dei rapporti interna­zionali, sono stati duramente smentiti dallo scoppio dell'attuale crisi di guerra. Si guardi alla storia anche solo degli ultimi decenni. Due grandi periodi di svi­luppo democratico si chiudono entrambi, nel 1914 e nel 1939 con lo scoppio di una guerra mondiale. E forse che vi sarebbe molta democrazia politica nell'Euro­pa d'occidente, se non vi fosse stata la Rivoluzione d'ottobre, se l'Unione Sovie­tica non fosse diventata un così potente Stato? Prima della seconda guerra mon­diale, non soltanto il fascismo dominava la maggior parte del territorio dell'Eu­ropa capitalistica, ma anche là dove non aveva trionfato, i gruppi dirigenti capi­talistici manifestarono quasi dappertutto una paurosa oscillazione verso la imita­zione dei metodi fascisti. Se non vi fossero state la politica sovietica e le armate sovietiche, il fascismo avrebbe conquistato, in forme diverse, l'Europa intiera. Se non si fosse liberata la Cina sotto la guida dei comunisti, non vi sarebbe stato crollo così rapido del sistema coloniale. È la lotta rivoluzionaria, sono le vittorie riportate combattendo che hanno aperta la via democratica di avanzata verso il socialismo.

   Ciò non vuol dire, s'intende, che il proposito o la demenza di qualche gruppo reazionario possa bastare per distruggere il progresso democratico. Vuol dire però che elementi decisivi per questo progresso sono la presenza di un grande movi­mento operaio e popolare organizzato, autorevole, unito, ben diretto, e la lotta del proletariato e del popolo per limitare lo strapotere e il potere delle classi pri­vilegiate. La continua pressione esercitata da quel movimento e le vittorie otte­nute in questa lotta creano condizioni nuove, originali, come quella che esiste oggi da noi. La classe operaia non è ancora riuscita a conquistare la direzione po­litica dello stato. Ha però avuto il dominio del movimento popolare da cui que­sto stato è uscito, e questo stato ha una Costituzione che lo proclama «fondato sul lavoro» e afferma la necessità di quelle trasformazioni economiche e politi­che che sono necessarie per rinnovare la società nazionale e muoverla nella dire­zione del socialismo.

   Questo è un risultato originale della lotta delle classi quale si è svolta nel no­stro paese. Il rispetto e l'applicazione della Costituzione diventa così il terreno su cui si scontrano le forze del rinnovamento socialista e le forze della conserva­zione e della reazione. Né si possono separare la parte strettamente politica e il contenuto economico e sociale della Carta. La democrazia che oggi esiste da noi è ancora limitata e falsa nel suo contenuto, oltre che sempre insidiata dagli stessi governanti. Ma la Costituzione, mentre condanna ogni arbitraria limitazione dei diritti democratici, dice che bisogna rimuovere gli ostacoli materiali che genera­no la disuguaglianza tra i cittadini, indica a grandi linee le riforme da compiersi per eliminare questi ostacoli. La Costituzione stessa apre così il cammino a suc­cessive trasformazioni, destinate a incidere sempre più profondamente nel pote­re reale delle classi privilegiate e dare alla stessa democrazia un contenuto sempre più ampio ed effettivo. Sappiamo quanto sia tenace la resistenza a questo pro­gresso delle classi e dei partiti che oggi sono dominanti e non escludiamo da par­te loro i colpi di testa reazionari. Ma quando consideriamo anche questa eventua­lità, la conclusione che ne ricaviamo è di tenere ancor più saldamente nelle mani nostre la bandiera del progresso democratico, della difesa della libertà nell'inte­resse non solo nostro, ma di tutti gli strati popolari, di tutta la società italiana. Non concludiamo, da questa possibile eventualità, a una modificazione del ca­rattere del nostro partito e della sua strategia rivoluzionaria. Anzi, insistiamo in essa.

   Lo scontro con le forze conservatrici è stato già particolarmente acuto a propo­sito del regime parlamentare. La smettano di falsificare la verità dei fatti gli esan­gui liberali di sinistra, per cui noi saremmo nemici organici della democrazia. Se non vi fosse stata la vittoriosa lotta nostra e dei socialisti contro la legge truffa, oggi il parlamentarismo già sarebbe stato ridotto a una larva. La legge truffa era il primo passo per la sua soppressione. E noi non avremmo condotto quella lotta con quell'impegno se non attribuissimo un valore sostanziale alle istituzioni par­lamentari, se ci limitassimo a vedere nel Parlamento una semplice tribuna per l'agitazione contro l'odierno regime e contro il capitalismo. La vittoria del 7 giu­gno ci ha però soltanto garantito una condizione preliminare per una effettiva partecipazione del Parlamento alla grande opera di rinnovamento della nostra società. Nel modo come ora funziona, il Parlamento non adempie questo compi­to e la questione è da porsi in modo serio davanti a tutta l'opinione democratica e a tutto il paese.

   Le questioni della libertà, della democrazia, del parlamentarismo e del sociali­smo sono quindi sempre poste, da noi, in relazione con il modo come si svolgono i contrasti di classe, con la lotta che viene condotta dalla classe operaia e dalle forze popolari che essa riesce a guidare, con i successi di questa lotta contro le classi dirigenti capitalistiche. Qui sta il più profondo punto di divergenza tra la nostra concezione, che è rivoluzionaria, e la concezione riformistica, propria del­la socialdemocrazia. Dalla costatazione, scientificamente giusta, che le condizio­ni oggettive del socialismo maturano nella stessa società capitalistica, il riformi­smo deduce che vi è solo da aspettare che il socialismo sbocci dal seno del capita­lismo, da se stesso, per un miracolo. Di qui la tendenza a considerare lo sviluppo del capitalismo come qualcosa che sia di per sé una marcia verso il socialismo. Da questa concezione i capi socialdemocratici hanno derivato la dottrina che il loro compito sia di bene amministrare il capitalismo e la società capitalistica, che tanto al socialismo ci si arriverebbe lo stesso. Messi su questa strada, per ben am­ministrare il capitalismo scatenano la guerra di Suez, danno fuoco al mondo. La democrazia non è più, per loro, una posizione conquistata da difendere e da al­largare di continuo con la lotta democratica delle masse. Diventa una parola vuo­ta, e si trasforma nel suo contrario, come ha dimostrato, qui da noi, il connubio di Saragat con Scelba. Violare la Costituzione e calpestarla, scagliare contro i la­voratori la forza armata dello Stato, non è difendere la democrazia, ma impedir­ne con la violenza la affermazione e lo sviluppo.

   Noi siamo democratici perché ci muoviamo nell'ambito della Costituzione, del costume democratico e della legalità che essa determina, ed esigiamo da tutti il rispetto di questa legalità e l'applicazione di tutte le norme costituzionali da par­te di tutti, e prima di tutto dei governanti. Il terreno della democrazia lo abbia­mo conquistato per procedere, sopra di esso, verso il socialismo. Sarebbe perciò assurdo che lo negassimo. Anzi, lo difendiamo. Anzi, la urgenza del rinnova­mento socialista, il fatto che esso è nell'interesse della grande maggioranza del popolo, il diffondersi di questa coscienza e il suo tradursi in un movimento sem­pre più grande e autorevole di masse organizzate ed unite, ci consentono di ve­dere nelle norme della vita democratica e costituzionale non un ostacolo, ma un aiuto a una costruzione socialista che proceda col minimo di rotture e di sacrifici per le stesse masse lavoratrici e per il paese. Se nel 1917, ancora pochi mesi prima dell'Ottobre, in quella situazione infiammata, lo stesso Lenin non escludeva uno sviluppo pacifico della rivoluzione socialista e il permanere di una pluralità di partiti, a ben maggior diritto possiamo noi oggi, in un mondo già così profonda­mente rinnovato dal socialismo, considerare nostro compito storico fondamenta­le l'attuazione di questa possibilità.

   Per questo in uno dei documenti presentati al congresso abbiamo scritto che «alla classe operaia e al popolo italiano si apre il compito storico di procedere alla costruzione del socialismo seguendo una via nuova rispetto al modo come si è realizzata la dittatura del proletariato in altri paesi, attuando la direzione in­dispensabile della classe operaia attraverso nuove alleanze e nuove collaborazio­ni, col rispetto del metodo democratico, spezzando le resistenze e le insidie dei nemici della libertà e del progresso sociale con la forza irresistibile di un popolo intiero di lavoratori in marcia verso la loro emancipazione e redenzione completa».

   In queste affermazioni non è contenuta nessuna revisione dei nostri principi. La dittatura del proletariato, cioè la direzione politica da parte della classe ope­raia della costruzione della società socialista, è una necessità storica. Ma già Le­nin, dopo aver affermato che è inevitabile che tutte le nazioni vengano al sociali­smo, aveva aggiunto che «non tutte vi verranno allo stesso modo. Ciascuna di esse avrà le sue particolarità nelle forme della democrazia, come nella varietà del­le forme della dittatura del proletariato, e nella maggiore o minore rapidità con cui riorganizzerà socialisticamente i diversi aspetti della vita sociale».

   Stabilire una prospettiva di sviluppo democratico verso il socialismo non vuol dire negare la necessità di una tenace lotta. La lotta è indispensabile, nelle forme imposte dalla situazione; alla testa di questa lotta vi deve essere la classe operaia guidata dalla sua avanguardia rivoluzionaria; nel corso della lotta stessa il fronte dell'avanzata verso il socialismo deve via via estendersi a gruppi sociali nuovi e da essa deve uscire una coscienza socialista sempre più forte, nella classe operaia e in tutto il popolo. Se non vi è tutto questo, si corre il rischio di fare soltanto delle frasi. Si corre il rischio di non uscire dalla agitazione generica di parole d'ordine più o meno giuste, se non si comprende che la riforma agraria, e le riforme di struttura che noi rivendichiamo, e il controllo democratico dei monopoli e la esten­sione della democrazia, e la utilizzazione efficace del Parlamento, e tutto il rin­novamento della nostra vita nazionale sono questioni da risolversi per dare nuove condizioni di vita agli operai, ai contadini, al ceto medio e al popolo intiero, per far scomparire la miseria e le ingiustizie sociali, per assicurare a tutti un la­voro e una esistenza sicura, degna di essere vissuta, felice. I problemi immediati, che in modo angoscioso si presentano a milioni di donne e di uomini, debbono essere sempre il punto di partenza. E tutto il movimento sarebbe privo di una guida politica e sociale, di una guida socialista, voglio dire, se la classe operaia non fosse in esso il fattore più attivo, con la sua ideologia, la sua organizzazione, le sue rivendicazioni, le sue lotte, con il suo appoggio alle rivendicazioni e alle lotte economiche e politiche di altri gruppi sociali, alle lotte per la libertà, per il lavoro, per la pace.

   La classe operaia è in Italia meno numerosa che in altri paesi dell'Occidente europeo. Si è sviluppata tardi. Non è sviluppata in modo uniforme su tutto il territorio nazionale. È scarsamente presente nella capitale, quasi assente in alcu­ne zone del Mezzogiorno. Nonostante questo la nostra classe operaia è già riusci­ta a dare un contributo decisivo a tutta la nostra storia. Ha compiuto in poco più che mezzo secolo un enorme progresso nella formazione della sua coscienza civile e politica. Il nostro partito è di questo progresso la manifestazione più alta, più coraggiosa.

   Ancora nel 1900, nel momento che si compie nella società italiana una svolta democratica, Antonio Labriola, in una lettera, credo tuttora inedita, a Pasquale Villari, si esprime con grande riserva e cautela circa le prospettive della lotta per il socialismo.

   «Non mi son mai sognato - dice - che il socialismo italiano fosse leva per rovesciare il mondo capitalistico. A ciò non crede nessuno nel mondo civile e so­prattutto non ci credono i socialisti di altri paesi. Io ho inteso sempre il sociali­smo italiano come un mezzo: 1) per sviluppare il senso politico nelle moltitudi­ni; 2) per educare quella parte di operai che sono educabili alla organizzazione di classe; 3) per opporre alle varie camorre che si chiamano partiti una forte com­pagine popolare; 4) per costringere i rappresentanti del governo alle riforme eco­nomiche utili per tutti. Il resto della propaganda socialista, nel senso specifico della parole, non può aver effetto pratico quanto all'Italia che per le generazioni di là da venire» (Lettera a Pasquale Villari, del 13 novembre 1900).

   Ecco, quelle generazioni sono venute, si sono temprate con esperienze, lotte, sacrifici immensi. A vent'anni di distanza da questa lettera - nella quale sono con precisione indicati i principali compiti immediati di quel periodo - Anto­nio Gramsci, alla testa del proletariato torinese, concepisce il solo piano politico che dopo la prima guerra mondiale avrebbe potuto salvare l'Italia della catastrofe fascista, facendo della classe operaia la nuova classe dirigente. Vaneggiano coloro che, cancellando le condizioni e i fatti storici, artificiosamente trasportano a quel momento le conclusioni valide oggi, dimenticando che, come non fu possibile, allora, giungere al potere per via rivoluzionaria, così non esisteva nemmeno chi fosse in grado di dirigere una lotta diversa. Il riformismo dimostrò la sua impo­tenza e fece fallimento, davanti a quella prova, tanto quanto il massimalismo inconcludente e parolaio. L'esperienza dimostrò che anche per seguire la via del­la legalità democratica è necessaria una direzione rivoluzionaria. Questa volle fosse data alla classe operaia Antonio Gramsci, seguendo le indicazioni di Lenin, e questa direzione noi l'abbiamo data. Per questo egli potè prevedere che alla classe ope­raia sarebbe toccato salvare l'Italia dalla catastrofe e noi abbiamo potuto lavorare perché quella profezia si compiesse. Così la classe operaia già ha potuto esercitare una funzione di dominio politico e oggi può con piena legittimità porre la pro­pria candidatura alla direzione di tutta la società italiana. Ha compiuto quella educazione di cui parlava il Labriola. È riuscita a non essere più sola, chiusa in una pura negazione di principio del mondo capitalistico. Ha un suo programma di ricostruzione della società nazionale nell'interesse di tutti. È già avanzata sul cammino della società nazionale nell'interesse di tutti. È già avanzata sul cammi­no che questo programma indica. È in grado di stare alla testa di tutte le forze del lavoro e del progresso, di rinnovare l'economia, l'ordinamento politico, la cultura, di adempiere pienamente il compito che la storia le pone.


5. Compiti attuali


Dobbiamo riconoscere e dire, con la consueta nostra sincerità, che prevedia­mo, nel cammino che abbiamo tracciato, un periodo difficile. La situazione eco­nomica generale e prima di tutto le condizioni di vita del popolo diventeranno sensibilmente peggiori, per le conseguenze dell'attuale profonda crisi interna­zionale. I mesi invernali si annunciano durissimi, ci porranno urgenti problemi di organizzazione e movimento delle masse lavoratrici per la difesa della loro esi­stenza. È scatenata, per iniziativa e sotto la direzione dei più reazionari centri della nostra vita politica, una ondata nuova di volgare agitazione anticomunista. Coloro che conducono questa campagna non sono mossi né da amore per la li­bertà; né da interesse per le sorti del popolo ungherese. Per il massacro di Porto Said non si sono commossi. Per i tormentati popoli del Guatemala, di Cipro, dell'Algeria, della Spagna non hanno mai provato interesse alcuno. Quello che li interessa è la lotta contro di noi, perché noi siamo alla testa, nel nostro paese, della grande opera di rinnovamento democratico e sociale alla quale chiamiamo tutti gli italiani. Il loro proposito è di sfruttare volgarmente la commozione e la confusione oggi esistenti in una parte della opinione pubblica per spingere a destra, su posizioni contrarie agli interessi popolari e nazionali, tutta la situazio­ne politica. Vogliono fare ritorno all'oltranzismo atlantico e alle più gravi viola­zioni costituzionali; vogliono riesumare la guerra fredda all'estero e all'interno; sognano nuove rotture, nuove insormontabili discordie, nuove provocazioni con­tro il movimento operaio; vaneggiano persino di una messa al bando delle forze avanzate della classe operaia e del popolo, quelle forze avanzate cui va il merito di avere dato il più grande contributo alla fondazione della Repubblica.

   Questo indirizzo apertamente reazionario non è in contrasto con gli orienta­menti politici del recente Congresso di Trento della Democrazia cristiana. Que­sto congresso è stato unanimemente giudicato come un arretramento persino dalle posizioni del precedente Congresso di Napoli, che noi criticammo, ma che però erano almeno tali da dare l'apparenza di una certa volontà democratica e rifor­matrice. Al Congresso di Trento sono scomparsi tutti i problemi delle indispen­sabili e urgenti riforme economiche e sociali, è emersa soltanto la volontà dell'at­tuale direzione democristiana di rafforzare e rendere incontrastato, con i mezzi che si conoscono, il suo monopolio politico. A questa volontà fa riscontro quella stagnazione di qualsiasi iniziativa politica di governo, che dura ormai da quasi due anni. Nulla in questi anni è stato intrapreso e condotto a termine per la solu­zione di questioni così urgenti come quelle della disoccupazione, delle libertà operaie, dei contratti agrari, della limitazione del potere dei monopoli, della esten­sione dell'ordinamento regionale, della liquidazione delle gravi inadempienze costituzionali. Vi è stato un messaggio presidenziale che annunciava una svolta verso il rinnovamento delle classi dirigenti e l'integrale applicazione della Costi­tuzione; ci rincresce dover costatare che quella voce ha gridato nel deserto.

   L'attuale nuova crociata reazionaria rientra dunque perfettamente nella linea del Congresso di Trento, ne è l'applicazione e lo sviluppo. Lo scopo che persegue è di porre una barriera che ci si illude possa essere per un lungo periodo insupera­bile precisamente alla attuazione di quella svolta che il Presidente della Repub­blica annunciava.

   Si rivela così ancora una volta la contraddizione interna del movimento cattoli­co. Oggettivamente, questo movimento racchiude in sé un elemento di progres­so, perché segna l'ingresso nella vita politica e un risveglio di masse lavoratrici e alle volte esprime la tendenza anticapitalistica cui spontaneamente queste mas­se sono portate dalla difesa del loro interesse economico, dalla loro aspirazione a una vita migliore. A questa tendenza si sovrappone però il proposito di conser­vazione che parte dalle sommità sociali, per cui le rivendicazioni anticapitalisti­che diventano puro strumento per impedire che tutta la popolazione lavoratrice acquisti una coscienza socialista e si raccolga attorno alla guida rivoluzionaria della classe operaia. Oggi poi il partito cattolico subisce una particolare trasformazio­ne, per essere diventato, come fu nel passato il fascismo, il partito cui va la fidu­cia delle classi dirigenti capitalistiche nella loro grande maggioranza. Sorge in esso la tentazione del monopolio politico permanente, cioè di un totalitarismo di tipo nuovo, nel quale la Chiesa cattolica si illude di trovare la migliore garan­zia delle sue libertà e a cui l'integralismo delle scuole cattoliche offre una base di dottrina. L'ambizione che i dirigenti clericali accarezzano è quella di poter rag­giungere, in modo nuovo, o anche per via di un colpo di mano elettorale, lo stes­so risultato che avrebbero voluto raggiungere con la legge truffa. Se riuscissero nel loro piano, la prepotenza clericale diventerebbe intollerabile; la vita e la or­ganizzazione dello stato subirebbero una deformazione anche più grave di quel­la odierna, verso la soggezione dei poteri civili alle autorità ecclesiastiche; con­quiste essenziali del pensiero e della civiltà moderna sarebbero minacciate. Le classi dirigenti capitalistiche sono indifferenti a queste minacce. Da un pezzo esse non hanno, in questo campo, nessuna funzione progressiva. La sola cosa che oggi sta loro a cuore è il mantenimento dei loro privilegi, la difesa dal socialismo. Ma le conquiste della civiltà moderna contro il clericalismo e l'oscurantismo, prima di tutto l'indipendenza della politica dalle autorità religiose, la laicità del­lo stato e la tolleranza ideologica sono conquiste del popolo e della cultura che devono essere salvate. A noi sembra anzi assai significativo che l'offensiva clericale contro queste conquiste sia condotta sotto la bandiera dell'anticomuni­smo. Questo ci fa onore. È la riprova della funzione che noi abbiamo nella civiltà e nella storia. È la classe operaia che, combattendo per la democrazia e per il so­cialismo, salva tutto il precedente progresso. Siamo noi che continuiamo tutte le migliori tradizioni di civiltà.

   Vada un serio ammonimento agli esponenti dei gruppi democratici intermedi, molti dei quali oggi si arruolano senza riserve tra i crociati dell'anticomunismo e si adoprano persino, alcuni, per esserne alla testa. Così facendo essi non servo­no la democrazia, e ai gruppi che essi dirigono non potrà venirne vantaggio alcuno. Potrà venire confusione e debolezza, come il passato già molte volte ha di­mostrato. Staccate dalle forze fondamentali della classe operaia, che sono le no­stre, e in lotta contro di esse, le forze democratiche intermedie, prive di quel va­lido appoggio che noi demmo loro durante la lotta di liberazione, sono destinate a essere prima erose, compromesse e screditate, e poi schiacciate dal clericalismo. Noi non vogliamo imporre a nessuno il nostro giudizio sui fatti ungheresi, il quale è del resto un giudizio equilibrato e prudente. La crociata anticomunista dei cle­ricali è ben chiaro, invece, che viene condotta per cercar di imporre a tutti nuove violazioni dell'ordinamento democratico e la rinuncia a qualsiasi progresso socia­le. Non vi può essere democrazia di sinistra e nemmeno sviluppo democratico senza orientamento verso il proletariato rivoluzionario.

   Vi è qualche uomo di cultura, col quale eravamo giunti a proficue intese e col­laborazioni, che oggi dichiara non poter più nemmeno entrare in un locale ove si trovi uno di noi. Registriamo la cosa senza eccessiva sorpresa, né intendiamo rievocare le lezioni sulla tolleranza che da tante parti in altre occasioni ci si volle­ro impartire. Il nostro Gramsci ci ha insegnato quanto siano forti i legami che troppo spesso fanno degli uomini di cultura lo strumento delle classi dirigenti, elementi di una rete sottile ma solidissima con la quale si tengono soggette masse di popolo e di ceto medio alla egemonia capitalistica. Sono proprio coloro che contestavano, in polemica con noi, la natura di questo legame tra politica e cul­tura, che oggi ci forniscono la prova di una brutale supremazia della politica, e di una politica dettata dai circoli più reazionari.

   L'anticomunismo non potrà mai coprire processi di libertà. Sarà sempre sol­tanto bandiera di reazione, freno a qualsiasi progresso democratico, strumento di regresso. Contro l'anticomunismo, in qualsiasi forma si esprima, noi mettia­mo in guardia chiunque non voglia diventare schiavo della conservazione sociale e della reazione.

   Vi è una forma particolare dell'anticomunismo, che talora matura nei circoli intellettuali, e contro il quale pure vogliamo mettere in guardia. Lo vorrei chia­mare anticomunismo paternalistico, per quell'aspetto che vuol prendere quasi di protettore e mentore di noi stessi, contro gli errori e le debolezze nostre, nelle quali, quando le elencano, non trovi più altro, però, che la calunnia consueta, esposta con un po' più di ipocrisia untuosa. E alla fine viene fuori l'attacco al marxismo, anzi ai marxisti, che sono sempre in ritardo, e che ora dovrebbero an­dare a scuola, non della realtà e della esperienza delle loro lotte, che questi nuovi mentori non hanno per lo più mai vissuto, ma di una nuova specie di critici vel­leitari, dalle cui parole nulla esce né di costruttivo né di robusto. Invece di darsi la pena di studiare e capire il contenuto nazionale di tutta la nostra politica, ci ammanniscono lunghi discorsi sullo «Stato guida», e nemmeno si accorgono che stanno rimasticando il pane ammuffito di Gedda, di Scelba, e peggio ancora. Tal sia di loro. Noi non respingiamo, anzi salutiamo e accogliamo qualsiasi invi­to a una discussione oggettiva, amichevole. Siamo pronti a andare a scuola da chiunque abbia qualcosa da insegnarci. Non respingiamo nessun insegnamento. Abbiamo molto appreso da uomini di scienza e di cultura, i quali ci hanno aiuta­to, con ricerche loro autonome, ad approfondire i temi della storia del nostro paese e delle sue correnti intellettuali ed anche elementi della nostra dottrina. Ma questo paternalismo che ricalca le logore strade delle crociate anticomuniste non sappiamo a chi e a che cosa possa servire. Purtroppo, qualcosa di analogo servì, in Ungheria, a far dimenticare la linea di demarcazione tra la causa nostra e quella dei nemici della classe operaia.

   Manteniamo immutata la nostra posizione verso le masse lavoratrici cattoliche, con le quali continueremo in tutti i modi a cercare il contatto, la intesa, la colla­borazione. L'attuale ondata anticomunista tende ad arrestare un processo di av­vicinamento che in alcune grandi lotte recenti, come quella dei braccianti della scorsa estate, aveva seriamente preoccupato gli agrari e la reazione. Quale rap­porto ci sia tra il giudizio che noi, partito politico, diamo sui fatti di Ungheria, e le sacrosante rivendicazioni dei salariati agricoli, o dei ferrovieri, o dei pensio­nati, nessuno sarà mai in grado di comprendere. Comprendiamo però molto be­ne che le barriere all'unità nella lotta per queste rivendicazioni vengono poste per impedire che esse si possano realizzare. Per questo lavoriamo affinché i lavo­ratori cattolici stessi sentano la necessità e chiedano che ogni barriera all'unità nell'azione rivendicativa venga abbattuta.

   Dove dobbiamo procedere con maggiore iniziativa e coraggio, è nella diffusio­ne, tra le masse cattoliche, di quelle fondamentali verità che formano il contenu­to elementare di una coscienza socialista. L'avvicinamento per le lotte immediate non deve ostacolarci, ma favorirci nell'adempimento di questo compito. Le mas­se lavoratrici che oggi sono controllate dalle organizzazioni clericali, è un grave errore considerarle come un blocco compatto, non penetrabile. Se così avessero ragionato gli iniziatori del movimento operaio in Italia, un partito socialista non sarebbe mai sorto. Oggi è venuta meno una parte dello slancio col quale quei pionieri andarono all'assalto della vecchia fortezza del pregiudizio sociale, dell'i­deologia reazionaria, e della conservazione politica. Ed è strano sia venuta meno proprio quando le idee socialiste sono tanto progredite che nei convegni di Azio­ne cattolica e professori e preti e frati debbono mobilitarsi per porre affannose ma poco efficaci riserve alla crescente diffusione, tra le masse popolari, della con­vinzione che è necessario farla finita col regime capitalistico se si vuole dare a tut­ti gli uomini una vita degna di essere vissuta.

   Lo stesso travaglio ideologico che si manifesta nei convegni di studio clericali nonostante la cura dei dirigenti per nasconderlo, ci segnala come maturi nel po­polo la coscienza della necessità delle trasformazioni sociali per cui noi combat­tiamo. Espedienti ideologici e campagne varie di provocazione e di discordia pos­sono frenare questo processo, non arrestarlo.

   La ricerca di una via italiana al socialismo necessariamente dovrà comprendere una alleanza politica con quelle forze cattoliche che partendo dal generico spirito anticapitalistico siano giunte alla decisione di fare il necessario perché le strutture capitalistiche italiane subiscano le indispensabili profonde trasformazioni. A noi spetta renderci conto pienamente di questa necessità e non respingere le conse­guenze che ne derivano.

   Nel momento in cui, per dare un nuovo respiro ai ceti privilegiati della campa­gna e della città, gli attuali dirigenti clericali e socialdemocratici si scatenano nel­la lotta contro di noi, il nostro partito presenta a tutto il paese non solo un pro­gramma generale di radicale rinnovamento, ma concentra l'attenzione su alcuni punti essenziali, urgenti per rimuovere l'odierna stagnazione politica e risolvere alcune delle questioni decisive per il nostro progresso economico e politico.

   Tali sono:
  1) le rivendicazioni di libertà della classe operaia e le indispensabili misure atte a fronteggiare il problema della disoccupazione;
  2) l'inizio di una riforma agraria generale;
  3) l'applicazione di alcune prime riforme di struttura nell'industria, tra cui la nazionalizzazione di uno dei più pesanti e dannosi monopoli, quello dell'e­nergia elettrica;
  4) la introduzione in tutta Italia dell'ordinamento regionale;
  5) la introduzione di un sistema generale di assicurazioni sociali, tanto per ciò che riguarda le diverse forme di assistenza, quanto per ciò che riguarda la esten­sione e il livello delle pensioni.

   Mettiamo in primo piano e al centro di tutto le rivendicazioni della classe ope­raia. La classe operaia subisce oggi duramente la pressione e il colpo del padrona­to che tende a dividerla, a fiaccarla, a staccare le masse dai dirigenti più attivi, a farle perdere coscienza della sua forza rivoluzionaria. Ha dato vita a un grande movimento sindacale unitario; ha condotto energiche e indispensabili azioni po­litiche in difesa delle libertà democratiche; è riuscita a difendere e anche ad ele­vare, in parte e per alcuni settori, la retribuzione di quegli operai che lavorano. Nel complesso, però, se si prendono in esame i dati della occupazione, del rendi­mento del lavoro e quindi della sua intensità, e dall'altra parte la curva degli utili padronali e la curva dei salari, risulta un netto peggioramento della parte che tocca agli operai nel reddito complessivo del lavoro nazionale. Le cifre che lo di­mostrano sono state rese largamente popolari dagli organi dirigenti dei sindacati. Vorrei aggiungere che anche per le zone di salari più elevati, mancano tuttora seri studi sulle conseguenze del ritmo di lavoro sulla salute dell'operaio e sulla durata stessa della sua esistenza. La classe operaia è quella che ha dato di più alla lotta per la democrazia; non si può dire abbia ricevuto un adeguato migliora­mento delle sue condizioni materiali. È quindi pienamente giustificata la lotta delle organizzazioni operaie per migliori salari e stipendi, cardine di tutta l'azio­ne per una economia del lavoro.

   Quali le cause di questa situazione in cui si trova la classe operaia? Io ne sotto­lineo due. La prima è la duplice scissione sindacale, che ha reso difficili e in parte persino interrotto o condannato a stentati e scarsi successi le azioni rivendicative. La seconda è l'attacco che soprattutto nelle più grandi officine è stato condotto dal padronato contro la classe operaia, per sottoporla a un regime di pressione continua, privare gli operai dei loro diritti elementari, renderli schiavi dell'arbi­trio dei padroni e dei loro sorveglianti, perseguitare e cacciare gli elementi più coscienti; esautorare e dividere le Commissioni interne, ritornare a condizioni si­mili a quelle che esistevano quando regnava nel paese un regime di aperta rea­zione. A questo attacco gli operai hanno reagito, vi sono state iniziative naziona­li e locali degne di nota e giuste, ma una azione ben coordinata, continua, che utilizzasse tutte le possibilità della odierna democrazia, dagli scioperi economici e politici all'azione parlamentare, dobbiamo riconoscere che non vi è stata, e di questo oggi si vedono le conseguenze.

   La stessa Commissione di inchiesta parlamentare sulle condizioni dei lavorato­ri, la cui istituzione fu il risultato di azioni unitarie partite dai più grandi centri industriali, non è stata sino ad ora utilizzata nel modo dovuto e necessario. Non si tratta solo di comporre volumi e volumi che poi ammuffiscono nelle cantine del Parlamento. Fin d'ora, dai lavori compiuti, è emersa la urgente necessità che alcuni problemi più acuti siano affrontati, e risolti al più presto con misure legislative o con interventi di ordine amministrativo. Credo sarebbe compito dei sin­dacati e nostro elaborare subito, a questo scopo, le necessarie proposte e condurre attorno ad esse una forte agitazione nelle fabbriche, tale che strappi al padronato e ai governanti la restaurazione di quei diritti che sono parte di un regime demo­cratico e vitali per la forza stessa del movimento operaio.

   Alcune misure sono di estrema urgenza. Tali noi consideriamo la applicazione dei contratti di lavoro, l'esistenza e il rispetto dei diritti delle Commissioni inter­ne; una legge nuova sul collocamento che riconosca la giusta causa nei licenzia­menti; il divieto di sottoporre gli operai ad angherie, discriminazioni e rappresa­glie per motivi di opinione, e ad apparati di sorveglianza di tipo poliziesco; l'a­dozione di efficaci sanzioni contro i padroni che calpestano nella fabbrica i diritti e la dignità che la Costituzione garantisce ad ogni cittadino.

   La lotta per le libertà della classe operaia nella fabbrica è dovere elementare di tutti i democratici, parte sostanziale di ogni azione per la estensione e il raffor­zamento della democrazia. A questa lotta noi chiamiamo il nostro partito, i sin­dacati di tutte le tendenze, tutti gli operai, tutti i buoni democratici italiani.

   Molto dibattuta è stata recentemente, e anche in preparazione del nostro con­gresso, la questione della posizione della classe operaia e delle sue organizzazioni verso il progresso tecnico. Si è costatato che le tecniche della produzione sono in Italia negli ultimi tempi progredite e che a questo progresso ha corrisposto uno sviluppo delle forze produttive in determinate direzioni. Si registrano le pri­me introduzioni di macchinari automatici. Queste costatazioni sono interessanti, noi dobbiamo accoglierle e saper sempre esattamente valutare la portata delle mo­dificazioni in corso e dei progressi che si stanno compiendo. Non vi è nemmeno bisogno, credo, di soffermarsi a lungo per confutare l'opinione, che nulla ha a che fare col marxismo, che nel periodo della crisi generale del capitalismo non siano più possibili i progressi tecnici ed economici, i balzi in avanti, lo sviluppo delle forze produttive. Il marxismo dice soltanto che questi sviluppi sono legati, fino a che esiste il capitalismo e oggi in modo particolare, a contrasti antagonisti­ci e a contraddizioni nuove, spesso più gravi delle precedenti, e chiede di concen­trare su questo punto la attenzione, se non si vuole cadere in grossolani errori. Così pure non credo necessarie molte argomentazioni per respingere l'opinione, che vi fu nel movimento operaio ai suoi inizi, che gli operai debbano essere ostili al progresso tecnico, perché questo renderebbe peggiori le condizioni del lavoro. L'operaio è favorevole al progresso tecnico; apprezza il progresso tecnico come mezzo per alleviare la sua fatica; tende egli stesso al miglioramento delle tecni­che ed è amico del tecnico che lo guida, in questo miglioramento. Su queste cose non vi può essere dubbio. È stato un errore non dedicare a tempo la necessaria attenzione ai progressi tecnici che si venivano compiendo e non valutarne giusta­mente la portata. Già ci siamo impegnati seriamente nella correzione di questo errore.

   Ma quale è, in questo campo, per noi, la cosa più importante? La cosa più importante è non solo di conoscere i progressi tecnici, ma derivare da questa co­noscenza una migliore condotta delle azioni rivendicative della classe operaia nel­l'officina, categoria per categoria e nazionalmente. Lo studio deve sempre essere, per noi, premessa e preparazione dell'azione. Lo sbaglio che è stato fatto, nel nostro movimento operaio, è di non aver saputo tempestivamente impostare le lotte operaie nel modo nuovo che era imposto dalle trasformazioni che avvenivano nelle officine e che creavano nuovi tipi di rapporti salariali e disciplinari. Ora è necessario adeguarsi rapidamente alle situazioni nuove. L'errore più grave, pe­rò, per i dirigenti operai, sta nel non saper organizzare e sviluppare le azioni che si impongono per la difesa e l'aumento delle retribuzioni, per la sicurezza del lavoratore, per impedire la intensificazione dello sfruttamento, per ridurre que­sto sfruttamento ed elevare, mentre migliorano le tecniche, la condizione stessa del lavoratore. L'operaio contribuisce nel mondo più efficace al progresso tecnico non in quanto accetta passivamente qualsiasi cosa, ma in quanto sviluppa in tut­te le condizioni la sua lotta di classe rivendicativa. Questo è lo stimolo di cui tut­ta la società ha bisogno per progredire davvero, non solo nella cifra dei profitti dei grandi monopoli, ma nel livello di esistenza delle popolazioni. Solo sotto lo stimolo della lotta di classe dei lavoratori il progresso tecnico può diventare pro­gresso sociale, e questo deve essere l'obiettivo del nostro lavoro.

   È menzogna riformistica e illusione revisionistica che attraverso il puro progresso tecnico, integrato, se si vuole, da qualche istituzione paternalistica e benedetto dai cappellani di fabbrica, si superino le contraddizioni del capitalismo, si crei un utopistico regime capitalistico senza contrasti interni, si elimini la lotta di classe e si giunga al Bengodi universale. Conviene ai padroni, ai clericali e ai socialde­mocratici reazionari questa falsa dottrina. L'operaio italiano già vede che cosa ad essa corrisponda. Corrisponde una situazione in cui si tende a eliminare il sinda­cato, di qualunque tendenza esso sia, dalla contrattazione delle mercedi, a di­struggere gli organismi di fabbrica, a consegnare gli operai mani e piedi legati al padrone, dall'arbitrio del quale dovrebbero dipendere le sue condizioni di la­voro, di retribuzione e di vita. Sia nella variante socialdemocratica, sia nella va­riante dell'integralismo cattolico, questo riformismo intriso da un lato di pater­nalismi, dall'altro di arbitrio e violenza padronale, non può offrire altra prospet­tiva che il mantenimento del dominio dei grandi monopoli, il soffocamento pro­gressivo del ceto medio, un arresto del rinnovamento sociale di cui ha bisogno l'Italia.

   Ciò che non dobbiamo dimenticare è che esiste un problema generale dello sviluppo tecnico di tutta la economia nazionale, che è ben lungi dall'essere af­frontato. Per avere un paese tecnicamente sviluppato, prima di tutto bisogna far scomparire la disoccupazione e rendere utilizzabile tutta la forza lavoro, compre­sa quella femminile. Il cosiddetto «schema» Vanoni si dice fosse stato concepito a questo scopo. Oggi però non si sa dove sia finito. Scelba dice averlo già at­tuato lui. Pella se ne vuol disfare. Segni si propone di salvarne una briciola, uno stralcio. Bene ha fatto il movimento sindacale unitario a non chiudersi in una pura negazione di fronte a quella proposta, confermando che esso vuole avere e affermare una sua politica economica di governo, oltre che una attività rivendi­cativa. Ma sia ben chiaro che la disoccupazione non si può far sparire e il progres­so sociale non si garantisce con un blocco dichiarato o larvato dei salari, con l'in­vito a produrre di più e consumare di meno. Al contrario, il punto di partenza deve essere la elevazione del livello di esistenza, e quindi una estensione del mer­cato interno, la riforma agraria, la industrializzazione del Mezzogiorno e di gran­di città come Roma e così via. Ma questo non si ottiene se non si adottano efficaci misure per limitare il potere economico dei monopoli, se non si affrontano le indispensabili riforme di struttura. Noi proponiamo che si cominci dalla nazio­nalizzazione dei monopoli elettrici, il che consentirà, con una nuova politica dei prezzi dell'energia, di rompere alcune delle catene che ostacolano lo sviluppo eco­nomico delle cosiddette regioni arretrate.

   Per la disoccupazione, la nostra proposta è che si ponga subito allo studio una riduzione generale, anche se non ancora totale, dell'orario di lavoro, sino alle 40 ore settimanali, senza riduzione del salario. L'esperienza ha dimostrato che la riforma è resa possibile dallo stesso attuale progresso delle tecniche, ma solo un intervento dello stato può attuarla. Una massa ingente di disoccupati sarebbe così in breve tempo assorbita nei posti di lavoro che si creerebbero e sarebbe un primo passo in avanti. La introduzione generale dei processi di lavoro automati­co, che può essere una prospettiva vicina, rende invece attuale il pericolo che in modo disordinato e febbrile la disoccupazione aumenti, per l'afflusso di sempre nuovi gruppi di licenziati. Senza voler ora approfondire questo tema, penso che la conclusione cui si dovrà arrivare è di un intervento crescente dello stato nel campo economico, per impedire queste conseguenze, che potrebbero essere disa­strose. Spetta ai sindacati investirsi sin d'ora con serietà della questione, come già sta avvenendo in altri paesi.

   Salutiamo il fatto che nelle campagne la lotta delle masse contadine per una riforma agraria generale, che consenta di dare la terra a chi la lavora partendo dal limite generale della proprietà fondiaria, si sta vivacemente riprendendo, tanto nel Nord quanto nel Mezzogiorno. Sarà compito del congresso elaborare con pre­cisione, per i diversi attuali tipi di struttura fondiaria e di conduzione, la linea di sviluppo di queste lotte. Esse devono estendersi a tutte le regioni. La difesa della giusta causa permanente contro la proposta di soppressione sostenuta dai democristiani e dai socialdemocratici, sarà energicamente condotta nel Parlamento, ma per avere successo dovrà essere sostenuta da un movimento di masse contadi­ne che superi i limiti toccati finora e abbia un carattere unitario, per l'adesione di coloni e mezzadri di tutte le opinioni e di tutte le correnti.

   Nel campo politico, la nostra lotta per la libertà, contro le violazioni della Co­stituzione, contro il regime delle discriminazioni, contro l'accentramento buro­cratico e la corruzione che sono caratteristici del monopolio clericale, deve oggi metter capo alla rivendicazione di riforme effettive della struttura politica. Prin­cipale e immediata tra di esse è la introduzione generale dell'ordinamento regio­nale, con la conseguente soppressione dell'istituto dei prefetti e un ampio svi­luppo delle autonomie degli enti locali. È del tutto inammissibile che a questa nostra proposta un ministro osi rispondere che la riforma non è da farsi, perché nuocerebbe al partito dominante. Questa riforma di struttura non è promessa, ma tassativamente disposta dalla Costituzione. Un ministro che osa, di fronte al disposto costituzionale, parlare in quel modo, dovrebbe poter essere tradotto da­vanti a un tribunale. Né è escluso che, prendendo come punto di partenza le decisioni della Corte costituzionale, noi solleviamo davanti al Parlamento la que­stione delle responsabilità anche penali dei ministri che per anni e anni hanno fatto strame delle leggi, consapevolmente calpestando e disprezzando la Carta costituzionale.


6. Per l'unità della classe operaia


Esistono oggi le forze capaci di imporre l'attuazione di un simile sia pur limi­tato programma democratico? Ripeto che è da prevedere un periodo di lotte du­re. I dirigenti gli attuali partiti di governo sono nella maggioranza orientati, nel migliore dei casi, per prolungare l'attuale stagnazione, quelli della Democrazia cristiana per rendere più duro il loro monopolio politico, quelli dei partiti di de­stra per spingere verso una reazione accentuata. La famigerata triplice alleanza del grande capitale industriale e agrario reclama l'incontrollata direzione di tutto il paese. Le possibilità di una efficace azione che parta da contatti e accordi ai vertici sono assai limitate, fino a che non intervenga qualche elemento nuovo. È stato un errore, in particolare, ci sembra, dei compagni socialisti, ma in parte anche nostro, concepire la «apertura a sinistra» quasi solo come il possibile ri­sultato di una manovra ai vertici. I contatti ai vertici sono possibili e fecondi nella misura in cui ha successo la conquista della opinione pubblica a un preciso pro­gramma, e nella misura in cui si conducono lotte efficaci della classe operaia e della parte avanzata del popolo per rivendicazioni economiche e politiche vitali e per le necessarie più profonde riforme. Questo è anche oggi l'elemento che è necessario far intervenire, e in misura molto ampia, se si vuole uscire dalla sta­gnazione, respingere le nuove minacce reazionarie, spezzare il monopolio demo­cristiano, creare una situazione politica nuova.

   Respingiamo quindi anche quella concezione, tessuta di pessimismo e di mira­colismo assieme, per cui, mentre da un lato si considera quasi perduta la possibi­lità di nuovi sviluppi progressivi della democrazia italiana, si pensa poi che sareb­be sufficiente ad arrovesciare la situazione un accostamento di forze politiche, quale potrebbe essere la unificazione del partito socialista e socialdemocratico, indipendentemente dal modo come questa unificazione venga preparata e si com­pia. Così pure respingiamo la posizione di coloro i quali, considerate le attuali difficoltà di tutto il movimento sindacale di fronte alla testarda resistenza e al­l'attacco del padronato reazionario, ritenessero che la soluzione del problema della unità sindacale sia una condizione senza la quale l'azione rivendicativa e la difesa delle libertà operaie non possano più condursi.

   Al centro di tutto poniamo il movimento delle masse, le lotte della classe ope­raia, dei contadini, del ceto medio produttore, della maggioranza della popola­zione per le loro rivendicazioni economiche, di libertà e di pace. L'unità dei la­voratori è lo strumento più efficace per la organizzazione e il successo di questo movimento e di queste lotte. Per questo bisogna volerla, difenderla, estenderla, non permettere che venga spezzata.

   Siamo dunque senza riserve favorevoli alla ricostituzione di una grande orga­nizzazione sindacale democratica unitaria, che raccolga e opponga al padronato tutte le forze del lavoro italiano, al di fuori di qualsiasi influenza dei partiti e dei governi, al di sopra di ogni diversità di ideologie, di posizioni politiche ed escludendo qualsiasi discriminazione di qualsiasi natura. Approviamo le posizio­ni che i nostri compagni dirigenti sindacali hanno preso per sollecitare il ritorno a una siffatta grande organizzazione unitaria. Questo ritorno non deve servire né a favorire noi, né alcun'altra corrente sindacale o politica. Deve permettere di realizzare nuove grandi conquiste operaie, come fu quella della scala mobile. Deve dare agli operai una nuova e più elevata coscienza della loro forza e della funzione di guida che loro spetta nel campo della democrazia e del progresso.

   Per quanto riguarda il campo politico, noi siamo partiti, dopo il XX Congres­so, dalla costatazione delle nuove condizioni che sollecitano e rendono possibili nuovi progressi dell'unità della classe operaia e di tutte quelle forze organizzate che si richiamano ai principi socialisti. Queste condizioni permangono, nonostante l'attuale offensiva reazionaria dei capi socialdemocratici per nasconderle e distrug­gerle e quindi perpetuare la scissione. La spinta verso la riunificazione socialista in Italia fornisce la prova di questa permanenza.

   Esistono da noi due partiti che si richiamano alla classe operaia e ai principi del socialismo, il nostro e il Partito socialista italiano. Questi due partiti hanno raggiunto da più di venti anni la comprensione, l'intesa reciproca e una stretta collaborazione. Questa conquista è entrata nella coscienza delle masse lavoratrici delle officine e dei campi, e vi è entrata molto profondamente, perché è stata fatta l'esperienza che essa ha contribuito in modo decisivo a tutti i successi ripor­tati dalla classe operaia e dal popolo nelle loro lotte. Le forme della collaborazio­ne sono state diverse nei diversi periodi. Esse non possono non cambiare a secon­da delle circostanze. È quindi errato qualificare senz'altro come «frontismo» la unità nell'azione di questi due partiti. La organizzazione di un fronte elettora­le unito, come si ebbe nel 1948, non fu che una di queste forme, ma subito dopo che il Partito socialista ebbe superato, anche col nostro fraterno aiuto, la crisi pro­vocata dalla scissione socialdemocratica e dai successivi risultati elettorali, non vi fu più alcun «frontismo», ma una collaborazione che non solo ammetteva, ma supponeva piena reciproca autonomia, come risultò dalla diversità delle posizio­ni nostre e dei socialisti su molte questioni. Noi non abbiamo mai visto con ma­lanimo questa diversità. Essendo concordi negli obiettivi di fondo e nel metodo della lotta democratica, la nostra collaborazione unitaria si realizza, nei decisivi movimenti politici e di classe, anche al di fuori dei patti scritti. Questo è ciò che deve rimanere, così come crediamo debba rimanere, tra due partiti come il no­stro e quello socialista, un rapporto di fraternità, di contatto reciproco tutte le volte che sia necessario, di collaborazione negli organismi di massa a cui parteci­piamo e di unità nelle lotte contro i comuni avversari, che sono i nemici della classe operaia, della democrazia e del socialismo. Tutto ciò non esclude, anzi ha come sua condizione l'autonomia e la fraterna critica reciproca.

   Anche il partito socialdemocratico è uscito dal tronco del vecchio movimento socialista, ma da quando esiste è stato sempre ostile alla unità delle forze di classe e schierato nel fronte della difesa del capitalismo, dell'oltranzismo atlantico, della discriminazione antidemocratica, della provocazione anticomunista, della rissa ideo­logica e politica. La socialdemocrazia italiana è la peggiore delle socialdemocra­zie europee. In questo giudizio credo che i compagni socialisti non possono non essere concordi con noi. Da questo si deve obbligatoriamente concludere che il superamento della scissione socialdemocratica dovrebbe accompagnarsi, per esse­re un fatto positivo, al superamento o per lo meno a un inizio di superamento delle posizioni politiche sulle quali si schierò in Italia la socialdemocrazia, dalla scissione sino ad oggi, sino al blocco con i governi della restaurazione capitalistica e delle fucilate contro i lavoratori, sino alla legge truffa, alla partecipazione al governo Scelba, all'opposizione alla elezione dell'attuale Presidente della Repub­blica. Soprattutto dovrebbe accompagnarsi a un superamento del preconcetto e volgare anticomunismo, pretesto e maschera di tutta l'azione scissionistica.

   Noi non vediamo oggi le condizioni per la creazione di un unico partito dei lavoratori italiani, di ispirazione socialista, ma non escludiamo che queste condi­zioni si possano creare, lavoreremo perché si creino e quando esisteranno non fa­remo ostacolo a questa più larga unità. Ma se oggi le posizioni della socialdemo­crazia dovessero essere mantenute, prevalere, ispirare il nuovo Partito socialista riunificato, tutto il processo sarebbe negativo ai fini di una lotta più efficace con­tro il capitalismo e per il socialismo. Non si tratterebbe più, in questo caso, di un processo unitario. Si chiamerebbe riunificazione la distruzione di quel grado di unità che già è stata conquistata ed esiste. Il movimento operaio ne soffrireb­be, sarebbe gettato per un certo tempo nella confusione. Il vantaggio andrebbe alle forze reazionarie. Favorevoli alla riunificazione socialista noi abbiamo quin­di dichiarato di essere sin dal primo momento, ma ad una riunificazione che si inserisca in un processo unitario e lo sviluppi in forme nuove, non ad una opera­zione di opposto contenuto.

   Si ha anche motivo di essere preoccupati - ci consentano i compagni socialisti questa amichevole critica - perché sin dall'inizio non è risultato chiaro che la riunificazione non potrà significare che il Partito socialista accetti le posizioni po­litiche socialdemocratiche, dall'anticomunismo e antisovietismo a tutto il resto che ben conosciamo. Né si tratta solo di non condannare e respingere la politica fatta sinora dai socialisti, che fu una politica giusta e si è visto quanto accrebbe il prestigio e la forza sia dei socialisti che di tutto il movimento operaio. Le que­stioni che si posero nel passato si ripresentano già oggi e si ripresenteranno doma­ni. Nel nuovo clima di guerra fredda che oggi tende a regnare, nuove lotte saran­no da condurre, con lo slancio del passato e con obiettivi non molto diversi. I capi socialdemocratici già sono schierati dalla parte opposta a quella dove si de­vono schierare le forze della pace e del progresso. Ci sembra assurdo pensare che la riunificazione socialista possa significare che le ingenti forze di operai e di la­voratori che seguono il partito socialista si raccolgano su queste posizioni. Ed in­vece è questo che sembrano credere i dirigenti socialdemocratici, fatti baldanzosi da errori che essi hanno saputo sfruttare e sostenuti da tutto il fronte dei nemici del socialismo.

   Noi non vogliamo, né in questo momento né poi, allontanarci dai compagni socialisti. Le nostre critiche non hanno questo significato, così come non espri­mono il proposito di intervenire nelle questioni interne del loro partito. Consi­deriamo però interesse comune sia dei socialisti che nostro la difesa della causa dell'unità e la lotta contro quella ideologia e quella politica della socialdemocra­zia di destra, a cui sono dovute le più gravi sconfitte del movimento operaio dal 1914 sino ad oggi.

   Per difendere i suoi interessi e andare avanti verso il socialismo la classe operaia deve unire le sue forze, non dividerle. Isolare la parte più avanzata degli operai, i comunisti, vuol dire condannare tutta la massa operaia alla scissione interiore, al disorientamento, alla confusione. Ciò è tanto più vero da noi, date la forza, le tradizioni, la compattezza e il prestigio del nostro partito.

   Difendendo e rafforzando la propria unità la classe operaia non si chiude in se stessa, non si isola dal resto delle forze democratiche e progressive, anzi, crea migliori condizioni per il contatto e la collaborazione con queste forze, perché acquista la capacità di combattere con successo non solo per i suoi interessi im­mediati, ma per un programma generale di rinnovamento. Solo in questo modo si creano le condizioni favorevoli a che la classe operaia e i lavoratori entrino nella direzione del governo e dello Stato, e in questa diventino, come devono essere, la forza predominante. Questo è il punto di partenza e il valore della parola d'or­dine della formazione di un governo democratico delle classi lavoratrici, che noi lanciamo da questo nostro congresso.

   Poniamo con questa parola d'ordine un obiettivo che consideriamo concreto, realizzabile, un governo che sia l'espressione di un ampio sistema di accordi e alleanze politiche, i quali abbraccino la grande maggioranza della popolazione lavoratrice, le organizzazioni sindacali e politiche che la rappresentano. Gli aspetti che potrebbe assumere la base parlamentare di un simile governo non sono da discutersi ora, anche perché siamo di fronte a un Parlamento che se non ha esau­rito ancora il suo mandato, sembra però avere esaurito le sue possibilità politiche rinnovatrici. L'obiettivo che noi poniamo è la forma concreta di quella svolta ver­so il rinnovamento del ceto dirigente e l'avvento dei lavoratori alla direzione del paese, di cui tanto si è parlato e si parla.

   Chiaro è il programma, chiara l'azione che dovrebbero essere di questo governo.

   Un governo democratico delle classi lavoratrici deve essere un governo di pace, di distensione internazionale e di distensione all'interno, di difesa gelosa della nostra indipendenza.

   Deve essere un governo che applichi e difenda la Costituzione in tutte le sue parti, che restauri le libertà sindacali e il rispetto della dignità dei lavoratori sul luogo del lavoro.

   Deve essere un governo che attui quella economia del lavoro di cui si è parlato nel recente congresso confederale.

   Deve essere il governo della riforma agraria generale: il governo che faccia scom­parire la disoccupazione, che conduca una grande lotta contro la miseria, che in­troduca un moderno sistema di assicurazioni sociali per gli uomini e per le don­ne, che inizi la attuazione delle urgenti riforme di struttura.

   Deve essere un governo che ponga fine a tutte le discriminazioni, che nell'am­bito della democrazia politica sottoponga a un controllo i grandi monopoli indu­striali e finanziari privati e distrugga il loro attuale predominio.

   Deve essere un governo che si appoggi sulle grandi organizzazioni di massa degli operai, dei contadini, degli artigiani, degli impiegati, dei giovani, di tutti i lavoratori.

   Deve essere un governo attorno al quale si raccolgano fiduciosi gli uomini del lavoro, i diseredati, la gente sinora oppressa e povera.

   Deve essere un governo che, applicando la Costituzione repubblicana, apra la strada al rinnovamento socialista della società nazionale.


7. Rinnovare e rafforzare il partito


Le questioni più direttamente legate all'attività e alla vita del partito debbono essere tutte considerate, partendo dalla costatazione che noi siamo in Italia, nel campo della democrazia e del movimento operaio, la forza più importante. Questo non solo per le adesioni numeriche ed elettorali, ma per il prestigio del nostro pensiero e della nostra azione, con i quali spesso, pur essendo alla opposi­zione, abbiamo orientato settori importanti della politica nazionale. È un merito che ci riconoscono anche i nostri avversari e nemici, con la stessa rumorosa agita­zione che conducono contro di noi. Di qui deriva la nostra grande responsabilità. I tentativi di staccarci dalle masse fondamentali del popolo, dagli operai, dalle popolazioni povere del Mezzogiorno, da tutti coloro che sono oppressi da più misere condizioni di esistenza e da quella parte del ceto medio lavoratore che più sente le esigenze di un rinnovamento economico, non hanno avuto risultato. Indebolimenti parziali delle nostre posizioni qua e là vi sono stati, anche nelle fabbriche, ma sono lungi dal potersi considerare indici di una situazione che non si possa correggere con un intenso lavoro. Al contrario, proprio nelle ultime setti­mane, agli attacchi sfrenati del nemico ha risposto un caldo stringersi attorno a noi di quella parte delle masse operaie e popolari in cui la coscienza di classe è più sviluppata e più sveglia.

   È comune e giusta nostra convinzione che questa nostra forza, oltre che la con­seguenza, com'è naturale, di tutta la azione da noi condotta in seno al movimen­to operaio, delle lotte combattute con eroismo e spirito di sacrificio per più di trent'anni, con una fondamentale coerenza rivoluzionaria, sia strettamente lega­ta al carattere che abbiamo voluto dare al nostro partito dal 1945 in poi. Questo carattere già era, come allora dicemmo, una cosa nuova. Comprendeva l'abban­dono totale delle vecchie posizioni settarie; la critica della concezione del partito come ristretto gruppo di eletti, organizzati quasi militarmente; lo slancio nel re­clutamento; nuove forme di organizzazione e di lavoro. Comprendeva soprattut­to lo sforzo continuo per avere un legame solido con tutti gli strati popolari allo scopo di poter affrontare e lottare sul terreno democratico per la soluzione di tut­te le questioni che interessano la popolazione lavoratrice e che sono essenziali per poter guidare la classe operaia e il popolo a una lotta conseguente per la demo­crazia e il socialismo. Questa concezione del partito, del tutto chiara per noi, e perspicuamente espressa nei nostri documenti fondamentali, è certamente stata accolta dai compagni ed è penetrata in loro. Sbaglieremmo però se dicessimo che alla applicazione di essa in tutti i campi della nostra attività non vi siano state resistenze e riserve, che questa applicazione non abbia quindi avuto dei limiti, spesso anche seri, e che di qui non sia venuta una riduzione della nostra efficien­za politica. Quando abbiamo parlato di una certa «doppiezza» nella condotta complessiva del nostro partito siamo partiti dalla considerazione di queste resi­stenze e di questi limiti, e degli errori che ne sono derivati. L'espressione forse non fu felice, perché sembra contenga una critica di ordine morale. È però certo che determinati errori, costantemente ripetuti negli stessi campi di lavoro, non potevano non dare la impressione di una divergenza non manifestata, ma esi­stente, circa gli orientamenti del partito.

   Prendiamo, ad esempio, come uno dei momenti caratteristici dei nostri indi­rizzi politici e di organizzazione, le questioni relative al movimento femminile. Sin dall'inizio, dodici anni fa, fu detto che il compito, in Italia, sta nel lottare per la emancipazione della donna, che questa è una delle questioni centrali della democrazia e dell'avanzata verso il socialismo, che dobbiamo quindi dare opera allo sviluppo di un grande movimento femminile democratico autonomo, il cui obiettivo sia la emancipazione femminile. Di qui la necessità di una particolare attenzione a tutti i problemi femminili, al reclutamento delle donne nel partito e nei sindacati, alla loro organizzazione, allo studio delle questioni che le inte­ressano, alla formazione e promozione di quadri femminili. Si è certamente an­dati avanti per questa strada, ma con quale stento! Si è stati costretti a confutare cento volte posizioni errate, come quella che nega la esistenza di un problema specifico femminile, che pensa le donne siano da muoversi solo come forza ausi­liaria delle altre lotte sindacali o politiche. Si è dovuta combattere nel partito stesso la persistenza di pregiudizi reazionari e persino la negazione pura e sem­plice che una organizzazione femminile di massa debba esistere e abbia compiti specifici suoi. Viene fuori la visione di un partito che approva le cose giuste, ma una parte di esso non le fa, anzi, fa delle cose sbagliate. È soltanto trascuratezza e incapacità, o è assenza, anche se non dichiarata, di adesione a una linea politica?

   Il criterio della adesione a una linea politica non sono le parole, è il lavoro per attuarla. Noi abbiamo sempre posto al centro della nostra politica la rivendica­zione e la difesa delle autonomie locali. Sono numerosissime e di estrema impor­tanza le questioni immediate, vitali e urgenti per le popolazioni più bisognose, che si risolvono con l'attività delle amministrazioni locali. Tutto il partito accetta questa posizione e ne è certamente convinto. Come si spiega allora che tanta par­te del partito si accorga della importanza delle questioni amministrative solo quando c'è una consultazione elettorale, e quindi si perdano posizioni che si erano con­quistate, oppure non si conquistino quelle che si sarebbero potute strappare al nemico?

   L'importanza che noi diamo al Parlamento in tutta la nostra strategia e tattica politica è nota da tempo e approvata da tutti. Ma il modo come utilizziamo il Parlamento, fatta eccezione per alcune battaglie drammatiche e decisive, non è all'altezza di questa linea politica. Il complesso del partito non comprende giu­stamente e non dà il necessario valore al lavoro parlamentare. Gli stessi organi centrali non sono sempre riusciti a organizzare una direzione efficace. Speriamo che la recentissima risoluzione dei gruppi parlamentari, circa i compiti del Parla­mento stesso e dei nostri parlamentari, sia l'inizio di una energica correzione.

   Tutti conoscono come in ogni nostra assemblea, sia al centro che alla periferia, si sottolinei la necessità del lavoro nostro nella direzione di strati sociali lontani dalla classe operaia e di gruppi di lavoratori ancora a noi ostili. Le iniziative atte a soddisfare questa necessità sono state molteplici, spesso buone e feconde di ri­sultati, verso le popolazioni della montagna, per esempio, verso artigiani, impie­gati, funzionari, pensionati, reduci di guerra e così via. Non si sfugge però alla frammentarietà e discontinuità del lavoro. Trascurata in modo quasi generale l'at­tività verso i piccoli coltivatori, i quali invece hanno oggi bisogno particolarmen­te di una guida che li sottragga al clericalismo e all'affarismo, i quali considerano questa categoria come loro terreno di caccia riservata. Così per ciò che riguarda le masse lavoratrici cattoliche, tra le quali appaiono continuamente i segni della ricerca di nuove vie di lotta contro l'ordinamento attuale, molto si scrive e si par­la del necessario dialogo, ma il lavoro per l'avvicinamento ad esse e per la loro conquista è troppo limitato e discontinuo. Eppure, dappertutto dove lo si è fat­to, i risultati sono stati importanti.

   Ma anche per stabilire, estendere, rafforzare e difendere i legami del partito con la classe operaia, forse che non costatiamo anche in questo, che dovrebbe essere il campo principale del nostro lavoro, deficienze serie, non viste e non cor­rette a tempo, e per questo destinate a manifestarsi in modo spiacevole nelle con­sultazioni di fabbrica? Il fronte del lavoro nelle fabbriche è il principale fronte del partito. Ed è un fronte molteplice. Le agitazioni e lotte sindacali non lo esau­riscono. Queste lotte sono spesso molto dure, oggi; non danno sempre i risultati sperati. La propaganda, l'agitazione, l'organizzazione del partito debbono inter­venire per superare le durezze, non solo, ma per riuscire a far sì che da ogni lotta, anche se non coronata da pieno successo, possa uscire un consolidamento della coscienza di classe degli operai, una più decisa volontà, in loro, di organizzarsi, di unirsi, di opporre agli sfruttatori un fronte più compatto e una azione più efficace. Ogni organizzazione di partito deve saper essere sempre presente tra gli operai, deve avere un piano di lavoro preciso per l'adempimento di questo compito e per la direzione delle lotte operaie.

   Altri momenti del nostro lavoro, di maggiore o minore rilievo, potrebbero es­sere sottoposti a critica, anche vivace, e certamente lo saranno nel corso dei lavori del congresso. Ma quando parliamo di un congresso che deve rafforzare e rinno­vare il partito, e poniamo l'accento su questi due compiti, collegando stretta­mente il primo al secondo, intendiamo noi soltanto dire che si deve estendere la critica e l'autocritica, sino a scoprire tutti i difetti e chiedere al partito di cor­reggerli? No, non intendiamo soltanto dire questo. La IV Conferenza nazionale, la quale, come ricordate, fu preparata con la stessa ampiezza di un Congresso, anche se non ne ebbe il valore, fu tutt'altro che parca nelle critiche. Le criti­che che essa fece e le soluzioni che indicò, spesso con energia e precisione, riman­gono nella maggior parte giuste, ma rimangono anche in gran parte non applica­te. La critica molteplice di tutti gli aspetti del nostro lavoro deve essere fatta e sarà fatta anche qui. Quando però parliamo di un rinnovamento, è evidente che intendiamo qualche cosa di più.

   Per comprenderlo, non è male riferirsi alle vicende degli ultimi anni. Dopo il grande successo riportato contro le legge truffa, si apriva al paese e a noi una situazione nuova. Non si può dire che nel centro del partito ciò non sia stato com­preso. Ci si riferisca anche solo alle nostre deliberazioni del mese di ottobre del 1953. Si richiedeva in esse che il partito, forte della vittoria conseguita, si gettas­se con impeto in una attività multiforme, ampia, verso tutte le categorie della popolazione lavoratrice, facendo leva sui loro interessi immediati e sulla necessi­tà, generalmente sentita, di una politica nuova, di profonde riforme. Al partito non mancò l'orientamento; mancò lo slancio nella attuazione di questa politica. Mancò forse anche, qua e là o in qualcuno, la convinzione profonda che questa politica fosse giusta. Di qui una palese incertezza, cui si sommò il ritardo nella valutazione dei mutamenti che allora avvenivano nella economia e negli indiriz­zi politici altrui. Il periodo del governo Scelba fu pieno di iniziative e lotte di grande importanza e si chiuse con un successo delle forze democratiche e nostro. Non si può però negare che dopo il 1953 il complesso della nostra iniziativa poli­tica fu più limitato e il partito si chiuse alquanto in se stesso.

   Da questa critica risulta bene che cosa è il rinnovamento che oggi chiediamo. Il fronte del rinnovamento del partito è essenzialmente un fronte rivolto verso l'esterno, che investe l'attività politica del partito e il suo modo di lavorare. Non vuol essere, dunque, un semplice colpo di frusta. Sta prima di tutto nella più compiuta e migliore elaborazione della nostra piattaforma politica, quale discen­de dalla ricerca più approfondita di una via italiana al socialismo. Sta nella più ricca analisi delle forze motrici del rinnovamento democratico e della rivoluzione socialista. Sta nella più ampia e libera ricerca degli alleati della classe operaia nel­la lotta contro il potere dei grandi monopoli. Sta nella definizione delle riforme di struttura che rivendichiamo, del loro valore e del modo di strapparle. Sta nel posto di primo piano che ancora una volta diamo alla riforma agraria generale per cui combatte la classe operaia e combattono i contadini. Sta nella migliore comprensione del metodo democratico della nostra azione, del valore che ha la conquista della democrazia nella avanzata verso il socialismo.

   Al centro dell'opera di rinnovamento del partito sta dunque la lotta per la li­nea del partito e per una via italiana al socialismo. Che cosa ci può impedire di procedere per questa via? Due ostacoli principali: il settarismo massimalistico e il revisionismo riformistico. Il primo si chiude in sé, nell'attesa del gran giorno. Il secondo piega i ginocchi davanti al capitalismo, nell'attesa che da sé diventi socialismo. Entrambi rinunciano all'azione rivoluzionaria per la conquista del so­cialismo. Del secondo si è sentita qualche influenza, in alcuni compagni nostri, nella valutazione delle cose nuove che oggi vi sono nel mondo. Il primo è più profondamente radicato nelle nostre file, per il passato stesso e per le vecchie tra­dizioni del nostro movimento. In seno alla classe operaia il danno che il riformi­smo può fare è il più grave, perché spegne lo slancio rivoluzionario e induce alla passività. Ma non potrà efficacemente combattere contro il riformismo un partito che sia chiuso in sé, settario, che non sia pienamente convinto della giustezza della sua linea politica, che non combatta per attuarla. La lotta per rimuovere l'uno di questi ostacoli si intreccia dunque con l'altra e la condiziona. La ricerca del modo come essa si presenta e deve condursi è quindi da legarsi con la giusta conoscenza dei compiti del partito e con l'attuazione di essi. Questo legame non è stato messo giustamente in rilievo in tutti i recenti congressi di federazione e questo è stato, dove è avvenuto, un serio difetto.

   Si comprende, da tutto ciò che ho detto, il grande rilievo che assumono le que­stioni della vita interna e del funzionamento del partito. La parziale incapacità di realizzazione di una giusta politica e quella certa tendenza alla chiusura setta­ria, che ho denunciato, si esprimono infatti, nell'interno del partito, col manife­starsi di un irrigidimento burocratico, con la restrizione delle forme di attività e di vita democratica. Si comprende quindi come debba concentrarsi il fuoco in questa direzione, se si vuole accrescere tutta la capacità politica e di lavoro del partito. Questo diventa, perciò, nel partito stesso, il compito principale.

   Poste davanti al partito e al movimento operaio le gravi questioni sollevate dalle denunce e dalle conclusioni del XX Congresso, queste non potevano non intrec­ciarsi con le questioni più specificamente nostre, e la necessità di un rinnovamen­to emergeva in tutta la sua portata.

   Il dibattito che ha preceduto il congresso è già stato un grande fatto nuovo, che noi giudichiamo altamente positivo. Attraverso di esso il partito ha veduto quali sono i pericoli che lo minacciano, la penetrazione nelle sue file, sotto l'ap­parenza di non conformismo, di una effettiva conformità con le posizioni false e calunniose del nemico; l'affiorare di qualche opinione revisionistica; qualche tendenza al disfattismo irresponsabile, al distacco dai nostri principi, alla svalu­tazione del grande capitale di idee e di lavoro che è la nostra ricchezza. A questi pericoli il partito bene ha reagito respingendoli, e si è unito tutto, nella ricerca delle vie del suo rinnovamento. La discussione è stata libera ed ampia, quale in nessun partito da tempo non si vedeva.

   Non è vero che sia stata negativa la partecipazione dei compagni intellettuali, o che in essi siano state più grandi le perplessità e le amarezze che determinate denunce e fatti recenti non potevano non provocare. Vi è stata in alcuni di loro una maggiore irrequietezza e tendenza alla indisciplina frazionistica, poi supera­te. È risultata invece la necessità che i compagni intellettuali siano portati a più stretto contatto con tutta la vita del partito nelle sue istanze normali e diano a questa vita un maggiore contributo sempre, e non soltanto nella grande occasio­ne delle discussioni.

   I compagni francesi ci hanno rivolto una amichevole critica, perché noi avrem­mo fatto concessioni non necessarie e non giuste a chi prendeva posizioni sbaglia­te. Noi non abbiamo fatto nessuna concessione. Ci siamo resi conto della gravità dei problemi che venivano sollevati, abbiamo condannato e fatto condannare gli atti di frazionismo e indisciplina da quelli stessi che li avevano compiuti, e con coloro che erano in disaccordo abbiamo liberamente discusso, per convincerli e averli con noi su una giusta posizione politica. Il risultato è stato, sinora, positi­vo, e il metodo è stato giusto, perché è il normale metodo di direzione di un partito che vuole fondare sul ragionato e consapevole consenso, e non solo sulla obbedienza, la unità e la compattezza delle sue file.

   La circolazione delle idee, in tutto il partito, deve compiersi in due direzioni, dall'alto verso il basso e dal basso verso l'alto. Non si può pretendere che le idee, i suggerimenti, le proposte che vengono dal basso, si presentino senz'altro con una elaborazione perfetta e siano sempre del tutto giuste. A elaborarle e ricavare da esse tutto ciò che è necessario serve appunto la discussione. Il modo come noi ci siamo comportati è stato anche dettato dalla consapevolezza che questa forma di circolazione delle idee è nelle nostre file ancora assai manchevole, nonostante tutte le cose che si sono dette e le decisioni che si sono prese per stimolarla. Se i compagni non vengono conquistati saldamente alla convinzione che la politica del partito è giusta, male essi lavoreranno per l'attuazione di essa. Il richiamo alla democrazia interna e la lotta per liquidare le artificiali sue limitazioni è quindi richiamo a una migliore efficienza politica, alla maggiore attività continua del maggior numero di compagni e quindi al migliore adempimento di tutti i nostri compiti.

   Per questo l'azione per il nostro rinnovamento è di tale importanza. Da essa dipende che andiamo avanti e andiamo avanti bene, anche nelle circostanze più dure.

   Si scartino le scorie che qua e là, ad opera di compagni meno esperti, sono venute alla luce e che soltanto possono fare ostacolo all'azione rinnovatrice. Tali io considero certe posizioni, che si introducono come un contrabbando quando si dibattono le questioni della nostra vita interna e della circolazione delle idee nelle nostre file. Tale è, prima di tutto, il frazionismo, la violazione dei principi disciplinari e di quella unità del partito, che è la base della sua forza e si mantie­ne rispettando le norme del centralismo democratico, quale il nostro statuto le definisce. Tale è la richiesta che si organizzino nel partito delle tendenze, cosa che non favorirebbe, ma ostacolerebbe la circolazione delle idee e ridurrebbe la vita democratica a forme inammissibili di parlamentarismo deteriore. Tali sono i residui, forse inconsapevoli, di metodi di direzione profondamente errati, che si esprimono, per esempio, nella caporalesca richiesta che ogni quadro il quale faccia un errore senz'altro debba cacciarsi dal lavoro, qualunque siano le sue ca­pacità. Non è così che si forma un ricco quadro di partito, ma dopo la critica aiutando i compagni a correggersi, a migliorarsi, a trovare la loro unità nella lotta per la nostra politica. Tale è anche la inammissibile astiosità contro i quadri che si dedicano al lavoro del partito completamente, con generoso sacrificio di se stessi. Liberiamoci, senza esitazione alcuna, da questo contrabbando.

   A proposito della segretezza del voto per la elezione degli organi dirigenti, troppo chiasso ci fanno le gazzette. Questa segretezza è sempre stata garantita dal nostro statuto, non appena la si richieda, e lo sarà anche qui. Si ricordi però che non è in questo modo di votare o in un altro che sta la garanzia della democrazia di partito, ma in tutto il modo come il partito funziona. Nel vecchio partito sociali­sta, gli schieramenti tra le varie tendenze ai congressi si fecero sempre con voto palese.

   Noi non siamo un partito di discussori, ma un partito rivoluzionario, creato per l'azione, per il combattimento. Siamo il partito di una classe oggi sfruttata e oppressa, che per liberarsi ha bisogno di una guida solida, energica, unita. Sia­mo un partito che deve assolvere compiti sempre nuovi e sempre più vasti, via via che il movimento si sviluppa. Per questo dobbiamo avere una organizzazione sempre efficiente e dobbiamo mantenerla tale con un quadro intelligente e capa­ce di militanti rivoluzionari. Si faccia avanti una nuova leva di questi militanti, venga dalle officine, dai campi, dalle scuole, per contribuire al rinnovamento che noi vogliamo. Si riducano, ove necessario, gli apparati di direzione, si attraggano alla direzione politica e pratica operai e lavoratori attivi nella produzione. Si sem­plifichi il lavoro per renderlo più efficace. Si studi di più, ma si lavori e si com­batta nel popolo e alla testa del popolo. La lotta per la democrazia e per il sociali­smo non può essere condotta alla vittoria che da un partito attivo e democratico, di lavoratori e di combattenti.

   In questo modo tutti i compiti confluiscono, la migliore conquista della nostra dottrina, la ricerca ideale e pratica, la conoscenza del nuovo che continuamente sorge e richiede giudizio ed azione adeguati, la vigilanza e la lotta contro il ne­mico di classe, l'organizzazione del movimento economico e politico della classe operaia, la conquista della democrazia e del socialismo, la creazione dello stru­mento di cui il proletariato e il popolo hanno bisogno per poter attuare questa conquista.

   Si disilludano i nostri nemici. Se abbiamo incontrato difficoltà, se discutiamo, se dibattiamo sempre nuovi problemi è perché siamo ad una nuova tappa del nostro sviluppo e nuove grandi prospettive si aprono davanti a noi.

   Il mondo socialista avanza. Il mondo socialista si rinnova. La bandiera della libertà, del progresso sociale e della pace è in buone mani. Il nostro partito va avanti per la strada che si è tracciata. Consentite a noi, che da tanti anni per esso lavoriamo con fedeltà e tenacia e siamo fieri di avere, costruendo il partito comu­nista, assolto un compito che la storia stessa ci poneva, di esprimere la serena fi­ducia che questo partito, uscito dal seno della classe operaia, saprà guidare la classe operaia e tutto il popolo italiano alla costruzione vittoriosa di una società demo­cratica e socialista.


Evviva il Partito comunista italiano!

Evviva la solidarietà internazionale dei lavoratori!

Evviva la democrazia, il socialismo, la pace!

Note

[1] Togliatti allude, oltre che all'Ungheria, alla Polonia.
[2] Il 6 novembre 1956, mentre era in corso l'impresa franco-inglese israeliana contro l'Egitto, veniva rieletto presidente degli Stati Uniti Dwight Eisenhower. Nello stesso giorno I'URSS intimava a Francia, Inghilterra e Israele di sospendere gli atti di guerra contro l'Egitto pena il suo intervento nel conflitto con tutti i mezzi a sua disposizione.