Criticare Stalin non basta

Dall'intervista di Palmiro Togliatti a Nuovi Argomenti (n. 20, maggio-giugno 1956), pubblicata subito dopo anche da Rinascita. Il testo è ripreso da Il PCI e la svolta del 1956, Editrice l'Unità, allegato al n.14/1986 di Rinascita, pp. 29-38. Di seguito la risposta di Togliatti alla 5ª e 6ª domanda.


5) Ritenete che la dittatura personale di Stalin si sia verificata contro e fuori le tradizioni storiche e politiche russe o sia invece uno sviluppo di tali tradi­zioni?

6) La dittatura personale di Stalin si giovò, per affermarsi, e per mantenersi, di un insieme di misure coercitive che in Occidente, a partire dalla Rivoluzio­ne francese, viene chiamato «terrore». Ritenete che questo «terrore» fosse una necessità?


A queste due domande risponderò assieme perché, a parte la loro formulazione concreta, che limiterebbe la ricerca a temi di ordine particolare, esse consentono, se si supera questa limitazione, di affrontare la questione che logicamente si presenta a questo punto, e cioè come, nella società sovietica, gli errori denunciati dal XX Con­gresso abbiano potuto essere compiuti e quindi abbia potuto crearsi, e durare un assai lungo periodo di tem­po, una situazione in cui la vita democratica e la legalità socialista subivano continue, gravi ed estese violazioni. A questa si innesta, com'è ben comprensibile, la que­stione tanto della corresponsabilità, per questi errori, di tutto il gruppo dirigente politico, compresi i compagni che oggi hanno avuto la iniziativa sia della denuncia che della correzione del male che prima era stato fatto, quanto delle conseguenze di questo male.

A proposito di questa corresponsabilità, due spiega­zioni sono state avanzate. Una è la più evidente ed è stata affacciata da noi stessi, nelle discussioni che hanno avuto luogo nel nostro partito. È stata formulata anche dal compagno Courtade, in una serie di articoli sulla Humanité (1), ed ora, se si deve credere a ciò che riferiscono i giornalisti, pure dal compagno Krusciov, rispondendo a una domanda rivoltagli in un ricevimen­to. L'allontanamento di Stalin dal potere, quando appar­ve la gravità degli errori ch'egli stava compiendo, era «giuridicamente possibile», ma impossibile in pratica, perché se la questione fosse stata posta ne sarebbe risultato un conflitto, e questo conflitto avrebbe proba­bilmente compromesso le sorti della rivoluzione e dello Stato, contro il quale erano puntate le armi da tutte le parti del mondo. Basta aver avuto un contatto anche superficiale con l'opinione pubblica sovietica negli anni in cui Stalin era alla testa del paese e aver seguito la situazione internazionale di quegli anni, per essere in grado di riconoscere che la costatazione è verissima. Oggi, per esempio, i dirigenti sovietici denunciano pre­cisi errori e un momento di scoraggiamento di Stalin all'inizio della guerra. Ma in quei giorni chi, nell'Unione sovietica, avrebbe compreso e accettato non dico un allontanamento di Stalin, ma anche solo una limitazione del suo potere? Sarebbe stato un crollo, se si fosse vista o intuita una cosa simile. E lo stesso in altri momenti. La costatazione fatta da Krusciov, dunque, spiega, sì, lo stato di necessità in cui si trovarono coloro che avrebbero voluto correggere la situazione che si era creata, ma è, nello stesso tempo, una costatazione che complica il quadro, e in sostanza lo aggrava. Si è costret­ti ad ammettere che gli errori che Stalin commetteva, o erano ignorati dalla grande massa dei quadri dirigenti del paese e quindi dal popolo, e questo non pare verosimile, oppure non erano considerati errori da questa massa di quadri e quindi dalla opinione pubblica, da essi orientata e diretta. Come si vede, io escludo la spiegazione della impossibilità di un cambiamento causata solo dalla pre­senza di un apparato militare, poliziesco, terroristico che controllasse la situazione con i suoi mezzi. Questo stesso apparato era composto e diretto da uomini, che in un momento grave come quello dell'attacco di Hitler, per esempio, sarebbero stati dominati anch'essi da rea­zioni elementari, se si fosse aperta una crisi profonda. Molto più giusto mi pare riconoscere che, nonostante gli errori che commetteva, Stalin aveva il consenso di una grandissima parte del paese e prima di tutto dei suoi quadri dirigenti e anche delle masse. Era questa la conseguenza del fatto che Stalin non commise solo degli errori, ma fece anche molte cose buone, «fece moltissi­mo per l'URSS», «era il più convinto dei marxisti e saldo nella sua fiducia nel popolo». Ha riconosciuto questo lo stesso compagno Krusciov, nelle dichiarazioni riferite sopra, correggendo così lo strano ma comprensibile sbaglio che venne fatto, secondo me, al XX Congresso, di tacere questi meriti di Stalin. Ma questo non spiega tutto, e non spiega tutto appunto per la gravità degli errori che oggi vengono denunciati. La spiegazione non si può trovare se non in una attenta indagine del modo come al sistema caratterizzato dagli errori di Stalin si giunse. Solo così si potrà comprendere come questi errori non fossero soltanto qualcosa di personale, ma investissero in modo profondo la realtà della vita sovieti­ca.

Un'altra spiegazione del perché non si potè giungere prima alle necessarie correzioni è stata data, se non erro, dallo stesso Krusciov, affermando che se queste corre­zioni non poterono farsi è perché la posizione dei diri­genti del partito e dello Stato verso gli errori di Stalin non fu eguale in tutti i periodi. Vi furono dunque dei momenti in cui attorno a Stalin vi fu una ampia solida­rietà degli altri, e questa solidarietà era l'espressione, precisamente, di quel consenso di cui sopra parlavamo.

E qui bisogna riconoscere, apertamente e senza esita­zione, che, mentre il XX Congresso ha dato un contri­buto enorme alla impostazione e soluzione di molti, seri e nuovi problemi del movimento democratico e socialista, mentre segna una tappa importantissima nello svi­luppo della società sovietica, non può invece venir con­siderata soddisfacente la posizione che è stata presa al congresso e che oggi viene ampiamente sviluppata nella stampa sovietica per quanto riguarda gli errori di Stalin e le cause e condizioni che li resero possibili. La causa di tutto starebbe nel «culto della personalità», e nel culto di una persona che aveva determinati e gravi difetti, manca­va di modestia, tendeva al potere personale e alle volte sbagliava per incompetenza, non era leale nelle relazioni con gli altri dirigenti, aveva una smania di grandezza e un eccessivo amore di sé stesso, era sospettoso sino all'estremo, e alla fine, attraverso l'esercizio del potere personale, giunse a distaccarsi dal popolo, a trascurare il suo lavoro e a soggiacere persino a una forma evidente di mania di persecuzione. I dirigenti sovietici attuali hanno conosciuto Stalin assai più di noi, (di alcuni contatti avuti con lui avrò forse modo di parlare in altra occasione), e noi quindi dobbiamo loro credere quando a questo modo oggi ce lo descrivono. Possiamo soltanto pensare, tra di noi, che, poiché era così, a parte la impossibilità di fare un cambio a tempo, di cui già si è parlato, avrebbero per lo meno potuto essere più pru­denti in quella esaltazione pubblica e solenne delle qua­lità di quest'uomo, cui ci avevano abituato. E' vero che oggi si criticano, ed è il loro grande merito, ma in questa critica un poco del loro prestigio va senza dubbio perdu­to. Ma a parte questo, sino a che ci si limita, in sostanza a denunciare, come causa di tutto, i difetti personali di Stalin, si rimane nell'ambito del «culto della personalità». Prima, tutto il bene era dovuto alle sovru­mane qualità positive di un uomo; ora, tutto il male viene attribuito agli altrettanto eccezionali e persino sbalorditivi suoi difetti. Tanto in un caso quanto nell'al­tro siamo fuori del criterio di giudizio che è proprio del marxismo. Sfuggono i problemi veri, che sono del modo e del perché la società sovietica potè giungere e giunse a certe forme di allontanamento dalla via democratica e dalla legalità che si era tracciata, e persino di degenera­zione. Lo studio dovrà essere fatto seguendo le diverse tappe di sviluppo di questa società, e sono prima di tutti i compagni sovietici che debbono farlo, perché conosco­no le cose meglio di noi, che possiamo sbagliare per parziale o errata conoscenza dei fatti.

A noi torna a mente, anzitutto, che Lenin, negli ultimi suoi discorsi e scritti, aveva posto l'accento sul pericolo di burocratizzazione che minacciava la nuova società. Ci sembra fuori dubbio che gli errori di Stalin furono legati a un eccessivo aumento del peso degli apparati burocratici nella vita economica e politica sovie­tica, e forse prima di tutto nella vita del partito. E qui è assai difficile dire quale fosse la causa, quale la conse­guenza. L'una cosa venne ad essere, a poco a poco, la espressione dell'altra. Questo peso eccessivo della buro­crazia è anche da riferirsi a una tradizione, proveniente dalle forme di organizzazione politica e dal costume della vecchia Russia? Forse non lo si può escludere e credo vi siano accenni di Lenin in questo senso; si tenga però presente che dopo la rivoluzione, il personale dirigente cambiò totalmente o quasi, e a noi, poi, non interessa tanto valutare il residuo del vecchio, quanto il fatto che un nuovo tipo di direzione burocratica sia venuto sorgendo dal seno della nuova classe dirigente, nel momento in cui essa assolveva compiti del tutto nuovi.

I primi anni dopo la rivoluzione poi furono anni aspri, terribili di sovrumane difficoltà oggettive, di inter­vento straniero, di guerra e di guerra civile. Furono allora assolutamente necessari tanto un massimo di cen­tralizzazione del potere, quanto l'adozione di misure repressive radicali per schiacciare la controrivoluzione. Era inevitabile, in questo periodo, che avvenisse come in guerra: se un compito non viene eseguito, il responsabile è sottoposto a uno sbrigativo giudizio! Lo stesso Lenin, come risulta da una lettera da lui indirizzata a Dzerginski e ora resa pubblica, prevedeva si dovesse fare una svolta quando la controrivoluzione e l'intervento stra­niero fossero stati del tutto sconfitti, il che avvenne qualche anno prima della sua morte. Si dovrà vedere se questa svolta venne compiuta o se, quasi per forza d'inerzia, non si consolidò una parte di ciò che avrebbe dovuto venire modificato o abbandonato. In questo momento, poi, si scatenò la lotta dei gruppi che conte­stavano la possibilità di una edificazione economica so­cialista e questo non potè non avere una estesa influenza su tutta la vita sovietica. Anche questa lotta ebbe il carattere di un vero combattimento, dal cui esito dipen­devano le sorti del potere e che si doveva quindi vincere a ogni costo. È in questo periodo che Stalin ebbe una parte positiva, e attorno a lui si unirono le forze sane del partito. Ora si potrà osservare che si unirono attorno a lui in modo tale, e guidate da lui accettarono tali modifi­cazioni nel funzionamento del partito e dei suoi organi dirigenti, tale nuova funzione degli apparati diretti dall'alto, per cui o non poterono più opporsi quando incominciarono a venire alla luce cose cattive, oppure non compresero nemmeno bene, all'inizio, che si trat­tasse di cose cattive. Forse non si sbaglia affermando che è dal partito che ebbero inizio le dannose limitazioni del regime democratico e il sopravvento graduale di forme di organizzazione burocratica.

Ma più importante mi pare debba essere l'esame attento di ciò che avvenne in seguito, quando fu realiz­zato il primo piano quinquennale e fu attuata la colletti­vizzazione dell'agricoltura. Qui si toccano infatti vere questioni di principio. I successi ottenuti furono qualco­sa di molto grande, di grandioso, anzi. Fu creata una grande industria socialista, e fu creata senza aiuti o crediti dall'estero, attraverso un impegno e uno sviluppo delle forze interne della nuova società. Fu trasformata, anche se in modo meno sicuro, attraverso notevoli difficoltà, fretta eccessiva ed errori, la struttura sociale delle campagne. I risultati ottenuti erano qualcosa che mai al mondo era stata veduta, che fuori dell'Unione sovietica pochi avevano creduto possibile. Furono una conferma clamorosa della vittoria rivoluzionaria dell'Ottobre, e della giusta linea politica sostenuta contro oppositori e nemici d'ogni sorta. Furono però anche l'inizio di alcuni orientamenti sbagliati, e che dovevano avere, in seguito, gravi conseguenze cattive. Nella esaltazione dei successi ottenuti, prevalse, soprattutto nella propaganda corren­te, ma anche nelle impostazioni generali, una tendenza alla esagerazione, a considerare oramai risolti tutti i problemi, superate le contraddizioni oggettive, le difficoltà, i contrasti che pure sono sempre inerenti alla costruzione di una società socialista. Queste contraddi­zioni oggettive, queste difficoltà, questi contrasti, sono spesso, nel corso della costruzione di una società sociali­sta, molto gravi, e non possono venire superati se non vengono riconosciuti in modo aperto, chiamando le stesse masse operaie e lavoratrici ad affrontarli e risol­verli con il loro lavoro, con la loro opera creativa. In questo periodo si ebbe invece l'impressione, nell'Unione sovietica, che i dirigenti, anche se conoscevano bene la realtà delle cose, non la presentassero giustamente al partito e al popolo, forse per timore di sminuire in qualche modo la grandiosità delle vittorie ottenute. In una scuola di partito ove erano studenti inviati da noi, si impegnò un aspro dibattito, durato mesi e mesi, contro chi aveva esaltato i «sacrifici» fatti dagli operai russi per il successo del piano quinquennale. Non si doveva parla­re di sacrifici dicevano, perché se no cosa avrebbero pensato gli operai in Occidente? Ma i sacrifici c'erano stati, perché le condizioni di vita negli anni del primo piano erano state molto dure, e la classe operaia non si spaventa affatto se le si spiega che uno sforzo e un sacrificio sono necessari per costruire il socialismo, anzi, questo stimola ed esalta lo spirito di classe della sua avanguardia. E' un piccolo episodio, questo, ma dimo­stra, come dicevamo, un errato orientamento di princi­pio, perché è un errore di principio credere che, ottenuti i primi grandi successi, la costruzione socialista vada avanti da sé, e non attraverso il giuoco di contraddizioni di nuovo tipo, che devono essere risolte nel quadro della nuova società, dalla azione delle masse e del partito che le dirige.

Ne derivarono due principali conseguenze, credo. La prima fu un isterilimento della attività delle masse, nei luoghi e negli organismi (di partito, sindacali, di fabbrica sovietici) dove le reali e nuove difficoltà della situazione avrebbero dovuto venire affrontate, e dove invece inco­minciarono a prevalere scritti e discorsi pieni di dichiara­zioni pompose, di frasi fatte, ecc., ma in realtà freddi e inefficaci, perché privi di contatto con la vita, il vero dibattito creativo a poco a poco venne scomparendo, e quindi la stessa attività delle masse a ridursi, muovendo­si più per direttiva dall'alto che per stimolo proprio. Ma la seconda conseguenza fu più grave ancora, ed è che quando la realtà riprendeva i suoi diritti, e le difficoltà venivano fuori, come conseguenza degli squilibri e dei contrasti che tuttora erano nelle cose, si manifestò e a poco a poco finì per prevalere su tutto la tendenza a considerare che sempre e in ogni caso il male, l'arresto nell'applicazione del piano, la difficoltà negli approvvi­gionamenti, nell'afflusso delle materie prime, nello svi­luppo delle diverse parti dell'industria o dell'agricoltura, ecc., ecc., fossero dovuti al sabotaggio, all'opera del nemico di classe, di gruppi controrivoluzionari operanti clandestinamente, e così via. Non è che queste cose non ci fossero. Ci furono anche queste cose. L'Unione so­vietica era circondata da nemici spietati, pronti a ricorre­re a tutti i mezzi per recarle danno e frenarne l'ascesa; ma quell'errato indirizzo nei giudizi sulla situazione oggettiva fece perdere il senso del limite, fece smarrire la nozione della frontiera che separa il buono dal cattivo, l'amico dal nemico, la incapacità o la debolezza dalla ostilità consapevole e dal tradimento, il contrasto e le difficoltà che sgorgano dalle cose, dall'atto ostile di chi congiura per rovinarti. Stalin dette una formulazione pseudoscientifica di questa paurosa confusione, con la sua tesi errata dell'accrescimento necessario dei nemici e dell'inasprirsi della lotta delle classi col progresso della costruzione socialista. Questo rese permanente e aggravò la confusione stessa; questo fu all'origine delle inaudite violazioni della legalità socialista che oggi sono state denunciate pubblicamente. Bisogna però cercare più in profondo per comprendere come queste posizioni potessero venire accettate e diventare popolari, e una delle direzioni della ricerca dovrà essere quella da noi indicata, se si vuole capire tutto. Stalin fu ad un tempo espressione e autore di una situazione, e lo fu tanto perché dimostratosi il più esperto organizzatore e diri­gente di un apparato di tipo burocratico nel momento in cui questo prese il sopravvento sulle forme di vita demo­cratica, quanto per avere dato una giustificazione dottri­nale di quello che in realtà era un indirizzo errato e sul quale poi si resse, fino ad assumere forme degenerative, il suo potere personale. Tutto questo spiega quel con­senso che vi fu attorno a lui, che durò sino alla sua scomparsa e forse tuttora conserva qualche efficacia.

Non si dimentichi, poi, che anche quando si stabilì questo suo potere, i successi della società sovietica non mancarono. Vi furono nel campo economico, in quello politico, in quello culturale, in quello militare, in quello dei rapporti internazionali. Nessuno potrà negare che l'Unione sovietica del 1953 era incomparabilmente più forte, più sviluppata in tutte le direzioni, più solida all'interno e più autorevole di fronte all'estero di quanto non fosse, per esempio, all'epoca del primo piano quin­quennale. Come mai tanti errori non impedirono tanti successi? Anche qui, sono i dirigenti sovietici che deb­bono dare la risposta, comprendendo che questo è oggi uno dei problemi che assillano i militanti sinceri del movimento operaio internazionale. Fino a che punto, da quale momento ed entro quali limiti gli errori di Stalin compromisero la linea politica del partito, crearono difficoltà sussidiarie e quale peso ebbero queste diffi­coltà, e come si riuscì, nonostante quegli errori, a progredire? Sulla base di ciò che conosciamo, noi pos­siamo fare solo alcune affermazioni generali, disposti a rivederle se necessario. Ci sembra debba essere ricono­sciuto che la linea seguita nella costruzione socialista continuò a essere giusta, anche se gli errori che vengono denunciati sono tali che non possono non avere seria­mente limitato i successi nella sua applicazione. Questo è però uno dei punti su cui saranno necessarie le mag­giori spiegazioni, perché la restrizione e in qualche caso perfino la scomparsa della vita democratica è cosa essen­ziale per la validità di una linea politica. Ci sembra, ad ogni modo, incontrovertibile che la burocratizzazione del partito, degli organi dello Stato, dei sindacati, e soprattutto degli organi periferici, che sono i più impor­tanti, deve avere frenato, limitato, compresso, il pensie­ro creativo del partito, l'attività delle masse, il funziona­mento democratico dello Stato e lo slancio costruttivo di tutta la società con evidenti danni reali. D'altra parte, gli stessi successi ottenuti, e in pace e in guerra e dopo la guerra, sono la prova di una impressionante capacità di lavoro, di entusiasmo e di sacrificio delle masse popola­ri, in qualsiasi situazione, di una loro adesione continua agli scopi che la politica del partito poneva a tutto il paese, e che attraverso l'opera loro vennero realizzati.

È difficile dire, per esempio, quale altro popolo sarebbe stato capace di resistere, riprendersi e poi vincere, con Hi­tler nei sobborghi di Mosca e poi sul Volga, e con le stret­tezze terribili del periodo di guerra. Si deve dunque con­cludere che la sostanza del regime socialista non andò per­duta, perché non andò perduta nessuna delle precedenti conquiste, né, soprattutto, l'adesione al regime delle mas­se di operai, contadini, intellettuali che formano la società sovietica. Questa stessa adesione sta a provare che nonostante tutto, questa società manteneva il suo fondamenta­le carattere democratico.

Abbiamo detto alcune volte che tocca ai compagni so­vietici affrontare alcune delle questioni da noi poste e for­nire gli elementi per una complessiva risposta. Sino ad ora essi hanno sviluppato le critiche al «culto della personali­tà» soprattutto correggendo errati giudizi storici e politici su fatti e su persone, distruggendo miti e leggende creati a scopo di esaltazione di una sola persona. Questo va benis­simo, ma non è tutto ciò che si deve attendere da loro. Ciò che più oggi importa è di rispondere giustamente, con un criterio marxista, alla domanda sul come gli errori oggi denunciati si siano intrecciati con lo sviluppo della società socialista, e quindi se nello sviluppo stesso di questa so­cietà non siano intervenuti, a un certo mometno, elementi di disturbo, sbagli di ordine generale, contro i quali tutto il campo del socialismo deve essere messo in guardia, - e intendo dire tutti coloro che già stanno costruendo il socialismo secondo una loro strada, e coloro che una loro strada stanno ancora ricercando. Si può essere senz'altro d'accordo che il problema centrale è della salvaguardia del­le caratteristiche democratiche della società socialista, ma come si colleghino le questioni della democrazia politica e di quella economica, della democrazia interna e della fun­zione dirigente del partito con il funzionamento democra­tico dello Stato, e come lo sbaglio intervenuto in uno di questi campi possa ripercuotersi su tutto il sistema, - questo è ciò che bisogna studiare a fondo e chiarire.


(1)"... Negli anni 1934-1941, quando gli imperialisti preparavano in modo sempre più massiccio la loro aggressione contro l'URSS, un intervento contro Stalin avrebbe potuto provocare turbamenti che i nemici del comunismo non avrebbero mancato di sfruttare. Non avrebbe, forse, un tale intervento aperto la strada all'aggressione? Bisognava correre un tale rischio? Nessun comunista onesto oserebbe affermarlo. Praticamente, non era forse possibile fare altro che quello che fu fatto. Bisognava 'stringere i denti' e lavorare all'edificazione del socialismo, al rafforzamento dell'URSS, al rafforzamento dei partiti comunisti nel mondo intiero, e tutto ciò malgrado le tragedie generate dal culto della personalità di Stalin". (L'Humanité, 26 aprile 1956)