La dinamica degli incidenti
di piazza Tian'anmen dell'aprile 1976

La descrizione degli avvenimenti è tratta da una corrispondenza datata 21 aprile 1976,
pubblicata in
Vento dell'Est, anno XI, giugno 1976, pp. 21-28


Vediamo i fatti. L'arrivo delle corone era cominciato venerdì 2 aprile. La municipalità di Pechino, prevedendo le intenzioni degli orga­nizzatori della manifestazione, aveva sconsigliato di depositare le coro­ne nella piazza consigliando invece di metterle all'interno del parco del­la cultura dei lavoratori, che si trova di fronte a Tian'anmen. Natural­mente le direttive non potevano avere valore di un divieto rigoroso, che comunque non poteva essere fatto rispettare con misure amministrative, stando agli scopi dichiarati della manifestazione, che erano di commemorare Zhou Enlai. Di fatto le corone sono state deposte nel centro della piazza, sul monumento agli eroi della rivoluzione. Sull'origine delle corone va detto qualcosa, soprattutto circa la «spontaneità», di cui hanno fantasticato e speculato vari giornali stranieri. Un grosso numero di corone veniva da uffici governativi o da organismi che erano stati particolarmente toccati dal movimento di critica contro il vento di destra. Spiccavano, tra le altre, le corone di vari dipartimenti dell'Accademia della scienza, sull'orientamento politico della quale si era aperta in febbraio un'acuta polemica. Al contrario, assenti le università Qinghua e Beida, punta del movimento (tranne qualche iniziativa isola­ta di un paio di corone firmate «professori rivoluzionari»). Oltre alle co­rone, poi, hanno cominciato ad essere affissi anche dazibao, poesie, fo­glietti vari, alcuni dei quali addirittura scritti col sangue, il cui conte­nuto voleva avere l'aria di essere in onore di Zhou. Il minimo che si possa dire di queste scritte (il cui tono è divenuto sempre più esplici­tamente di difesa di Deng Xiaoping) è che esse non riflettono neppure lontanamente sentimenti proletari. Tra i vari esempi di idealismo ma­cabro in esse contenuto, una poesia affissa il giorno quattro, diceva:

Le ossa e le ceneri non sono ancora raffreddate.
Il canto vince i lamenti.
Un seggio vuoto sulla scena.
Il popolo guarda alla festa dei morti,
ma oggi non ci sono tombe da spazzare,
così fissiamo tristi il cielo.
Ossa e ceneri sono disperse nel paese.
Ciò che noi speriamo è che il suo spirito
si trasformi in un potente veleno
che tutti gli insetti annienti.

Chi fossero gli «insetti» a cui allude la poesia risulta chiaro se si confronta il linguaggio volutamente ambiguo di questa «poesia» con quello spudoratamente fascista dei versi che lo stesso Renmin ribao ha pubblicato nel suo resoconto degli avvenimenti, e che la radio ha tra­smesso il giorno 7:

Ai miei lamenti rispondono le grida dei demoni
e quando piango i lupi ululano di gioia.
Verserò il mio sangue sull'altare degli eroi scomparsi
e quando alzerò la testa la mia spada estrarrò dalla guaina.
La Cina non è più la Cina di un tempo,
è finita per sempre l'era feudale di Qin Shi Huang.
Noi crediamo al marxismo-leninismo;
e quei pennaioli che lo hanno castrato,
all'inferno!
Per lui non temiamo di versare il nostro sangue,
e di dare la nostra vita.
Il giorno in cui le quattro modernizzazioni saranno realizzate bagneremo di vino le vostre tombe.

«Pennaioli» e «cospiratori» erano d'altra parte alcuni degli epi­teti più affettuosi con i quali Deng Xiaoping (come emerge da una sele­zione dei suoi discorsi recenti riportata sui dazibao di Beida) aveva at­taccato tutti quei dirigenti del partito che si opponevano ai suoi disegni reazionari e sostenevano la linea di Mao. Va anche rilevato lo stile classi­co in cui questa poesia è stata scritta: solo un letterato cresciuto nel cul­to dei classici confuciani può scrivere una poesia in questo stile, così co­me nessun operaio italiano sarebbe in grado di scrivere un'ode in latino in onore di Berlinguer. Il commento del Renmin ribao faceva naturalmen­te osservare come anche qui, come nel progetto di colpo di stato di Lin Biao si parli di «vero marxismo leninismo» e si alluda a Qin Shi Huang, cui Lin Piao aveva paragonato Mao.

Un altro significativo esempio del tentativo di mascherare con un linguaggio apparentemente «incendiario» gli scopi controrivoluzionari della manifestazione, è dato da un discorso registrato sulla piazza il gior­no quattro. Ogni frase di questo discorso era seguita dagli applausi del piccolo capannello di gente intorno al caporione che arringava:


«Noi giuriamo di proteggere il presidente Mao e il primo mi­nistro Zhou. Uniamoci per opporci a tutti i falsi marxisti-le­ninisti. Commemoriamo uniti il primo ministro Zhou. Com­batteremo tutti quelli che attaccano il primo ministro Zhou e vogliono rovesciare il verdetto su Zhou. Combatteremo fi­no in fondo una battaglia sanguinosa per preservare il verdet­to sul primo ministro Zhou. Dobbiamo essere vigilanti contro tutti i tipi di carrieristi e cospiratori. Non permetteremo in alcun modo che questo tipo di persone usurpi il potere di di­rezione del partito e dello stato. Il popolo cinese vuole il pre­sidente Mao, il popolo cinese vuole il primo ministro Zhou. Il popolo cinese non vuole Chruscev. Chiunque si oppone agli interessi del popolo farà una brutta fine! Qual è oggi il proble­ma più grande? Dove va la Cina? Qual è il potere più forte? Quello del popolo unito! Noi dobbiamo imparare da Zhou Enlai e rispondere all'appello del presidente Mao, occupan­doci dei grandi affari dello stato, portando fino in fondo la rivoluzione. Viva la Rivoluzione culturale. A morte chi si op­pone al primo ministro Zhou! Come ha detto il primo mini­stro Zhou, trasformiamo la nostra economia entro questo secolo! Lottiamo per trasformare la Cina in un paese moder­no e potente! Avanziamo sulla via dei predecessori cantando l'Internazionale! Proteggiamo in eterno la memoria del primo ministro Zhou!».


Le intenzioni controrivoluzionarie di questo discorso sono anche troppo evidenti. Viene presa perfino a prestito l'espressione «rovescia­re il verdetto» (fan an), usata nel corso della critica contro Deng Xiaoping che appunto intendeva «rovesciare il verdetto» politico della Rivoluzione culturale (cioè negarne e distruggerne i risultati), per far credere invece che oggi la sostanza dello scontro di classe in Cina ri­guardi il «verdetto» su Zhou Enlai, o che lo scontro sia fra quelli che vogliono che la Cina diventi un paese con una economia moderna e quelli che vi si oppongono. Questi banditi che davano del Chruscev a tutta la sinistra del partito che sostiene la linea di Mao sono poi gli stessi che si sono sgolati per cantare le lodi di Deng Xiaoping, invocando la sua no­mina a primo ministro e addirittura a presidente del partito (invocan­do cioè il rovesciamento di Mao stesso) : «solo con Deng alla testa del comitato centrale - gridavano i controrivoluzionari sulla piazza - sa­rà possibile conseguire una vittoria decisiva». Decisiva, naturalmente, per la controrivoluzione. Altro che «proteggere il presidente Mao!».

Ci sarebbe da domandarsi come mai il proletariato pechinese non abbia immediatamente respinto la provocazione controrivoluziona­ria e sia stato necessario per le masse un processo di conoscenza rela­tivamente lungo degli scopi dei controrivoluzionari sulla piazza. In real­tà, la complessità della situazione era data dal fatto che la stragrande maggioranza era a Tian'anmen allo scopo di commemorare Zhou Enlai, mentre la banda controrivoluzionaria faceva di tutto per far credere che le autorità municipali e centrali si opponevano alla commemorazione. Cosa evidentemente falsa. D'altra parte, la forma del lutto cui le masse sono state trascinate dai controrivoluzionari ha favorito ancora di più l'equivoco. Può sembrare strano che oltre centomila persone abbiano reso omaggio a un dirigente scomparso del partito comunista cinese nel corso di una ricorrenza di origine feudale. Ma come abbiamo già detto, non deve sembrare strano che anche nei sentimenti delle masse lavoratrici possano essere presenti tracce di ideologia feudale. Non fu forse lo stesso Mao a dire a Edgar Snow che nei sentimenti che le masse manifestavano per lui c'erano delle pesanti tracce di duemila anni di venerazione per l'imperatore? E non fu proprio anche facendo leva su queste «tracce» che Lin Piao cercò di mettere in atto i suoi tentativi di restaurazione capitalistica?

Allo stesso modo, l'immagine della «morte» che ha circolato per quei due o tre giorni a Tian'anmen non ha molto a che vedere con la ideologia del proletariato. Tornato di nuovo a circolare rivestito della sua «pelle di serpente» mistica, fonte di disperazione irrazionale, quel fantasma feudale della morte è stato uno degli strumenti che i con­trorivoluzionari hanno usato per alimentare sentimenti irrazionali e non proletari nelle masse: «Alla tua morte - c'era scritto su uno di. quei foglietti - abbiamo capito cosa vuol dire perdere tutto!». Ma come fa il proletariato a perdere tutto per la morte di un uomo? Ha forse «per­so tutto» alla morte di Marx? Perderà tutto quando Mao andrà a «di­scutere con Marx e Lenin» ?

La disperazione per la morte di un leader politico (non il dolore, ma la disperazione irrazionale ed esibizionista) ha una componente mar­catamente feudale che può essere presente anche in una parte delle mas­se lavoratrici. Forse che il popolo è separato dalla vecchia società da una «muraglia cinese»? Il Pi Lin Pi Kong era proprio diretto contro l'influenza che l'ideologia feudale e addirittura schiavista continua ad e-sercitare sulle masse anche in una società socialista, e che le rende vul­nerabili agli attacchi delle antiche classi sfruttatrici, «tradizione delle generazioni morte che pesa come un incubo sul cervello dei viventi».

Bisogna tuttavia evitare di spiegarsi tutto in termini un po' sem­plicisticamente antropologici, come se si trattasse soltanto di manifesta­zioni spontanee di una coscienza ancora immatura da parte delle masse cinesi. L'incubo delle generazioni morte pesa anche su di loro, ma ci so­no anche le generazioni vive, le classi nemiche presenti nella società so­cialista, il cui «peso» è anche più concreto, la cui influenza è molto più reale, la cui resistenza alla trasformazione rivoluzionaria della società è molto più attiva. Così, dei personaggi di cui sarebbe augurabile saltas­sero fuori molto presto i nomi, utilizzando i sentimenti delle masse per la memoria di Zhou Enlai, hanno imbastito questa enorme provocazio­ne di piazza. Anche qui, voglio dire, la «spontaneità» è stata abilmente manovrata. Chi, per esempio, ha scritto «attaccando Deng Xiaoping, non verranno aumentati i salari», non esprime affatto sentimenti «ingenui», ma è un vero e proprio crumiro. Lo stesso dicasi per tutti quei dirigenti di unità produttive, organismi ecc. che hanno permesso e in varia for­ma sollecitato operai e impiegati a portare corone in piazza, tacendo lo­ro quale era il reale scopo controrivoluzionario della manifestazione. C'è stata una fabbrica che ha mandato una corona di due tonnellate, così - diceva chi la portava - non potrà essere asportata facilmente. Un'altra unità ha allestito una corona con i fiori in terracotta e le foglie in allu­minio. Uno spreco assurdo, e comunque fuori dalla portata economica di un operaio o di un gruppo di operai. Senza il permesso e l'aiuto eco­nomico dei dirigenti, quelle corone non potevano essere costruite. E poi, quanti organismi statali hanno «spontaneamente» agito nel senso esat­tamente opposto da quello raccomandato dal comitato rivoluzionario municipale?

Quest'ultimo, nell'impossibilità di bloccare con misure ammini­strative la manifestazione, ha lasciato fare fino a domenica sera (quat­tro aprile), quando, passata la ricorrenza che costituiva il pretesto del­la manifestazione, ha deciso di asportare le corone dal monumento agli eroi. Qualcuno, tra gli stranieri residenti, ha messo in dubbio l'oppor­tunità del provvedimento. In realtà il provvedimento era stato prean­nunciato ed era perfettamente legittimo, né avrebbe provocato alcuna reazione se le intenzioni degli organizzatori fossero state veramente quel­le di commemorare Zhou. Che le intenzioni fossero invece del tutto oppo­ste è apparso con chiarezza il lunedì mattina, quando col pretesto che le corone erano state asportate, la manifestazione si è trasformata ne­gli incidenti controrivoluzionari di cui la stampa cinese ha dato un re­soconto estremamente dettagliato.

Poiché l'unica forza dei controrivoluzionari consisteva nella loro capacità di giocare sull'equivoco, facendo credere alle masse che lo sco­po della manifestazione era commemorare Zhou e che le «autorità» vi si opponevano in quanto avevano fatto asportare le corone, il loro obiettivo tattico era quello di provocare a tutti i costi uno scontro con i pochi membri della polizia popolare e della milizia operaia presenti a Tian'anmen. Provocando un loro intervento, i controrivoluzionari spera­vano di poter mascherare meglio i loro scopi e ingannare le masse, fa­cendo loro credere che le autorità si opponevano con la forza alla «com­memorazione» e reprimevano i sentimenti delle masse per Zhou Enlai. Naturalmente le autorità municipali e centrali, che non avevano alcuna intenzione di reprimere le masse, ma avevano invece l'obiettivo di isola­re i controrivoluzionari, non sono cadute in una trappola fin troppo ma­nifesta. Esse hanno evitato qualsiasi intervento della milizia o della polizia popolare in una fase nella quale sarebbe stato praticamente im­possibile distinguere, anche fisicamente, le contraddizioni col nemico dalle contraddizioni in seno al popolo, cioè le contraddizioni con i fo­mentatori attivi di disordini e le contraddizioni con quella parte delle masse che, pur non partecipando attivamente agli scontri, non capiva ancora esattamente gli scopi dei controrivoluzionari e avrebbe potuto effettivamente interpretare un intervento di miliziani e soldati come un atto repressivo nei confronti di chi stava «semplicemente» commemo­rando Zhou Enlai.

Miliziani e soldati avevano così l'ordine preciso di non interveni­re in alcun modo e di fatto hanno eroicamente tollerato le peggiori pro­vocazioni senza reagire, limitandosi a discutere con i più accaniti per persuaderli a desistere. Ma l'obiettivo degli organizzatori della manife­stazione era appunto il contrario. Soldati e miliziani sono stati insultati e percossi a sangue dai controrivoluzionari, sono state rovesciate e bru­ciate le vetture della polizia e dei pompieri, alcuni miliziani operai che si erano schierati sull'ingresso del palazzo dell'Assemblea popolare, do­ve i dimostranti pretendevano di entrare per «depositare le corone», sono stati violentemente malmenati, trascinati al centro della piazza sul monumento agli eroi e costretti a inginocchiarsi per «riconoscere i loro crimini». La ferocia dei controrivoluzionari aveva naturalmente ben al­tri scopi che «depositare le corone» nel palazzo dell'Assemblea, simbo­lo del potere popolare nella Cina rivoluzionaria. Al di là del suo signifi­cato simbolico, ciò che i controrivoluzionari avevano intenzione di fare era occupare il palazzo stesso, nel folle tentativo di opporsi da lì diret­tamente al comitato centrale, sperando di poter provocare disordini an­cora più gravi.

Più tardi, quando un gruppo di energumeni ha proclamato verso mezzogiorno la formazione di un sedicente «comitato della popolazione della capitale per celebrare la memoria del primo ministro», la scusa è servita per lanciare un assurdo «ultimatum» alla milizia e alla polizia popolare, per poter poi sferrare un attacco contro l'edificio della milizia che si trova al lato della piazza accanto al museo di storia della Cina. Questo è stato l'ultimo atto della serie di sabotaggi compiuto dalla ban­da controrivoluzionaria. Saccheggiato il primo piano e date alle fiamme gran parte delle suppellettili in esso contenute, alle cinque di pomerig­gio i controrivoluzionari hanno dato fuoco all'edificio. Ma questo è sta­to veramente l'ultimo atto per una banda che aveva sopravvalutato la sua forza e la sua capacità di ingannare le masse. A Tian'anmen sono passate nel corso della giornata del cinque varie decine di migliaia di persone (con una punta massima di 100.000 persone, come ha precisato il Renmin ribao), ma per chi si è trovato sulla piazza era immediata­mente visibile che solo un piccolo numero erano i forsennati autori de­gli incidenti: nel tardo pomeriggio, non più di duemila persone circon­davano l'edificio in fiamme della milizia e qualche centinaio stava in­torno al monumento agli eroi, intento a copiare poemi reazionari e ad applaudire al ritorno sul monumento delle corone, che un drappello ben organizzato era andato a prelevare (da un luogo presumibilmente non distante, dove erano state depositate su decisione del comitato rivoluziona­rio di Pechino) trasgredendo apertamente le decisioni della municipali­tà. Ai controrivoluzionari questo deve essere sembrato il massimo della vittoria. Ma in realtà è qui che è cominciata ad apparire tutta la loro debolezza e il loro isolamento. Infatti solo qualche centinaio di persone intorno al monumento applaudivano freneticamente il ritorno delle co­rone, non senza accompagnare con fragorosi sghignazzi i pericolosi ten­tativi dei «salvatori delle corone» di arrampicarsi sugli alti cornicioni del monumento. Sul resto della piazza, invece, almeno ventimila perso­ne si limitavano ad osservare tra il curioso e lo sbigottito, senza comun­que manifestare alcuna particolare euforia al ritorno delle corone. Per tutti infatti era ormai apparso chiaro nel corso di una intera giornata di scontri che le corone erano state solo un pretesto, mentre l'obiettivo era altro. Né c'era di che rallegrarsi per le corone che un gruppo di scal­manati riportavano sul monumento, mentre a poche decine di metri le fiamme distruggevano il primo piano dell'edificio della milizia. In un paese come la Cina dove è così alto il senso della proprietà collettiva, un gesto del genere non ha potuto non essere riconosciuto immediata­mente dalle masse nella sua lampante sostanza controrivoluzionaria. Tanto più che tutti avevano potuto vedere che i miliziani operai, lungi dal «reprimere le masse» come pretendeva il pugno di banditi fascisti, si erano lasciati invece percuotere e insultare senza alzare un dito nep­pure per difendersi.

È a questo punto, alle 18,30, che gli altoparlanti della piazza han­no cominciato a trasmettere un appello di Wu De, presidente del comi­tato rivoluzionario di Pechino. L'appello, piuttosto breve, conteneva an­zitutto un netto giudizio politico sulla natura degli incidenti. Mentre in tutto il paese è in corso il vasto movimento di critica contro le tenden­ze di destra - diceva Wu De - un pugno di controrivoluzionari han­no preso a pretesto la festa dei morti per creare deliberatamente un in­cidente politico rivolto contro il comitato centrale diretto dal presiden­te Mao, allo scopo di sabotare il movimento di critica contro Deng Xiao­ping. Dopo aver invitato le masse rivoluzionarie ad aumentare la vigi­lanza e ad agire concretamente in difesa della linea rivoluzionaria di Mao, reprimendo ogni atto della controrivoluzione, Wu De concludeva dicendo: «Oggi sulla piazza Tian'anmen dei cattivi elementi hanno provocato dei disordini e si sono dati ad atti di sabotaggio controrivolu­zionari. Le masse rivoluzionarie devono lasciare la piazza e non lasciar­si ingannare». Questo appello, breve, ma estremamente preciso nel giu­dizio politico sugli avvenimenti, ha avuto un effetto immediato e la stra­grande maggioranza ha lasciato la piazza. Nelle tre ore successive, men­tre gli altoparlanti ritrasmettevano ogni cinque minuti il discorso, solo un esiguo numero di persone era rimasto sulla piazza. Così, alle 21,30, quando diecimila miliziani operai entravano in Tian'anmen, potevano rapidamente mettere fine alla gazzarra che uno sparuto gruppo di con­trorivoluzionari aveva continuato a fare, esercitando su di essi il «pu­gno di ferro» della dittatura del proletariato.

A questo punto la stampa borghese, che pure in qualche caso era stata costretta a riconoscere il carattere provocatorio e tutt'altro che spontaneo degli avvenimenti («toute cette affaire - ha commentato il corrispondente di Le Monde - repand une forte odeur de manipulation»), non può spiegarsi come mai l'appello di Wu De sia risultato co­sì convincente, pur non contenendo alcuna minaccia. Ed è comunque restata allibita di fronte alle gigantesche manifestazioni di gioia popo­lare la sera stessa del sette aprile, non appena la radio ha comunicato la decisione del CC di destituire Deng Xiaoping e di nominare Hua Guo-feng al posto di primo ministro e di primo vicepresidente del CC. Alla università di Pechino, che fin dalla mattina del 6 era tappezzata di dazi­bao di violenta denuncia degli incidenti del giorno prima, la sera del giorno sette, subito dopo il comunicato del comitato centrale, ci sono state manifestazioni di sostegno. Alle 21,30 c'è stata una grande assem­blea di tutta l'università, mentre varie centinaia di studenti in festa sventolando bandiere rosse partivano per Tian'anmen dove si svolgeva una grande manifestazione popolare durata fino ad oltre le tre di notte. Fino a tardissimo, anche a Beida e Qinghua, cortei interni con tamburi, bandiere e slogan in sostegno delle sue decisioni, parole d'ordine che ri­chiedevano la massima severità nei confronti dei controrivoluzionari. Nei tre giorni successivi, milioni di pechinesi hanno dato vita alle più grosse manifestazioni dall'epoca della Rivoluzione culturale. Pechino primaverile era rossa di bandiere, ovunque risuonavano i tamburi e i piatti che scandivano il ritmo degli slogan: «Difendiamo il comitato centrale, difendiamo il presidente Mao, viva la dittatura del proletaria­to, abbasso Deng Xiaoping».

«Cosa vuole - commentavano allora alcuni giornalisti stranieri che non avevano nascosto la loro incontenibile gioia al momento degli incidenti - ora la folla segue la manifestazione governativa». Natural­mente, neppure il tentativo di spiegarsi come mai il PCC aveva potuto mobilitare delle manifestazioni di massa così imponenti (e non solo a Pechino, ma in tutta la Cina) solo dopo e non prima degli incidenti. È evidente che tutti coloro che pensano al rapporto fra PCC e le masse come un rapporto fra controllori e controllati, fra dittatori e sudditi più o meno abilmente manovrati, non riescono a spiegarsi il caloroso sostegno delle masse alle giuste decisioni del partito.