Luciano Barca

Gli incontri segreti con Moro

Da "Enrico Berlinguer", Edizioni l'Unità, 1985, pp. 95-107.


[Gli incontri] furono tre: il primo alla vigilia di Natale del '71, l'ultimo un mese prima del rapimento. Ma lo scambio di opinioni e di giudizi politici era continuo ed i colloqui vennero preparati minuziosamente. L'elezione di Leone e un'offerta che il leader dc non potè accettare. La «solidarietà nazionale» e le difficoltà nella Democrazia cristiana. Quando il presidente dello scudocrociato annunciò che sarebbe sceso in campo di persona.


  Gli incontri diretti e personali di Berlinguer con Moro sono stati tre: 24 dicembre 1971, 5 gennaio 1978, 16 febbraio 1978. Tutti e tre gli incontri, sui quali si è costruito e sviluppato un rapporto che ha inciso sulla vita politica italiana, sono avve­nuti in casa del consigliere di Stato Tullio Ancora, amico personale di Moro, e hanno avuto come testimoni lo stesso dottor Ancora e chi scrive queste note (i primi appunti li avevo cominciati a stendere, d'accordo con Enrico, un mese prima della sua morte e poi li avevo abbandonati). Sui due testimoni è anche ricaduto il compito di tenere i rapporti tra Berlinguer e Moro - rapporti fatti ora di brevi messaggi di cortesia, ora di riflessioni e annotazioni sul quadro politico - negli intervalli tra i colloqui personali diretti: sei anni tra il primo e il secon­do colloquio, interrotti tuttavia, sia da incontri ufficiali, alcuni dei quali di un certo rilievo, sia da contatti alla Com­missione esteri della Camera, sia, ap­punto, da uno scambio di messaggi, abbastanza assiduo in taluni periodi.

   Uno degli incontri ufficiali - nel marzo del 1976 - segnò una grande novità e vale la pena di ricordarlo subito: per la prima volta infatti, dopo la rottura del 1947, Aldo Moro, nella sua veste di presidente del Consiglio, invitò a palazzo Chigi il segretario del Pci per consultarlo su provvedimenti economici ancora da adottare. Erano giorni drammatici in cui le riserve va­lutarie della Banca d'Italia erano scese ad un minimo storico e, di fronte all'emergenza, il Psi e il Pri (in parti­colare La Malfa) suggerirono a Moro di consultare formalmente il maggior partito d'opposizione. Di fatto Ugo La Malfa, a partire dal 1975, aveva spesso, per suo conto, proceduto a questo tipo di consultazione, nella sua qualità di vicepresidente del Consiglio e coor­dinatore della politica economica. E non era mancato chi aveva detto che proprio questa consuetudine di con­sultare i comunisti, introdotta da La Malfa, aveva finito con l'irritare il Psi - che fino ad allora era considerato un tramite fra governo e noi - e aveva contribuito a indurre De Marti­no a scrivere la famosa lettera del 31 dicembre 1975 che pose fine al gover­no bicolore Moro-La Malfa aprendo la strada al breve monocolore Moro «con tecnici». Con Ugo La Malfa, tuttavia, si era sempre trattato di in­contri ufficiosi. Questa volta, nel mar­zo 1976, l'incontro fu diverso ed ebbe anche una sua solennità formale (il punto di vista della Banca d'Italia fu illustrato da Ossola). Se esso assunse un valore emblematico e fornì, già prima delle elezioni del '76, il segnale di un mutamento profondo in corso, non andò tuttavia, nella sostanza, al di là di uno scambio di idee su misure congiunturali di emergenza che il Pci si impegnò a non ostacolare, pur rile­vandone i limiti.

   I tre incontri personali di cui qui per la prima volta si parla (del terzo, quel­lo del 16 febbraio '78, ha dato notizia anche Andreotti nel suo recente libro «Visti da vicino»), anche se toccarono a volte questioni congiunturali e speci­fiche, ebbero invece tutti un solo tema di grande portata e respiro: come usci­re dalla difficile crisi morale, politica ed economica cui l'Italia era giunta.

   Prima di dire di essi (e di un quarto colloquio, del 24 novembre 1977, cui Berlinguer non partecipò, ma di cui egli fu attento regista) è opportuno forse spiegare perché Ancora e Barca furono i testimoni di tutti gli incontri e i «canali» del lungo e ininterrotto dia­logo a distanza.

   Il dottor Ancora non aveva alcun ruolo nella Dc. Ma credo che fu scelto da Moro proprio per questo, oltre che, ovviamente, per la piena fiducia che l'ex allievo godeva dal suo professore di diritto. Non si dimentichi che Moro aveva iniziato nel 1968 quella che fu chiamata la «traversata del deserto». Nel Consiglio nazionale della Dc, novembre 1968, Moro aveva rotto con la sua vecchia maggioranza ed aveva scelto una «collocazione autonoma». Tra le motivazioni di questa colloca­zione - che lo avevano portato ad un certo isolamento - ce n'era una che anticipò tutto il suo atteggiamento successivo e che vale la pena di ricor­dare testualmente perché è su di essa che si incardinò, poi, il rapporto con Berlinguer, quando questi divenne, nel 1969, vicesegretario del Partito comunista italiano: «L'esito delle ele­zioni che ha in parte convogliato nelle file comuniste le forze della protesta e del radicale rinnovamento, aggiunge attualità ad un rapporto dialettico che è un doveroso atto di coraggio della coa­lizione e strumento essenziale del suo affermarsi in un impegnativo confron­to con il Partito comunista in ordine ai problemi vitali della nostra società, tenendo conto delle attitudini di ciascu­na forza politica a darne soluzioni nuove e valide». Di questa posizione personale ed autonoma di Moro il dottor Ancora divenne, fuori di ogni gioco di corrente, attento interprete e intelligente, riservato, amichevole am­basciatore.

   Ci si può chiedere perché questo ruolo non fu mai affidato a coloro che furono e apparivano i principi collabo­ratori di Moro: Sereno Freato, Nicola Rana, Corrado Guerzoni. Non so spiegarlo e non voglio mescolare sup­posizioni alla cronaca dei fatti. Quello che so è che in tanti anni di contatti con Moro io ho visto Sereno Freato una sola volta: recatomi, nel corso del 1975, a palazzo Chigi per incontrare il presidente del Consiglio fui raggiunto dal dott. Freato il quale mi comunicò che Moro si era sentito male ma desi­derava lo stesso vedermi e mi pregava di attendere. Ci furono, per quanto mi risulta, ripetuti tentativi dei collabora­tori di Moro di sostituirsi al dottor Ancora, ma furono tutti ignorati o esplicitamente respinti da Moro. Tul­lio Ancora fu dunque l'unico amba­sciatore fino al giorno in cui, successi­vamente al 24 marzo 1978 (giorno in cui Berlinguer, dopo il rapimento del­lo statista, ebbe un cordiale incontro con la signora Moro, che lo scongiurò di fare molta attenzione alla sua sicu­rezza) i collaboratori di Aldo Moro, prigioniero delle brigate rosse, comu­nicarono al Pci che i contatti con la famiglia Moro dovevano passare solo per il loro tramite con esclusione del dottor Ancora. Lo stesso invito fu fatto direttamente a Tullio Ancora, che fu tuttavia chiamato dalla famiglia Moro il 29 aprile per ricevere una lettera di Moro a lui indirizzata con preghiera di illustrarne il contenuto a Enrico Berlinguer (vedi esposizione di E. Berlinguer alla Commissione di in­chiesta sulla vicenda Moro in data 9 settembre 1980).

   Quanto al mio ruolo di ambasciato­re è sufficiente dire che esso cominciò quasi per caso, nel marzo 1968, quan­do ebbi l'incarico dalla presidenza del gruppo del Pci della Camera (ero allo­ra vicepresidente e in tale veste avevo contatti con il governo) di cercare di ottenere la revoca del mandato di cat­tura per alcuni giovani universitari coinvolti nei fatti di Valle Giulia e nei successivi scontri con la polizia. Dopo essermi inutilmente rivolto ad alcuni ministri, mi rivolsi all'on. Moro, allora presidente del Consiglio, e ottenni quanto richiesto dopo che riuscii a convincere i dirigenti del movimento a dare alcune garanzie. Da quel giorno scoprii un Moro in parte diverso da quello conosciuto nell'aula di Monte­citorio e ne nacque un rapporto cor­diale, facilitato dall'amicizia che si svi­luppò con il dottor Ancora. È bene ricordare che Moro seguì con partico­lare attenzione i fatti del 1968; ebbe incontri (di cui volle tenermi informa­to) con dirigenti dei movimenti giova­nili parlamentari ed extraparlamentari e tutto ciò influì certamente sulla sua decisione di collocarsi all'opposizione dentro la Dc. Berlinguer ebbe la stessa attenzione per quei fatti; ne ricavò giudizi convergenti con quelli di Moro sulla «democrazia difficile» e sulla ne­cessità di non ignorare le attese e le indicazioni che dal '68 venivano, quasi a testimonianza di un passaggio di fase strutturale, e quando nel 1969 divenne vicesegretario del Pci cominciò a vede­re in Moro un possibile interlocutore. Dovevano tuttavia passare due anni prima che avvenisse un incontro diret­to tra i due uomini.

   In quei due anni una nuova comune preoccupazione aveva intanto indotto Berlinguer e Moro a iniziare un dialo­go a distanza: il timore che la legge sul divorzio dividesse l'Italia in due - laici e cattolici - nel momento in cui altri gravi motivi di divisione di natura internazionale (Vietnam) e interna (l'affiorare minaccioso della violenza armata; l'aggravarsi della crisi econo­mica) andavano attaccando le basi del­la convivenza democratica.

   Nel marzo del 1970 Moro aveva ricevuto un incarico esplorativo per formare il governo. Appena ricevuto l'incarico aveva inviato un promemo­ria riservato alla Santa Sede per esplo­rare la possibilità di superare, con un accordo cui la Dc partecipasse, lo sco­glio del divorzio. La mancata risposta del Vaticano aveva contribuito in mo­do determinante a far desistere Moro dal tentativo. La legge sul divorzio fu approvata il 1 dicembre 1970, senza e contro la Dc, e cominciò a mettersi in moto la macchina del referendum abrogativo.

   Berlinguer temeva che il referen­dum ricreasse steccati religiosi e ideo­logici. Moro aveva la stessa preoccu­pazione. Anche da questo comune ti­more prese avvio, per iniziativa di Berlinguer, la ricerca di una soluzione positiva che senza nulla togliere alla grande conquista civile conseguita, consentisse in qualche modo di sanare il «vulnus» che il Vaticano riteneva fosse stato unilateralmente portato agli accordi concordatari.

   La posizione di Moro era decisa­mente a favore della ricerca di un accordo. Ma la sua posizione persona­le era difficile: egli era - fece osserva­re - solo un membro di diritto della direzione della Dc e non intendeva, per correttezza, sovrapporsi o scaval­care gli organi del suo partito. Non si sottrasse tuttavia al difficile compito di individuare e preparare un possibile terreno di trattativa, informandone per correttezza il presidente del Consi­glio, Emilio Colombo (Moro era allo­ra ministro degli Esteri). Fu così che per la prima volta esponenti comunisti furono invitati al ricevimento dell'11 febbraio all'ambasciata italiana presso la Santa Sede. Attraverso varie vie vennero effettuati sondaggi con mon­signor Benelli e con Paolo VI. È sulla base di questo lavoro preparatorio di­rettamente e indirettamente ispirato da Moro, e che da parte comunista vide in particolare impegnati Berlin­guer, Bufalini e Natta (il dottor Anco­ra dette un suo specifico contributo anche giuridico, tenendo i contatti non solo con me ma anche con esponenti di altri partiti), che prese poi corpo la trattativa difficile dei partiti (comitato Bozzi) per una modifica alla legge sul divorzio. Le oscillazioni del Vaticano e quelle personali del segretario della Dc Forlani, ne impedirono la positiva conclusione nonostante la «larga con­cordanza di valutazioni» (comunicato del 15/11/1971) raggiunta da tutti i partiti divorzisti e taluni incoraggia­menti venuti dal Vaticano.

   Mentre la trattativa sul divorzio proseguiva, andava intanto montando sulla stampa la campagna di previsioni e pressioni relativa alla elezione del Presidente della repubblica, prevista per dicembre. La campagna indicava due possibili candidati: Fanfani e Mo­ro e attribuiva ai comunisti la decisio­ne di votare Moro.

   In realtà la direzione del Pci non aveva mai preso una simile decisione. Gli unici contatti erano stati presi con il Psi e con il Psiup per cercare di concordare una posizione comune del­la sinistra. Preoccupato che la ben orchestrata campagna di stampa creas­se equivoci, Berlinguer, che pure rite­neva Moro l'unico candidato democri­stiano eventualmente votabile, alla fi­ne del mese di ottobre del 1971, mi chiese di incontrare Moro e di esporre con chiarezza la posizione del Pci: «Nel momento attuale nessuna decisio­ne e nessun impegno da parte nostra verso partiti e nomi».

   Ecco testualmente la bozza di argo­menti o «scaletta» concordata in ogni parola con Berlinguer e che fu svilup­pata nel colloquio con Moro:


«1) Errore fare oggi del problema della presidenza il problema preminen­te rispetto a tutti gli altri e l'unico punto di riferimento nell'orientare scelte. No­stra posizione: intervista Berlinguer. Nel momento attuale nessuna decisione e nessun impegno da parte nostra verso partiti e nomi.

2) Giudizio su situazione politica: situazione seria, grave. Non si può andare avanti così. Contraddizioni acute sul terreno sociale e sul terreno economico. I problemi che contraddi­zioni aprono non risolvibili su linea di "stabilizzazione" e di "statica composi­zione" dei dissensi interni agli schiera­menti e ai partiti. Risolvibili solo da processo, da linea di movimento che modifichi strutture, formule politiche, stessi partiti. Ogni tentativo di "stabi­lizzazione" fuori di uno sviluppo de­mocratico, di uno spostamento a sini­stra sia pure per gradi, aggrava nel medio periodo contraddizioni e rischi. Occorre affrontare con decisione rifor­me e svolta politica: quadripartito va superato. Orientamento della Dc, sua piattaforma, definizione di una sua maggioranza sono elementi importanti del processo. In ogni caso al centro di ogni scelta e decisione deve essere la valutazione della situazione politica: ciò che essa è e la direzione in cui si pensa che debba e possa evolvere.

3) Per valutare meglio questione concreta:
 - - si ritiene possibile continuare il quadripartito?
 - - in nome di quale politica ci si intende muovere? Riforme?
 - - Quale valutazione della Dc? Esiste una maggioranza per linea di movi­mento? Quali ripercussioni su unità della Dc di tentativi di "stabilizzazio­ne" o, di contro, della scelta di una linea di movimento?»


Ho riportato integralmente la «sca­letta» perché il punto 2 e il punto 3 di essa furono i punti politici ripresi poi da Berlinguer nel primo rapporto di­retto con Moro, quello che avvenne il pomeriggio del 24 dicembre 1971 nella casa di Tullio Ancora, in via Ghirza.

   Il momento in cui il colloquio av­venne era particolarmente teso e drammatico. Per giorni e giorni si era­no fronteggiati nel Parlamento riunito per l'elezione del Presidente della re­pubblica due schieramenti: quello del­le sinistre attorno al nome di De Mar­tino (il primo dicembre 1971 Luigi Longo, dopo un incontro con una de­legazione del Psi, aveva dichiarato: «Abbiamo espresso la nostra adesione alla proposta di una candidatura socia­lista per la presidenza della repubbli­ca») e quello democristiano attorno al nome di Fanfani. Constatata l'impos­sibilità per Fanfani di raggiungere il quorum la Dc - al fine di evitare con­vergenze su altro candidato o l'affiorare di «candidature d'aula» - aveva deci­so di astenersi dal voto (per quattordi­ci volte i democristiani si astennero, umiliando se stessi e il Parlamento). Nel tentativo di sbloccare la situazione una delegazione del Pci, guidata da Berlinguer, aveva incontrato una dele­gazione della Dc guidata da Forlani. Ecco la dichiarazione di Berlinguer al termine dell'incontro (18 dicembre 1971): «Abbiamo ripetuto alla delega­zione della Dc che siamo pronti a superare l'attuale contrapposizione. A tal fine è necessario lasciare da parte i discorsi generici e venire a proposte e indicazioni concrete. Per questo abbia­mo chiesto, in primo luogo alla Dc di esprimere le sue valutazioni su una nuova candidatura socialista. A questa stessa esigenza di concretezza noi ci siamo ispirati anche per ciò che riguar­da l'ipotesi di una nuova candidatura democristiana».

   A questo incontro erano seguiti contatti diretti di Berlinguer con espo­nenti dei vari partiti e tra essi con Forlani. Forlani insisteva per avere dal Pci una rosa di nomi: Berlinguer, al punto in cui erano giunte le cose, insisteva, d'accordo con De Martino (il Psiup aveva già avanzato negli incontri le candidature di Moro e Zac-cagnini) per discutere ormai un solo nome.

   Il 21 dicembre, vista l'impossibilità di sbloccare la situazione, De Martino aveva rinunciato alla candidatura con una nobile lettera in cui auspicava un accordo «in virtù del quale il Presidente eletto possa realizzare il momento uni­tario nella garanzia dei vari interessi che si scontrano nella realtà italiana». Subito dopo le sinistre avevano fatto conoscere a Forlani la disponibilità a votare Aldo Moro.

   Il 22 a tarda sera Forlani convocò a Montecitorio i gruppi parlamentari dc e fu discussa una rosa di nomi tra cui quello di Moro. Quando in un clima di contrasti - nel quale era chiara tutta­via la prevalenza di questa candidatu­ra su quella di Leone - Forlani e An-dreotti tolsero la seduta e rinviaro­no il voto all'indomani risultò chiaro che Forlani non voleva a nessun costo Moro presidente. Fu quando alcuni giornalisti portarono questa notizia a Berlinguer, rimasto a passeggiare fino a notte sulla piazza di Montecitorio, che si concordò di incontrare Moro. L'incontro fu fissato per il 24, subito dopo le decisioni che la Dc avrebbe assunto e, di fatto, dopo le prime votazioni negative sul nuovo candi­dato.

   Quando arrivammo in via Ghirza, Moro era già in casa del suo amico. Il primo impatto non fu particolarmente facile. Berlinguer e Moro avevano in comune la timidezza e la estrema ri­servatezza. E avevano anche in comune la consapevolezza e la fierezza di rappresentare due grandi forze (nel­l'unico appunto che ho conservato di quella riunione è scritto: «Sembrava l'incontro di due capi di Stato»). Ber­linguer confermò a Moro la dichiarata disponibilità del Pci a votare il suo nome e Moro fece un lieve inchino allargando le braccia in segno di rin­graziamento. Poi espresse il dubbio che ormai fosse troppo tardi per modi­ficare il corso delle cose, mentre Ber­linguer si dichiarò leggermente più ottimista.

   Poi Berlinguer riprese i temi del messaggio che aveva inviato a Moro nell'ottobre. La presidenza della re­pubblica era importante ma non era tutto. Ciò che occorreva era uscire dalla stagnazione e affrontare, attra­verso la ricerca di convergenze, alcune tra le grandi questioni aperte. Il termi­ne «compromesso storico» non fu mai usato. Berlinguer, che ha sempre po­sto estrema cura affinché le parole dette in privato corrispondessero a quelle dette in pubblico (e anche que­sto lo accomunava a Moro) parlò in quella occasione di «alternativa demo­cratica», negli stessi termini in cui ne aveva parlato al Comitato centrale del novembre precedente («La costruzio­ne di una alternativa democratica, la lotta per la formazione di una nuova maggioranza passano attraverso un mutamento profondo della linea attua­le e degli equilibri interni della Dc»).

   Moro espresse il suo rispetto e la sua attenzione per la politica che il Pci andava seguendo, ribadì la sua convin­zione di non ritenere possibile un go­verno in cui sedessero insieme Pci e Dc, ma convenne sull'esigenza di ope­rare per determinare convergenze su alcune grandi questioni. E disse quello che poi avrebbe più volte ripetuto in pubblici discorsi: la società è andata radicalmente cambiando, guai a per­dere gli strumenti per guidare questo movimento storico. Per questo le spin­te innovatrici che venivano dal Pci non potevano essere ignorate. Su un punto Moro fu fermo, sia a proposito dell'e­lezione del Presidente della repubblica sia a proposito del futuro. Certamente c'era stato nella Dc un processo di appiattimento ma era tutta la Dc unita che doveva superarlo. Egli non sareb­be stato mai l'uomo della rottura. Essa avrebbe giovato solo alla destra e in­debolito la democrazia. Indubbiamen­te la Dc poteva, tuttavia, essere molte cose diverse.

   Berlinguer pose due temi che gli erano a cuore: la questione della guer­ra nel Vietnam e la questione del divorzio. Ma non ci fu un approfondi­mento specifico su di essi; solo l'accor­do di tenersi a contatto per seguirli, come poi avvenne.

   Il colloquio registrò un solo momen­to di confidenza. Quando fu posta - non ricordo da chi - la questione se fosse meglio un governo monocolore o un governo di coalizione. Moro si di­chiarò assolutamente contrario ai governi monocolore e accennò a epi­sodi di consigli dei ministri trasformati in realtà in riunioni di capicorrente dc o delegati di capicorrente.

   L'incontro si concluse con gli auguri di Berlinguer a Moro per il Quirinale. Ma quando tornammo a Montecitorio per la votazione serale Leone riuscì a superare il quorum.

   Il colloquio non era dunque riuscito a modificare il corso delle cose: aveva posto tuttavia le basi di un rapporto che continuò fino alla notte che prece­dette il rapimento di Aldo Moro.

   Quando Berlinguer e Moro tornaro­no ad incontrarsi il quadro politico era profondamente mutato. C'era stata la vittoria del referendum sul divorzio e il 1974 aveva visto la fine dell'isola­mento di Moro. La «traversata del deserto» si era conclusa e il 23 dicem­bre 1974 Moro era tornato alla presi­denza di un governo Dc-Pri con vice­presidente La Malfa. Nel discorso pro­grammatico Moro si era pronunciato per un «confronto dai limpidi contor­ni» con il Pci e il confronto, anche grazie a La Malfa, fu particolarmente aperto sui problemi economici. La Dc scontava intanto il contraccolpo della sconfitta del referendum. Nel '75 una nuova maggioranza aveva vinto il con­gresso e Zaccagnini era divenuto se­gretario. Poi era venuta la lettera di De Martino del 31 dicembre 1975, la crisi e il governo monocolore (quinto governo Moro), conclusosi con lo scio­glimento delle Camere (3 maggio 1976) e le elezioni anticipate.

   Su tutto questo periodo solo alcune lievi annotazioni sui rapporti tra Ber­linguer e Moro, entrambi attenti all'e­stremo a non sostituire mai o a mette­re in ombra i rapporti normali e istitu­zionali a livello parlamentare. Berlin­guer e Moro si incontrarono più volte a livello ufficiale: particolarmente rile­vante, oltre al citato incontro del mar­zo 76, l'incontro del 5 maggio 1977 tra una delegazione del Pci e una delega­zione della Dc nell'ambito dei tentati­vi volti a ricercare un accordo pro­grammatico.

   Oltre ai temi economici uno dei temi ricorrenti del dialogo a distanza fu quello della guerra nel Vietnam (uno degli incontri a tale proposito con Moro lo ebbi insieme a Riccardo Lombardi). Altri temi furono quelli del terrorismo e dell'aborto. Sul terro­rismo non si andò al di là di qualche scambio di pareri e di riflessioni, in particolare in occasione del rapimento Sossi e dell'uccisione del procuratore Coco. Berlinguer e Moro sostanzial­mente concordavano oltre che sull'esi­genza di adeguate misure, sulla neces­sità di estendere la mobilitazione democratica popolare e approfondire l'indagine politica relativa agli scopi e ai fini eversivi delle organizzazioni ter­roristiche. Sull'aborto Moro prese una posizione diversa da quella assunta sul divorzio. In coscienza - fece sapere - non si sentiva di operare per media­zioni. Fece tuttavia conoscere il suo apprezzamento per la posizione assun­ta dal Pci (intervista di Bufalini all'U­nità del 7 dicembre 1975 che ricono­sceva l'aborto come «una necessità brutta e dolorosa») e fu estremamente preoccupato quando di nuovo la Dc prima, in aula con Piccoli, e la Chiesa poi, con il comitato per il referendum, scelsero la via dello scontro frontale.

   Il giudizio di Berlinguer e di Moro tornò a coincidere nel giugno del '76 sul risultato elettorale: qualcosa era cambiato profondamente e bisognava tenerne conto. E per tenerne conto Berlinguer e la direzione del Pci pose­ro apertamente il problema dell'in­gresso del Pci nel governo. Andreotti dà testimonianza a tale proposito di un colloquio con Moro del 7 luglio '76 (Diari 1976-1979): «Moro mi ha parla­to oggi con una apertura che dopo i tempi della Fuci non avevamo mai più avuto tra noi... E indispensabile - ritiene Moro - coinvolgere in qualche maniera i comunisti... e questo mo­mento deve essere gestito da uno come me che non susciti interpretazioni equi­voche all'interno e all'esterno». Ma la Dc, tutta la Dc, resiste ad ogni ipotesi di maggioranza parlamentare con i comunisti.

   Nasce così, con Andreotti, il gover­no della non sfiducia di comunisti e socialisti. Moro, dopo averlo prepara­to, si ritrae dall'intervenire e dall'in-terferire. I contatti con Berlinguer si fanno più radi. In risposta ad un mio biglietto d'auguri (Aldo Moro era sta­to nominato nell'ottobre '76 presiden­te del Consiglio nazionale della Dc) scrive: «Il compito che mi è stato asse­gnato non è in senso proprio operativo. Non mancherò però di dare ogni possi­bile contributo per la soluzione della grave crisi nella quale ci troviamo».

   Per oltre un anno prevale tuttavia la «non operatività» anche quando il Psi, d'accordo con il Pci, prende l'iniziati­va (febbraio '77) di incontri tra i partiti della «non sfiducia» per un confronto politico e programmatico al fine di superare una situazione che si va fa­cendo sempre più difficile anche per il montare della violenza (il 7 febbraio '77 Lama è aggredito all'Università; il 12 maggio ci sarà a Roma una delle più violente manifestazioni di «auto­nomi»). All'iniziativa del Psi segue l'iniziativa della Dc di aprire una vera trattativa programmatica.

   L'avvio non è facile. Esso coincide infatti con la messa in stato di accusa davanti al Parlamento di Mario Tanassi e Luigi Gui. Moro fa sapere a Berlinguer che difenderà personal­mente Gui della cui probità è certo. Berlinguer risponde che il Pci non vuole assolutamente condannare a priori Luigi Gui ma che esige, per la stessa difesa della democrazia minac­ciata, che piena luce sia fatta: per questo si batterà per il rinvio a giudi­zio. Lo scontro aperto ed il ruolo che Moro assumerà in difesa di tutta la Dc non facilitano il rapporto tra Berlin­guer e Moro, ma neppure l'interrom­pono.

   Il terrorismo armato è subentrato alla violenza e sia Berlinguer che Mo­ro ne intendono il pericolo e la por­tata.

   A livello di governo, nonostante alcuni risultati positivi (avvio di un certo risanamento finanziario, riforma dei servizi di sicurezza, inizio della riforma sanitaria) le cose non vanno bene: la crisi incombe ancora sul Pae­se in tutta la sua gravità e la classe operaia ne paga il prezzo.

   È in questo quadro che va avanti faticosamente la trattativa program­matica a sei. La posizione del Pci è chiara ed è stata fatta conoscere sia ad Andreotti che a Moro: «Bisogna asso­lutamente evitare lunghi elenchi di cose da fare. L'esperienza dei governi di centro-sinistra non deve essere ripetu­ta». L'opinione personale di Berlin­guer è che si debbono adottare talune misure per venire incontro agli strati più poveri (un suo biglietto chiede di esaminare la possibilità di adottare prezzi politici per alcuni prodotti di largo consumo e per i quali sono già in atto misure di sostegno: pane, pasta, latte) e che si debba invece concentra­re la trattativa su pochi grandi proble­mi creando nel Paese un clima politico nuovo. Ma, partita bene, la trattativa programmatica si sminuzza in comitati e sottocomitati gestiti da specialisti che producono in taluni casi proposte anche interessanti, ma che concorrono tutte a formare un lungo elenco che non delinea una strategia e non accen­derà alcuna speranza. In essa vengono anche coinvolti sempre più, a livello di governo, i sindacati: spinte pansindacaliste e tentativi abili di corresponsabilizzazioni si sposano.

   Il 24 giugno 1977 l'accordo pro­grammatico è comunque ratificato senza entusiasmo dalla riunione plena­ria dei sei partiti dell'arco costituzio­nale: Berlinguer è presente come segretario, Luigi Longo e Moro come presidenti. La mozione che recepisce l'accordo è approvata in Parlamento il 12 luglio 1977.

   Un fatto nuovo interviene nell'otto­bre 1977: parlando a Mosca al con­gresso del Pcus Berlinguer respinge apertamente ogni ipotesi di partito guida. L'affermazione è per noi ovvia, ma anche per la sede in cui è fatta suscita anche eco. Moro esprime in privato il suo interesse e il suo apprez­zamento. La Malfa afferma pubblica­mente che è ormai impossibile conte­stare il diritto del Pci ad entrare a far parte della maggioranza. Il 18 novem­bre 1977 Moro raccoglie anche lui pubblicamente in un discorso a Bene­vento, uno dei più alti e impegnati sulla nuova fase che si è aperta, il tema proposto da La Malfa (mentre l'amba­sciatore Gardner sollecita una imme­diata presa di posizione di Washington contro l'ingresso dei comunisti al go­verno).

   In questo quadro il 20 novembre 1977, dopo aver esitato a lungo se vedere o no direttamente Moro (le esitazioni erano anche di natura for­male per evitare di compiere un atto di scortesia verso Andreotti e verso il segretario della Dc) Berlinguer incari­ca Paolo Bufalini e me di vedere Moro e di esporgli il profondo disagio del Pci per una situazione ambigua che rischia di deteriorarsi nella routine parlamen­tare. Un grande partito come il Pci non può appoggiare a lungo un gover­no senza essere in grado di esercitare un controllo diretto sulla gestione e se la «pari dignità», il pari diritto di acce­dere al governo non sono apertamente riconosciuti. Questo è il nodo storico da sciogliere e la soluzione anziché avvicinarsi sembra allontanarsi e cor­rompersi. Berlinguer preavverte Moro che è intenzione della segreteria comunista convocare la direzione e porre all'ordine del giorno la questio­ne: appare ormai necessario affrettare i tempi di un governo di unità e solida­rietà democratica con la partecipazio­ne diretta di entrambi i partiti della sinistra.

   L'incontro con Moro, per portargli questa comunicazione, avviene il 24 novembre 1977 alle ore tredici in via Savoia, nell'ufficio privato di Moro. La data è importante perché fa giusti­zia di un luogo comune, più volte usato, per attaccare Berlinguer: l'es­sersi egli risvegliato alla realtà solo dopo la manifestazione del 2 dicembre dei metalmeccanici. I fatti stanno al­l'opposto: la manifestazione operò oggettivamente a sostegno di una posi­zione del Pci già presa e comunicata a Moro (e, come vedremo, ad Andreot­ti). Nel colloquio Bufalini sottolinea l'assurdità di una situazione nella quale la Dc si oppone a dare sbocchi unitari perfino a soluzioni regionali già mature da tempo ed esprime il timore che taluni dei nuovi referendum che incombono possano avere un effetto lacerante.

   Moro (era ancora una volta presente il dottor Ancora, che cortesemente era venuto a prenderci a Botteghe Oscure) ascolta con serenità il messaggio di Berlinguer. Appena ricevuta, in modi più formali del solito, la richiesta del colloquio si era immediatamente reso conto, ci confida, di che cosa si trattava e per questo si era preso quarantott'ore per riflettere. La sua analisi non diffe­risce sostanzialmente dalla nostra. Per molti aspetti (situazione all'Univer­sità, processo di Catanzaro, stato della magistratura, mancanza di iniziative in politica estera) egli è severo quanto noi. Ma valorizza anche i risultati con­seguiti grazie all'atteggiamento del Pci: l'inflazione ha già rallentato il suo corso, la tendenza all'aumento del tas­so di disoccupazione è stata frenata, il risanamento finanziario avviato. Si rende conto tuttavia che non è visibile il senso generale dell'operazione e che il clima del Paese è pesante. Ma la Dc, a suo avviso, non è affatto matura nel suo insieme per nuovi passi verso una piena normalizzazione dei rapporti con il Pci. Per questo prega insistentemen­te Berlinguer di rinviare al massimo una dichiarazione pubblica. A ciò si ag­giungono la presa di distanza del Psi e le sue continue punzecchiature.

   Quando Bufalini ed io incalziamo nella direzione concordata con Berlin­guer, Moro ci dice che dovrà fare un lavoro molto intenso di consultazione prima di poter incontrare Enrico per una risposta. Ribadisce infine la sua posizione di sempre: si rende conto che si debbono compiere nuovi passi ma è tutta la Dc che deve compierli e non solo una parte. Si rammarica a questo proposito che il Pci etichetti con troppa facilità alcuni uomini (i riferimenti sono a Donat Cattin e An­dreatta). Farà sapere quando si sentirà in grado di dare una meditata risposta a Berlinguer. Ritiene intanto neces­sario, per dovere di lealtà, informare subito Andreotti dell'incontro (lo fa­remo anche noi).

   Il 7 dicembre 1977 la direzione del Pci denuncia pubblicamente l'«accresciuto scarto tra la gravità della crisi italiana e l'inadeguatezza del governo. Appare quindi sempre più necessario un governo di unità e di solidarietà democratica, con la partecipazione di entrambi i partiti di sinistra». C'è qual­che interrogativo, in direzione, sul­l'opportunità del momento scelto per dare pubblicità alla posizione assunta. Qualcuno propone un rinvio. Ma siamo alla vigilia di un nuovo, ennesimo round di incontri fra governo, sindaca­ti e partiti. Berlinguer teme che tutto venga stemperato in nuovi elenchi di desiderata e che il sindacato venga ancor più coinvolto in trattative di vertice spesso incomprensibili alle masse. Il comunicato che viene appro­vato chiama ufficialmente in causa la Dc: «La parola spetta ora alla Demo­crazia cristiana. Questo partito non può sottrarsi al dovere di valutare, con senso di responsabilità e senza lasciarsi invischiare dai propri interni travagli, la realtà della situazione, non può più chiudersi in assurdi e anacronistici di­nieghi. Il Paese non può essere a lungo mantenuto nello stato attuale, che ri­schia di deteriorarsi sempre di più».

   Moro fa sapere a Berlinguer che sperava in un periodo di tempo mag­giore. Conta di essere pronto ad in­contrare Enrico entro la fine dell'anno. Ma i tempi della Dc e di Moro sono lenti. I giorni passano e malgrado le sollecitazioni di Berlinguer l'incon­tro viene rinviato ai primi del 1978.

   Il 5 gennaio Berlinguer e Moro si incontrano nella nuova casa del dottor Ancora, sempre nel quartiere Trieste. Come è sua consuetudine Berlinguer si è preparato con scrupolo al collo­quio redigendo una scaletta di temi.

   L'incontro è sul piano umano molto più caloroso del primo, anche se c'è nella procedura della riunione una no­vità non allegra: mentre noi ci incon­triamo al primo piano, sotto si incon­trano le due squadre della Digos che hanno scortato rispettivamente Moro e Berlinguer. Il terrorismo è riuscito a imporre più dure condizioni di vita ai leaders politici.

   Il colloquio politico vero e proprio è questa volta aperto da Moro. Si ram­marica che il Pci non abbia concesso più tempo a lui e alla Dc per preparare il nuovo passo. Si rende tuttavia pie­namente conto che dietro il passo del Pci c'è una preoccupazione reale e fondata e che questa preoccupazione non è soltanto legata al contingente (le inquietudini e le forzature «a sinistra» del Psi, il disagio dei sindacati), ma, come Berlinguer ha detto, alla neces­sità storica di uscire da una democra­zia difficile e incompiuta. La democra­zia non potrà mai essere forte e dare il meglio di sé se tutti i partiti che affon­dano le radici nella storia italiana non saranno posti sullo stesso piano nel governo del Paese. E per aprire questa nuova fase è necessario governare una transizione in cui il Pci garantisca la Dc presso la classe operaia e la Dc garantisca il Pci presso i ceti moderati e i paesi alleati.

   Berlinguer ricorda a Moro che la stessa convinzione è stata espressa dal Psi e dal Pri e che la concezione del Pri è molto vicina a quella di Moro. Non si tratta di fare un governo per l'eter­nità, ma un governo per una transizio­ne difficile. E' d'altra parte impossibile affrontare alcuni grandi problemi sen­za una convergenza tra le sinistre, la Dc e i partiti laici. Il momento è favorevole anche perché forze impren­ditoriali italiane, interessate al discor­so del Pci su una rigorosa finalizzazio­ne delle risorse («austerità»), lungi dall'esprimere timore per l'operazione la auspicano per uscire da una situa­zione di incertezza e di non governo. Moro conferma questa impressione sulla base di colloqui avuti. Le sue preoccupazioni maggiori sono per l'at­teggiamento di alcuni ceti intermedi, i cui sbandamenti possono essere peri­colosi. Anche per questo, oltre che per le resistenze interne al suo partito, ritiene che si debba per ora compiere solo un nuovo passo in quello che pensa sarà un lungo periodo di colla­borazione: l'ingresso formale del Pci nella maggioranza. Berlinguer insiste per la chiarezza e la nettezza dell'ope­razione: non si può andare a nuove ambiguità. Moro si riserva di riflettere ancora e di consultare personalità del suo partito e di altri partiti.

   Chi di fatto prende nelle sue mani la gestione della crisi è, tuttavia, Andreotti. E a fianco all'attivismo di Andreotti il ruolo di Moro sembra, almeno all'esterno, scomparire.

   Il mese di febbraio inizia con la crisi ancora aperta e con il fallimento di una sorta di scorciatoia escogitata da Andreotti al fine di aggirare il nodo politico. Andreotti aveva fatto, a be­neficio della Dc, del Pli e degli americani, una sottile distinzione tra «al­leanza di programma» e «alleanza po­litico-parlamentare» e, redatte 17 car­telle di programma più tre di pream­bolo, si era risolto a chiedere lo «sta bene» della sua direzione (dopo un lungo incontro con la delegazione dc guidata da Moro e Zaccagnini) per procedere rapidamente ad un confron­to con gli altri partiti dell'arco costitu­zionale.

   Ma reazioni negative erano venute e dalla Dc e dagli «altri». Nei direttivi dc la destra e parte dei dorotei avevano contestato il diritto stesso della dire­zione a decidere sulla proposta An­dreotti. Fuori della Dc tutti i partiti impegnati nel «difficile passaggio» (Pci, Pri e Psi), avevano contestato la possibilità di aggirare il nodo politico. La Malfa aveva ribadito «il bisogno dell'apporto di tutte le forze politiche e sociali». Per il Psi Bettino Craxi che dal '76 era divenuto segretario, aveva chiaramente affermato (Avanti! del 1 febbraio 78): «Non si governa senza una maggioranza parlamentare e non si acquisisce il massimo indispensabile di stabilità se non si risolve il problema dell'associazione in funzione di re­sponsabilità e di controllo di tutte le forze che convergono su un terreno contrattato di impegni comuni».

   Il 7 febbraio c'è un nuovo incontro di Andreotti con la delegazione del Pci (Berlinguer, Perna e Natta). All'uscita Berlinguer dichiara: «La soluzione più idonea... è quella di un governo di unità democratica. Tuttavia, tenuto conto anche della posizione degli altri partiti siamo disposti a prendere in considerazione la possibilità di dar vita, almeno, a un patto di emergenza, il quale sulla base di un programma concordato, esprima una comune inte­sa e corresponsabilità dei partiti che vi aderiscono e sia sancito dalla forma­zione di una chiara e riconosciuta mag­gioranza parlamentare».

   Sulla stessa linea si muove una di­chiarazione di Natta del 13 febbraio. Ma la Dc resiste e nega (con Galloni) la possibilità di qualsiasi «alleanza politica».

   Il 15 febbraio c'è un incontro a due tra Berlinguer e Craxi. Non ci sono comunicati, ma c'è, successivamente, una dichiarazione di Craxi che ribadi­sce: «Una soluzione imperniata su semplici convergenze parlamentari non risolverebbe il problema delle respon­sabilità e del controllo».

   Il giorno dopo ha luogo, sempre in casa di Tullio Ancora, il terzo e ultimo incontro personale tra il leader della Dc e il leader del Pci.

   Il colloquio è preceduto da un incontro ufficiale tra la delegazione del Psi e quella del Pci al termine del quale Berlinguer dichiara: «Con i compagni socialisti abbiamo concorda­to e sul giudizio critico sul programma e sulle esigenze inderogabili che i due partiti hanno già annunciato... Si deve costituire una effettiva maggioranza parlamentare con tutte le forme e con tutti i diritti e i doveri che essa com­porta».

   L'incontro con Moro comincia a tar­da ora ed è fondamentalmente diverso dagli altri. Non si tratta di sondare le posizioni politiche dei due partiti. Le posizioni sono note, ribadite in docu­menti e dichiarazioni ufficiali e in in­contri tra i diversi partiti. Pci, Psi e Pri vogliono un'assunzione comune di re­sponsabilità. Il Pli è contrario. La Dc è divisa con un vertice che non riesce a superare le opposizioni interne. Per questo il terzo incontro è fondamen­talmente un incontro tra due uomini che si parlano con estrema apertura e franchezza e che sondano le rispettive posizioni personali.

   Berlinguer sfida Moro a impegnarsi personalmente nella battaglia. Non si tratta tanto di sapere se il leader stori­co della Dc è disposto o no a presiede­re personalmente il governo (anche se Berlinguer farà un accenno esplicito in questo senso), quanto di sapere se intende o no assumere la direzione del difficile passaggio dalla «democrazia difficile», perché incompiuta e mutila­ta, ad una democrazia compiuta in cui, affrontati insieme alcuni nodi struttu­rali, il gioco democratico possa svilup­parsi nella pienezza dei ruoli che ogni partito intenderà liberamente assume­re senza vincoli esterni e ideologiche preclusioni.

   Moro esita. Dà atto a Berlinguer dei titoli che il Partito comunista ha con­quistato, è convinto della necessità di una forma abbastanza lunga di colla­borazione fra tutti i partiti su cui pesa la responsabilità storica della difesa della repubblica: parole simili aveva detto a Spadolini il 9 febbraio (vedi il libro di Spadolini: «Da Moro a La Malfa»), ma è preoccupato delle resi­stenze di una parte del suo partito, aggravatesi dopo il rifiuto liberale ad andar oltre la definizione comune di alcuni punti programmatici. Ammette tuttavia che ambiguità, scorciatoie, giochi di parte non possono sciogliere il nodo politico, che è un nodo reale, storico e come tale va affrontato.

   Berlinguer incalza con tenacia e se­renità insieme, note a tutti coloro che lo hanno conosciuto. Sostiene che è necessario uscire dai compromessi striscianti, dagli accordi fatti alla bu­vette di Montecitorio e affrontare alla luce del sole quella che Moro ha defi­nito la questione centrale dell'attuale fase. Se ciò non sarà fatto la democrazia si deteriorerà, il terrorismo, la violenza, l'assuefazione al malcostume troveranno alimento nella incapacità di tutti di indicare una prospettiva, un orizzonte. In ciò la Democrazia cri­stiana può avere un grande ruolo di propulsione e, insieme, di garanzia.

   Moro riprendendo un tema già toc­cato nell'incontro del 1971, riconosce che proprio per i suoi legami di massa con differenti strati la Dc può essere tante cose diverse. Molto dipende dal gruppo dirigente e dal suo impegno: da ciò che gli elementi più responsabili vogliono che la Dc sia. E alla fine annuncia la sua decisione, maturata, forse, già nella prima fase dell'incon­tro: scenderà in campo personalmente e sosterrà personalmente nei gruppi parlamentari dc la necessità dell'in­gresso a pieno titolo del Pci nella maggioranza governativa.

   Il colloquio è terminato. Moro chie­de a Berlinguer se è venuto con la scorta della polizia. Enrico risponde che è venuto senza e Moro lo rimpro­vera: «Devi fare attenzione, anche se le precauzioni valgono relativamente». Ci saluta con cordialità e scende accompagnato dal figlio piccolo di Tullio Ancora.

   Noi lo seguiamo cinque minuti dopo e Berlinguer, senza scorta, mi accom­pagna a casa.

   Il 15 marzo 1978, a mezzanotte, il dottor Ancora mi telefona per chie­dermi un incontro. Ci vediamo a metà strada e sul cofano di una macchina prendo gli appunti relativi ad un mes­saggio che Moro invia a Berlinguer. Moro è preoccupato delle riserve che sono state formulate dal Pci alla lista del governo e fa appello a Berlinguer affinché non si riapra il dibattito che i gruppi parlamentari dc hanno appena faticosamente chiuso. Si rende conto delle motivazioni di talune riserve, ma ricorda il punto di rottura cui si per­venne quando la Dc commise l'errore di porre un veto contro il nome di Basso, per la Corte costituzionale, e le proteste di Berlinguer a tale proposi­to. Si dovrà studiare un metodo per evitare un gioco di veti incrociati e contemporaneamente garantire i pro­pri alleati, ma ormai è troppo tardi per modificare la lista del governo.

   Decido che è inutile svegliare Ber­linguer (che tra l'altro non amava par­lare per telefono e in sedi non proprie: tutti i miei resoconti e tutte le discus­sioni sulle risposte da dare hanno sem­pre avuto come unica sede il suo uffi­cio di Botteghe Oscure, spesso con la partecipazione di Natta o Bufalini) e batto a macchina l'appunto per Enri­co. Quando al mattino arrivo a Mon­tecitorio per consegnarlo a Berlin­guer, Moro era stato rapito e la sua scorta uccisa.