Palmiro Togliatti

La via italiana al socialismo

Rapporto tenuto il 24 giugno 1956 al Comitato centrale del PCI in preparazione dell'VIII Congresso. Da: Palmiro Togliatti, Opere Scelte, Editori Riuniti, Roma 1974, pp. 729-769.


  Compagni, dalla sua fondazione, il nostro partito si è riunito a congresso sette volte: due prima dell'avvento della dittatura fascista, due all'estero, clandestinamente, e tre dopo il ritorno alla legalità e la vittoria nella guerra di liberazione. Sette congressi, dunque, di cui i più importanti sono stati, senza dubbio, il primo, il terzo e il quinto. Il primo, il congresso di fondazione del nostro partito, è stato la grande scelta di principio fatta dall'avanguardia della classe operaia in un mo­mento di crisi e di svolta dei rapporti internazionali, di acuta crisi della società italiana e di svolta del movimento operaio. È stata la scelta di una ideologia, di una politica, di un orientamento dell'azione. Quella scelta rimane valida pienamente. È ad essa che noi continua­mente, nel seguito della vita del partito, ci siamo riferiti e continueremo a riferirci. Il III Congresso ebbe luogo già nella illegalità e all'estero, nel 1926. Esso fece fare al partito un grande passo in avanti, di ordine qualitativo e decisivo per tutti gli sviluppi ulteriori, non nel senso, però, che tutte le posizioni elaborate da quel congresso fossero giuste. Alcune di quelle posizioni, sulla base del maggior approfondimento che abbiamo fatto della nostra dottrina, della nostra conoscenza dei fatti e della nostra capacità di movimento, appaiono oggi criticabili. Quel congresso però fece fare a tutto il partito un decisivo passo in avanti in quanto elaborò il concetto del partito stesso, della sua natura, della sua funzione, della sua strategia e della sua tattica, secondo i principi del marxismo e del leninismo. Fu questa una conquista, ripeto, decisiva nel metodo di lavoro del partito. Essa doveva avere in seguito una serie di ampi sviluppi e rimase il fondamento, sul quale abbiamo dovuto e saputo poi edificare. Il V Congresso, nel 1946, fu tenuto all'inizio di un periodo nuovo della nostra vita nazionale. Tirò le somme di quello che era stato fatto nel passato, delle lotte combattute e delle grandi vittorie riportate e gettò le basi di un'ampia nuova azione del nostro partito, della classe operaia e di tutte le forze popolari italiane, che si doveva svolgere sul solido terreno delle conquiste democratiche realizzate abbattendo il fascismo. In questa nuova situazione, dal 1946 al 1956, per un periodo di circa 11 anni, hanno avuto luogo sette assemblee nazionali del partito, e precisamente 3 congressi, 2 conferenze nazionali e 2 consigli nazionali. È chiaro che i compiti di un consiglio nazionale non sono quelli di un congresso e i compiti di un congresso non sono quelli di una conferenza. La natura stessa di queste riunioni è diversa e la differenza è per tutti evidente. Ritengo però che in un periodo di questa durata, salvo circostanze eccezionali, e per un partito numeroso, grande, sviluppato come è il nostro, sia difficile fare di più.

   Nonostante ciò, è stata fatta una critica del ritardo alla convocazio­ne dell'VIII Congresso del partito. Questa critica è in parte giustificata e io credo sia da accettarsi. Non credo però sia da accettarsi nel senso in cui viene mossa dal nostro avversario, il quale si basa sul fatto che quella del '55 fu una conferenza e non un congresso, per accusarci di non essere un partito democratico, di non conoscere e non seguire le rette norme di funzionamento interno di una grande, moderna orga­nizzazione politica, e così via. Queste accuse, secondo me, non hanno nessun valore, perché in realtà la conferenza del '55, pur essendo tale e non un congresso, fu preceduta nel partito da una così ampia consul­tazione di tutta la base - dalle cellule fino alle organizzazioni federa­li - che sinora in nessun altro partito italiano credo abbia avuto luogo. Però non vi è dubbio che vi fu, allora, un errore. Dominati dalla or­ganizzazione materiale di questo grande lavoro che si svolgeva partendo dalle minime formazioni periferiche, perdemmo in parte di vista l'obiet­tivo politico e quindi ci trovammo a non essere in grado ad un certo punto di qualificare l'assemblea come un congresso, cioè di dare un appellativo democratico a ciò che in realtà era stato preparato nel modo democratico più largo possibile. Inoltre la preparazione del congresso, trascinata troppo a lungo, non potè essere legata a quei due, tre temi politici fondamentali che avrebbero consentito di dare alla stessa con­sultazione del partito quel rilievo e quel contenuto che sempre è neces­sario essa abbia.

   Dove sta l'importanza del congresso che ci accingiamo ora a con­vocare? Sta nel fatto che ci troviamo di fronte a un complesso di fatti ed elementi nuovi, sia della situazione internazionale che della situazione del nostro paese e del partito. Questi fatti ed elementi nuovi devono essere valutati in modo giusto, allo scopo di saper ricavare da essi tutte le conseguenze necessarie per l'ulteriore nostro sviluppo, per le lotte che dovremo condurre, per l'orientamento del movimento rivoluziona­rio della classe operaia e del popolo italiano.

   In questa seduta del Comitato centrale, il lavoro a questo scopo necessario deve essere incominciato. Non finirà con questa nostra ses­sione. Con essa avrà soltanto inizio, ed io faccio questo avvertimento perché sia chiaro a tutti i compagni, sin dall'inizio, sia il carattere del mio rapporto, sia quello che deve essere, secondo me, anche il carattere della discussione che al rapporto seguirà. Si tratta oggi di porre i pro­blemi, di esprimerne l'ampiezza, di cercare di delimitarli e indicarne il contenuto, di dare cioè la inquadratura generale della discussione che dovrà aver luogo nel partito, ma non ancora di risolvere questi problemi. Si tratta, di fare uno sforzo per valutare giustamente, fin dall'inizio, l'importanza dei temi che dobbiamo esaminare e il valore delle soluzioni che dobbiamo dare. Si tratta di sottolineare, sin dall'ini­zio, questa importanza e di segnare un indirizzo generale, ma non di dare, già da oggi, soluzioni definitive. Le soluzioni dovranno essere date da tutto il partito attraverso il dibattito cui esso è chiamato e di cui il congresso tirerà le somme.

   In realtà il dibattito precongressuale è già iniziato. Vari compagni hanno riferito circa le discussioni che hanno avuto luogo prima e dopo la lotta elettorale, a proposito di alcuni aspetti delle decisioni del XX Congresso del PCUS. Noi tutti consideriamo positivo il fatto che questa discussione si sia iniziata; anche se si è iniziata senza una preventiva impostazione da parte degli organi dirigenti centrali del partito. Questa cosa infatti era assai difficile a farsi nelle condizioni in cui ci trovavamo, e il fatto che il dibattito ad ogni modo si sia aperto è comunque prova della vitalità e vivacità del partito, della presenza in esso di compagni i quali ragionano, pensano, hanno una sensibilità politica e morale, han­no uno spirito critico e lo esprimono liberamente. Anzi, vi è da dolersi che nel passato, alcune volte, quando abbiamo compiuto atti politici di grande importanza per qualificare la linea del nostro partito e la sua attività, ma difficili a comprendersi, non sia avvenuto lo stesso, che il partito, cioè, non si sia impegnato di più in quelle discussioni che parecchie volte abbiamo sollecitato ma che non ci sono state. Questa volta le cose sono andate così perché nelle critiche fatte dal congresso del PCUS al compagno Stalin erano contenuti elementi tali che hanno suscitato una reazione di sentimento, oltre che politica. Anche questo però è un fatto positivo e tutto il complesso è un segno di una crisi interna, anche se nella discussione stessa, come già si è rilevato, per il modo come le cose sono state presentate e per la gravità stessa dei fatti su cui si è discusso, è venuto alla luce un certo turbamento dei nostri militanti.

   Il dibattito che si è già iniziato ha avuto due momenti: uno prima e uno dopo le elezioni. Non entro ora nella discussione se il fatto che alcu­ne organizzazioni abbiano discusso prima delle elezioni abbia potuto avere un esito positivo sul risultato elettorale. In generale, quando nel partito vi è una maggiore attività dei militanti, suscitata dalla discus­sione di qualsiasi problema, si nota sempre un progresso in tutto l'am­bito della sua attività. D'altra parte, bisogna riconoscere che non poteva­mo evitare che le cose andassero così.

   So che sono state espresse, per esempio, alcune riserve al modo come da me - d'accordo con la direzione del partito - venne impo­stata la discussione del consiglio nazionale, ponendo al centro i proble­mi della lotta elettorale che stavamo per impegnare e non invece i problemi suscitati dalle critiche fatte a Stalin al XX Congresso. Coloro i quali conoscono che cosa è il nostro partito, quanto è esteso il compito di mobilitarlo, e come fosse scarso il tempo davanti a noi, dovranno riconoscere che quella impostazione fu giusta. Questo significa anche, compagni, - e lo dico in modo del tutto aperto - che nella relazione fatta da me al Comitato centrale del partito subito dopo il XX Congresso del PCUS deliberatamente non vennero affrontate e trattate a fondo tutte le questioni che potevano e dovevano affrontarsi e trattarsi, per­ché era viva in me la consapevolezza che quelle questioni, una volta affrontate, dovevano essere trattate a fondo e questo non si poteva fare che in un congresso del partito e in un dibattito che lo preparasse. E un congresso, in quel momento, non lo si poteva convocare.

   Nelle discussioni che hanno avuto luogo sinora nelle federazioni, ci sono state anche delle debolezze. Desidero però dire chiaramente che non consideriamo debolezza o errore il fatto che si critichino diri­genti del partito, anche se questi sono i dirigenti che portino sulle loro spalle il mag­gior carico di responsabilità e di esperienza. Tutti i compagni diri­gen­ti del partito hanno bisogno che la loro attività di direzione politica e pratica venga controllata e stimolata ed è assai bene che controllo e stimolo critico vengano da tutto il partito. Natural­mente questo non vuol dire che tutte le critiche che vengono fatte siano giuste, però tutte le cri­tiche certamente pongono problemi che vanno affrontati, dibattuti, risolti.

   Non consideriamo come debolezza o errore il fatto che nel dibattito già in corso si affrontino temi di principio, anche se, alle volte, leggendo verbali di riunioni e risoluzioni votate da assemblee di cellula e di sezione, troviamo che su determinate questioni di principio le cose dette e le formulazioni conclusive non sono accettabili o sono accettabili sol­tanto per una parte, mentre sono deficienti per altri aspetti. Siamo lieti che si discutano problemi di principio, perché questo contribuirà a liberarci, una volta per sempre, da una certa atmosfera di doppiezza. Oggi si invitano i dirigenti del partito a dire chiaramente, senza sottin­tesi nascosti fra le pieghe, quello che pensano e quello che il partito deve fare. In realtà, ciò è sempre stato fatto, e con la più grande chia­rezza. Chi si immaginava stessero nascosti fra le righe chi lo sa quali sottintesi, in realtà è chi non si sentiva d'accordo con i giudizi e i compiti assai chiaramente formulati.

   Non consideriamo debolezza o errore, nei dibattiti che si stanno svolgendo, il fatto che affiorino posizioni sbagliate per mancata cono­scenza di fatti, per errori nella valutazione di episodi della vita del partito, del movimento comunista internazionale o della situazione che è stata in questi anni davanti a noi. Informeremo meglio, preciseremo, la chiarezza sarà fatta.

   Quello che è da considerarsi, invece, elemento di debolezza delle di­scus­sioni che oggi si stanno svolgendo, è il fatto che spesso, più che con­clu­sioni, ci si trova davanti a una specie di sfogo indistinto. Ciascuno dice quel che ha sulla coscienza, senza arrivare a nessuna conclusione e sia nelle critiche che nella posizione di problemi nuovi non ci si collega all'elemento concreto dell'attività di partito, ai temi che oggi stanno da­van­ti a noi, per esaminarli con serietà e ricavarne conseguenze sia di principio che pratiche. Sono fenomeni negativi quella specie di revisio­ni­smo generico, che qua e là viene fuori, e non ha nessun conte­nuto pre­ci­so, il velleitarismo critico che non porta a nessuna conclusione prati­ca, e an­che l'assenza di una buona direzione del dibattito stesso, tale che si manifesti nel corso stesso delle discussioni. Il nostro partito è un grande or­ga­nismo democratico. La nostra concezione della vita interna del par­ti­to si ispira però alle norme del centralismo democratico, cioè di una vita de­mocratica intensa, attiva, la quale però si deve svol­gere sul gran­de binario della nostra dottrina e della nostra pratica, allo scopo di precisare la linea nella quale si deve svolgere l'azione del par­tito e non può scen­de­re al livello dei pettegolezzi o di recriminazioni prive di qual­sia­si valore.

   Come si deve discutere dunque? Bisogna prima di tutto riferirsi alla nostra dottrina, alla dottrina marxista e leninista, a ciò che hanno scritto i nostri classici, a ciò che il partito stesso, in questo campo, ha elaborato nel corso della sua esistenza. La mia opinione è che, in questo campo, il bilancio che possiamo presentare alla classe operaia e al popolo italiano è un bilancio in sostanza positivo. È sufficiente pensare a quale fosse il cosiddetto bagaglio ideologico del partito socia­lista quando noi ne uscimmo, rievocare quella vacuità contro cui Gram­sci così fieramente levò la sua protesta, l'assenza di qualsiasi conoscenza della nostra dottrina, la incapacità totale di riferirsi ai principi per con­durre una giusta analisi delle situazioni oggettive e derivarne esatte indicazioni politiche, per comprendere come noi siamo andati avanti. Basta rievocare la posizione che veniva fatta nell'ambito della cultura italiana, quando noi sorgemmo e per alcuni decenni dopo, al marxismo, considerato come un cadavere che si stava putrefacendo e a cui si poteva guardare soltanto con commiserazione e quasi con scherno.

   Questa situazione è finita. Oggi la dottrina marxista, per opera nostra, del nostro partito, dei suoi militanti, dei suoi dirigenti, dei suoi intellettuali e dei suoi amici, è stata ricondotta ad essere uno dei pilastri di organizzazione, sviluppo e direzione della cultura nazionale. Col mar­xismo si devono fare i conti di nuovo, e questo risultato lo si è ottenuto perché noi, marxisti, abbiamo dato prova di saper fare i conti non solo con la realtà politica, ma con le correnti tradizionali del pensie­ro italiano.

   Sappiamo che anche in questo campo vi sono lacune e deficienze che dovranno essere colmate, ma non è vero che il bilancio sia negativo. Il nostro partito ha avuto la fortuna di essere stato fondato da Antonio Gramsci, il pensatore, io credo, che nell'Europa occidentale ha dato, negli ultimi cinquant'anni, il più grande contributo all'approfondimento e allo sviluppo della dottrina marxista sulla base di un'ampia conoscenza degli sviluppi intellettuali di tutto l'Occidente e di un'approfondita co­noscenza delle condizioni del nostro paese. Bisogna collegarsi a Gramsci e a tutta la nostra dottrina. Bisogna ricordarsi che questa dottrina è la più avanzata ed efficace fra le dottrine che aiutano ad intendere il mondo economico, politico e sociale, a valutare giustamente le cor­renti di pensiero e di azione che si muovono nella storia, ad affrontare e risolvere tutti i temi della vita nazionale e internazionale. A questa dottrina dobbiamo saper attingere. Un marxista non può essere come il somaro, che porta sulla groppa la botte con dentro il vino ma lui beve acqua. Il marxista deve bere sempre al vino della dottrina che egli possiede. Non può bere né il brodo insipido delle frasi fatte e stancamente ripetute, né l'acqua sporca dei rifiuti di dottrine di altra provenienza, o dei pettegolezzi che possano essergli posti sotto il naso dall'avversario e dal nemico. La nostra dottrina, dunque, sia il primo punto di riferimento delle nostre discussioni.

   Il secondo grande punto di riferimento deve essere la realtà della vita internazionale e nazionale nei suoi aspetti politici, economici, culturali, sociali. È inevitabile che alcuni fra i temi del XX Congresso siano, per lo meno all'inizio, prevalenti. Sono infatti i temi che più hanno colpito e più colpiscono, e dibattendo i quali si giunge a scoprire questioni fondamentali del nostro movimento. Altrettanto però io ri­tengo inevitabile che a poco a poco, nel corso del dibattito, prevalgano i temi nostri: della nostra politica, dello sviluppo del nostro partito, della analisi della situazione del nostro paese e della determinazione dei compiti che stanno davanti a noi.

   Dove sta, dunque, l'importanza del nostro prossimo congresso? Sta nel peso politico che il nostro partito ha nella situazione italiana, e che il risultato delle ultime elezioni ha confermato. Sta però prima di tutto negli elementi nuovi, in parte maturati e che in parte stanno venendo a maturazione, nella situazione internazionale e dei singoli pae­si e quindi anche del nostro.

   Possiamo dire che nel mondo oggi ci troviamo davanti a una svolta o, se si vuole essere più prudenti, a un inizio di svolta tanto nella situazione internazionale quanto nello sviluppo del movimento operaio e del movimento popolare che si orienta verso il socialismo. Che cosa sia questa svolta o questo inizio di svolta è ciò che dobbiamo saper comprendere dall'inizio per poter esattamente inquadrare tutte le nostre riflessioni e le conclusioni che da esse potremo ricavare. È fuori dubbio che fino ad ora il maggior contributo per determinare che cosa sia questa svolta è stato dato dal XX Congresso del Partito comunista dell'Unione Sovietica. Quel congresso è partito ed effettiva­mente bisogna partire da alcune constatazioni. Prima di tutto dalla con­statazione che si è creato nel mondo un sistema di Stati socialisti. Non esiste più soltanto un solo Stato dove la classe operaia abbia il potere e sia riuscita a costruire una società socialista, ma esiste un sistema ampio di Stati socialisti. Se si guarda allo spazio che questi Stati occu­pano e alle popolazioni che vi appartengono si ha un quadro di dimen­sioni sterminate, che tutti conoscono. In pari tempo si deve constatare il crollo del colonialismo come sistema di dominio del mondo da parte della piccola minoranza degli Stati imperialistici. In conseguenza di que­sti due fatti ci si trova in presenza di un mutamento delle strutture oggettive del mondo intiero ed è in conseguenza di questo mutamento delle strutture oggettive che assistiamo a profonde modificazioni, alcune già attuate, altre ancora in corso, negli orientamenti ideali e pratici degli uomini. Tale è, per esempio, la tendenza dei nuovi popoli e Stati, che si sono sottratti al dominio dell'imperialismo, a non più seguire, nel loro sviluppo economico, politico e sociale, la via del capitalismo. Da nessuno di questi nuovi Stati - prendete l'Indonesia, l'India, l'Egitto, l'Indocina - esce una voce la quale proclami la necessità di instau­rare il «modo di vita americano». Escono invece voci sempre più auto­revoli le quali proclamano la necessità di porsi sulla strada del socia­lismo, cioè di trasformare i rapporti economici, politici, sociali nella grande direzione che dal socialismo è indicata. Di qui nasce anche la tendenza all'avvicinamento di questi paesi ai paesi già socialisti, e l'ac­crescimento non soltanto della forza materiale, della forza economica e politica, ma del prestigio dei paesi socialisti, e prima di tutto del­l'Unione Sovietica. Non è senza un significato e senza profonde riper­cussioni nell'animo di tutti i popoli il fatto che da alcuni anni l'iniziativa nei principali campi della vita intemazionale appartiene ai paesi socia­listi e non più ai vecchi Stati del capitalismo e dell'imperialismo. Le ultime iniziative dei paesi capitalistici sono state la guerra fredda, le guerre calde che l'hanno inframmezzata, i blocchi di guerra, la minaccia atomica e la corsa al riarmo. Le iniziative nuove atte a modificare il corso dei rapporti internazionali, a metter fine alle guerre calde e liqui­dare la guerra fredda, a creare le condizioni di una pace durevole e di nuovi rapporti di reciproca comprensione, coesistenza attiva e colla­borazione tra tutti i popoli, sono dovute tutte ai paesi socialisti o ai nuovi Stati usciti dal crollo del sistema coloniale.

   Quali conseguenze ricavare da questo nuovo quadro del mondo che sta davanti a noi? Possiamo ricavare la conseguenza che sia finito il capitalismo? No. Sarebbe un grave errore. Il capitalismo rimane, il capitalismo, anzi, in determinati paesi e per determinati periodi di tempo si può ancora sviluppare. Rimane il solido potere dei capitalisti in tutta una parte del mondo. Possiamo ricavare la conseguenza che sia finito l'imperialismo? No, non possiamo ricavare questa conseguen­za. Anche questo sarebbe un grave errore. L'imperialismo rimane. Man­tiene il suo dominio su un terzo del mondo, almeno. L'economia capi­talistica, in tutta una serie di grandi paesi altamente sviluppati, mantie­ne le sue caratteristiche di economia imperialistica, che sono quelle che voi conoscete. Rimangono quindi e si sviluppano anche i contrasti interni del mondo capitalistico, così come rimangono le tendenze che sono connaturate all'imperialismo stesso. Però, il profondo mutamento di struttura che già è avvenuto ha conseguenze evidenti e sempre più estese sia nel campo dei rapporti tra gli Stati e tra i movimenti di massa organizzati, sia per quello che riguarda lo sviluppo della coscien­za delle masse e delle idee, e quindi per quel che riguarda l'avanzata di tutta l'umanità sulla via del progresso.

   Il XX Congresso sottolineò particolarmente una di queste conse­guenze quando affermò che oggi non sono più inevitabili le guerre. Ma si possono e debbono ricavare anche altre conseguenze che toccano in modo altrettanto diretto noi che viviamo nel mondo capitalistico e combattiamo per la pace e per il socialismo. Il socialismo - e questa è la grande cosa nuova - si presenta agli uomini come una imponente forza reale in sviluppo, che avanza, che tende a estendere sempre più la sfera del proprio dominio. Le forze produttive sono in sviluppo tanto nel mondo capitalistico quanto nei paesi socialisti. Nei paesi socialisti, però, lo sviluppo delle forze produttive non è in contrasto ma in armo­nia con le forme di organizzazione della vita economica. Esso infatti si accompagna per lo meno all'inizio di un processo unitario di coordi­namento degli sviluppi economici in differenti parti del mondo. È dai paesi socialisti che oggi viene proclamata la necessità, non dico ancora di unire il mondo, ma per lo meno di creare fra i diversi popoli un grado superiore di cooperazione per risolvere i grandi problemi che stanno davanti all'umanità. La marcia verso il socialismo assume cosi forme più ampie e pone problemi nuovi, abbraccia popoli e paesi diversi e diventa quindi anche più sicura. Quella fiducia che nel 1917 venne accesa per la prima volta nel cuore degli operai e delle masse popolari di avanguardia, quando videro che finalmente in un paese la classe operaia aveva potuto prendere il potere e servirsene per costruire un'economia e una società nuove, oggi non soltanto è aumentata ma è già anche qualitativamente una cosa diversa perché in ogni paese, sia di quelli altamente sviluppati, sia di quelli che ancora non lo sono, si presentano possibilità reali e nuove di raccogliere forze sempre più ampie per spingere questi paesi sulla via di uno sviluppo socialista. Di qui l'affermazione che il metodo democratico, nella lotta per il socia­lismo e nell'avanzata verso di esso, acquisti oggi quel rilievo che nel passato non potè sempre avere. Si possono cioè ottenere determinati e grandi risultati nella marcia verso il socialismo senza abbandonare questo metodo democratico, seguendo vie diverse da quelle che sono state battute e quasi obbligatorie nel passato, evitando le rotture e le asprezze che allora furono necessarie.

   Questa situazione nuova, e da cui discendono così importanti con­seguenze, è stabile, rimarrà, oppure deve considerarsi transitoria? Noi non siamo profeti. Noi vediamo, però, che questa situazione è la espres­sione di trasformazioni di cui alcune sono definitive e, poi, noi lavo­riamo e chiamiamo tutti i popoli a combattere perché ciò che oggi vi è di nuovo e di buono diventi permanente, non scompaia più.

   Da questa situazione discende una maggiore chiarezza e un modo nuovo nel porre la questione delle diverse strade di avviamento al socia­lismo e di costruzione di una economia e di una società socialiste. Non è che questa questione non fosse stata vista prima. È stata vista e trattata dai classici del marxismo. È stata vista e trattata da Lenin nel primo periodo della rivoluzione. In seguito, le affermazioni che sottolineavano la possibilità di diverse vie di sviluppo politico verso il socialismo vennero, almeno in parte, dimenticate. Questo è forse av­venuto perché l'esempio sovietico esercitò una così forte attrazione su tutto il mondo del lavoro e in particolare sulle avanguardie della classe operaia da contribuire a farle dimenticare. Vorrei però sottolineare - e questa cosa dovrà essere ricordata, se non altro, ai compagni «gio­vani», come si dice adesso, la cui esperienza storica, cioè, è più limitata - che la ricerca di vie di sviluppo diverse da quella seguita nell'Unione Sovietica non è mai stata abbandonata. Una ricerca di vie nuove di avvento della classe operaia e delle forze popolari al potere, di organizza­zione del potere e quindi di marcia verso il socialismo, con metodi nuovi, venne fatta non senza originalità e coraggio quando il mondo capitalistico, dopo la terribile crisi del 1929, generò le nuove forme fasciste di aperta dittatura reazionaria e si aprirono profonde crisi poli­tiche in tutta l'Europa. Non si giunse a conquiste stabili, permanenti, ma i tentativi vennero fatti. Il più noto venne fatto al tempo della politica dei fronti popolari, quando giungemmo, buttando a mare molte vecchie posizioni, ad affermare che i partiti comunisti potevano e do­vevano entrare nei governi in circostanze determinate. A proposito della Spagna, in particolare, giungemmo a definire il carattere di un nuovo Stato democratico, in cui la classe operaia e i suoi partiti partecipavano al potere, ma che però non corrispondeva in nessun modo allo Stato che si era organizzato quando la classe operaia prese il potere in Russia nel 1917.

   La dottrina della diversità delle vie di sviluppo verso il socialismo richiede però oggi una più profonda elaborazione, in relazione appunto con le modificazioni delle strutture oggettive della società e degli indi­rizzi del movimento che tende a trasformarla. Anche qui è necessario partire dall'esame dello sviluppo delle forze produttive, da cui viene una spinta oggettiva verso il socialismo. Questa spinta si manifesta in un determinato modo nei paesi a economia altamente sviluppata, si manifesta in altro modo in paesi a economia non pienamente svilup­pata. Già Lenin aveva corretto la tesi enunciata da Marx, secondo la quale si potrebbe andare verso il socialismo soltanto in quei paesi che abbiano raggiunto il più alto grado di sviluppo del capitalismo. Oggi è evidente che le correzioni fatte da Lenin debbono essere ulterior­mente precisate, nel momento in cui vediamo popoli e Stati nuovi, spezzato il giogo coloniale, affermare il proposito di andare verso il socialismo e chiedere l'aiuto dei paesi già socialisti per riuscire a fare, per lo meno, qualche passo in una direzione che non è più quella tradi­zionale dello sviluppo capitalistico. Questo era stato, almeno in parte, preveduto da Lenin, quando aveva affermato che, in determinate cir­costanze, è possibile che determinate fasi di sviluppo del capitalismo vengano saltate attraverso forme di evoluzione originali, aiutate dall'as­sistenza di paesi dove già esiste una società socialista. Questa previsione di Lenin acquista oggi un contenuto concreto, che prima non aveva. Grandi e nuovi problemi si vengono cosi presentando e sono da trattarsi in modo nuovo. Così quello, per esempio, di far sparire dal mondo le zone della fame, della disperazione, delle malattie endemiche, le zone dove non esistono ancora nemmeno le forme elementari di sviluppo di una civiltà la quale soddisfi le necessità prime di una vita umana e garantisca agli uomini il necessario grado di benessere.

   Sul terreno politico credo si possa affermare che lo sviluppo sog­gettivo non è stato ancora e non è del tutto corrispondente allo sviluppo oggettivo. L'azione consapevole dei partiti di avanguardia della classe operaia non ha corrisposto e non corrisponde, in generale, alle modifi­cazioni di struttura che hanno avuto luogo e ai nuovi stati di coscienza che sorgono tra le masse. Non si è avuto un uniforme e generale svi­luppo in tutto il mondo dei partiti comunisti, cioè dell'avanguardia della classe operaia organizzata in questi partiti.

   Sono anche intervenuti, per impedire che ci fosse questa uniformità di sviluppo, elementi politici: la forza, la violenza, alle volte, delle classi dirigenti. Vi sono stati errori, manifeste incapacità delle avanguardie comuniste e delle loro direzioni di inserirsi nei processi storici nazionali, di comprendere le tradizioni storiche dei singoli paesi e utilizzarle, per dare slancio all'avanzata delle avanguardie comuniste, conquistando la direzione di grandi movimenti popolari. Tutti questi elementi hanno frenato - e qua e là persino impedito - lo sviluppo dei partiti co­munisti. Il campo stesso del socialismo, del resto, ha nel suo interno diversità di cui non si può non tener conto. Sarebbe persino strano che qualcuno pensasse di poter ridurre i problemi che si possono pre­sentare per l'organizzazione di una economia e di una società socialista in Cina a quelli che si sono presentati dopo la presa del potere nell'Unio­ne Sovietica. Lo stesso dicasi anche per i paesi dove vi sono regimi di democrazia popolare. Vi sono tra questi paesi, dall'uno all'altro, no­tevoli diversità di struttura economica, di tradizioni politiche, di forme di organizzazione. Sono diversi anche i progressi fatti sino ad ora nella costruzione di una economia e di una società socialiste. Sarebbe un grave errore se di queste diversità non si tenesse il dovuto conto nello stabilire i compiti, gli obiettivi e il ritmo dell'azione.

   Se poi volgiamo lo sguardo al di fuori del campo dei paesi già socialisti le diversità sono ancora più grandi. Possiamo trovare, infatti, una spinta verso il socialismo e un orientamento più o meno chiaro, verso riforme e trasformazioni economiche di tipo socialista anche in paesi dove i partiti comunisti non soltanto non partecipano al potere ma alle volte non sono nemmeno delle grandi forze. Quale sia la fun­zione che si presenta ai partiti comunisti in questi casi è un problema da studiare e non spetta in prima linea a noi studiarlo. Spetta alle avan­guardie operaie, ai comunisti che sono attivi in questi paesi. Certo è però che ci si trova qui di fronte a una posizione nuova del rapporto tra i partiti comunisti e il potere, tra i partiti comunisti e le masse lavoratrici, tra i compiti dei partiti comunisti e l'avanzata di intieri paesi verso il socialismo. Questa situazione si presenta oggi e assume particolare rilievo in zone del mondo da poco tempo liberate dal colo­nialismo. Anche in paesi di capitalismo molto avanzato, però, può acca­dere che la classe operaia nella sua maggioranza segua un partito non comunista, e non possiamo escludere che, anche in questi paesi, partiti non comunisti, ma fondati sulla classe operaia, possano esprimere la spinta che viene dalla classe operaia all'avanzata verso il socialismo. Anche, del resto, là dove esistono forti partiti comunisti possono esi­stere accanto a loro altri partiti i quali abbiano delle basi nella classe operaia e un programma socialista. La tendenza ad attuare trasforma­zioni economiche radicali, in una direzione che sia genericamente quella del socialismo, può, infine, partire anche da organizzazioni e movimenti che non si dicano socialisti.

   Naturalmente, in questi casi si pone la questione del modo di arrivare, tra diverse organizzazioni, di cui alcune comuniste o socialiste, orientate chiaramente verso la costruzione del socialismo, altre non co­muniste e non socialiste, ma orientate verso riforme sociali di tipo socia­lista, a un rapporto normale, che partendo dalla reciproca comprensione giunga sino alla intesa e alla eventuale collaborazione. Si pone quindi in modo nuovo anche il problema del modo di raggiungere una unità tra le diverse forze organizzate che oggi tendono, in forme diverse, a muoversi nella direzione di una società socialista.

   Come vedete, si viene così a creare un movimento complesso, mul­tiforme. Si presenta a noi un quadro profondamente diverso da quello che ci stava davanti nei decenni passati, e in questo quadro anche il problema della direzione dei movimenti verso il socialismo, e degli stessi movimenti comunisti e dei partiti comunisti, inevitabilmente si deve porre in modo diverso da come si è posto in passato. Non vi è dubbio, per noi, che l'Unione Sovietica rimane il primo grande modello storico di conquista del potere da parte della classe operaia e di utilizzazione del potere, nel modo più energico e più effettivo, per riuscire, spazzate le resistenze della borghesia e delle altre classi reazionarie, respinti i tentativi di intervento provenienti dall'estero, ad accingersi al compito di costruire una economia e una società nuove e ad assolvere questo compito. La esperienza che in questo modo è stata compiuta è una esperienza sterminata, che ha i suoi grandi, prevalenti, aspetti positivi ed anche i suoi aspetti negativi. Lo studio di questa esperienza è stato e continuerà ad essere insegnamento prezioso non soltanto per i partiti comunisti, che ad essa dovranno sempre rifarsi, ma per tutti coloro i quali vogliano comprendere la realtà di oggi, che aspirino a trasforma­zioni economiche e sociali di natura radicale, e vogliano muoversi nella direzione di queste trasformazioni. Questa esperienza, però, non può contenere né la soluzione bella e fatta di tutti i problemi che oggi si pongono, in quei paesi che già sono diretti dalla classe operaia e dai partiti comunisti, né tanto meno la soluzione bella e fatta delle questioni che si pongono là dove invece i partiti comunisti o i partiti orientati verso il socialismo sono partiti di opposizione, che si muovono in condizioni profondamente diverse da quelle in cui si mosse l'avan­guardia della classe operaia in Russia per prendere il potere e dopo avere preso il potere. L'esperienza compiuta nella costruzione di una società socialista nell'Unione Sovietica non può contenere direttive per risolvere tutte le questioni che si possono presentare oggi a noi e ai comunisti di altri paesi, siano essi o non siano al potere, e a tutti i partiti di avanguardia della classe operaia e del popolo.

   Si creano così diversi punti o centri di orientamento e di sviluppo. Si crea quello che ho chiamato, nell'intervista che avete letto [1], un sistema policentrico, corrispondente alla situazione nuova, al mutamen­to delle strutture del mondo e delle strutture stesse dei movimenti operai, e a questo sistema corrispondono anche nuove forme di relazioni tra i partiti comunisti stessi. La soluzione che oggi, probabilmente, più corrisponde a questa situazione nuova, può essere quella della piena autonomia dei singoli movimenti e partiti comunisti e dei rapporti bila­terali tra di essi, allo scopo di creare una completa, reciproca compren­sione e una completa, reciproca fiducia, condizioni per una collabora­zione e condizioni per dare unità allo stesso movimento comunista e a tutto il movimento progressivo della classe operaia. Un sistema simile è probabilmente anche quello che può permettere una migliore esten­sione dei rapporti tra i movimenti comunisti e i movimenti di orienta­mento socialista, non comunisti (socialisti, socialdemocratici, di libera­zione nazionale, ecc.) che può permettere di affrontare e risolvere in modo nuovo le questioni dell'avvicinamento tra diversi settori del movi­mento operaio, della comprensione, della reciproca fiducia, dell'intesa ed eventualmente, domani, dell'accordo tra tutti i partiti che lavorino per delle trasformazioni socialiste nel mondo. La unità di azione, come noi l'abbiamo raggiunta in Italia con il partito socialista, e come è stata realizzata 'in altri paesi in altri periodi, è una delle forme attraverso le quali si risolve il problema di questo accordo, ma non è la sola possibile, anche se è tra le più avanzate.

   È evidente che, in questa situazione nuova, mentre lavoriamo in modo nuovo per stabilire il contatto con le altri parti del movimento comunista internazionale e con gli altri settori del movimento operaio e popolare orientati verso il socialismo, noi riaffermiamo con energia e dobbiamo lottare per accrescere nelle nostre file, nella classe operaia e nel popolo, lo spirito dell'internazionalismo proletario. Riusciremo però tanto più agevolmente a raggiungere questo scopo quanto più riu­sciremo a dare al nostro internazionalismo proletario un contenuto con­creto, preciso, che corrisponda alla situazione che ci sta davanti, che non si riduca alla ripetizione di formule del tempo passato, ma affronti con spirito e iniziative nuove tutti i problemi che si possono oggi pre­sentare ai partiti di avanguardia della classe operaia.

   Fedeli a questo orientamento, abbiamo lavorato per risolvere e abbiamo risolto la questione dei nostri rapporti con la Lega dei comu­nisti jugoslavi. Voi ricordate il passato, gli errori che sono stati com­piuti, il modo come questi errori sono stati corretti, e sono a voi pre­senti i passi che recentemente abbiamo fatto per ristabilire normali relazioni con i comunisti jugoslavi. Il mio viaggio a Belgrado, che ha avuto luogo in forma un po' precipitata perché da ambo le parti si dovette tenere conto di impegni preesistenti, era stato preceduto da contatti di altri dirigenti del nostro partito con dirigenti della Lega dei comunisti jugoslavi, ed ha approdato a un ottimo risultato. Abbiamo stabilito con la Lega dei comunisti jugoslavi rapporti bilaterali di solida­rietà e di fiducia, rapporti che svilupperemo, per riuscire a comprendere sempre meglio ciò che i compagni jugoslavi fanno e per far comprendere sempre meglio a loro ciò che noi facciamo, e per dare in questo modo, in questo campo, il nostro contributo alla soluzione del grande problema di stabilire nuovi rapporti fra tutti i settori del movimento operaio che marciano verso il socialismo, seguendo ciascuno una propria strada.

   Salutiamo in modo particolare l'accordo che è intervenuto recen­temente tra il Partito comunista dell'Unione Sovietica e i dirigenti della Lega dei comunisti jugoslavi in occasione del recente viaggio di Tito a Mosca. Invito i compagni a leggere e studiare il testo di questo accor­do, perché mi sembra possa costituire un modello di quelli che dovreb­bero essere i rapporti nuovi che si stabiliscono tra i differenti settori del movimento comunista.

   In questa nuova situazione si presentano in una nuova luce anche i rapporti col Partito comunista dell'Unione Sovietica e con il grande movimento dei comunisti sovietici. Questa questione è stata in parte complicata dall'interferire, nella trattazione di essa, delle rivelazioni con­tenute nel rapporto fatto dal compagno Krusciov in una seduta riser­vata del XX Congresso.

   Queste rivelazioni hanno suscitato sorpresa e commozione, hanno creato quel turbamento che voi sapete e dato inizio nel nostro partito, e credo anche in altri partiti comunisti, a un ampio dibattito, tuttora in corso. A parte questo fatto, la questione dei rapporti tra il movi­mento comunista degli altri paesi e il Partito comunista dell'Unione Sovietica si poneva egualmente. Era una questione oggettivamente ma­tura, perché la situazione stessa richiedeva che questi rapporti venissero esaminati e chiaramente posti su una base nuova. I fatti che sono avve­nuti hanno senza dubbio accelerato il processo; hanno dato una spinta alla soluzione migliore di esso e lo hanno reso evidente alle grandi masse dei comunisti e dei lavoratori di opinione avanzata, e questa è una cosa positiva.

   Voi sapete come il nemico e i suoi servi trattano questa questione. Con la massima volgarità e stupidaggine, affermano che i comunisti sono in tutto il mondo, sono sempre stati e saranno sempre i servi di Mosca, obbedienti agli ordini che vengono dal Partito comunista dell'Unione Sovietica e dallo Stato che questo partito dirige. Possiamo trascurare questo modo di porre la questione, che corrisponde a una totale incapacità di comprendere la realtà, di capire che cosa è stato, nella storia d'Europa e del mondo, lo sviluppo del movimento comuni­sta tra la prima e la seconda guerra mondiale e in seguito, durante e dopo la guerra.

   Quando la classe operaia nella Russia prese il potere nel 1917, lo tenne nelle sue mani, respinse vittoriosamente gli attacchi di ogni sorta di nemici, si accinse alla costruzione di una società socialista e dette per la prima volta nel mondo l'esempio reale, evidente, di una società socialista costruita sotto la direzione di un grande partito comu­nista, quando questo avvenne, le avanguardie della classe operaia nel mondo intiero non potevano non orientarsi sopra questo grande esem­pio, non vedere in esso un centro di orientamento e di guida per tutta l'avanzata verso il socialismo in un mondo che al socialismo era fiera­mente ostile e che l'imperialismo completamente dominava. È questo orientamento che ha permesso al movimento comunista di sorgere, di svilupparsi, di affermarsi, di andare avanti, di dare il proprio, decisivo contributo allo sviluppo delle grandi lotte democratiche e sociali che riempiono di sé gli ultimi decenni della storia europea. Naturalmente, questo contributo è stato tanto più grande, tanto più efficace, tanto migliore, quanto più il movimento comunista, orientandosi secondo l'esempio e la guida che ho detto, ha saputo mantenere, rafforzare, sviluppare le proprie radici nella classe operaia, nel popolo, nelle condi­zioni storiche e nelle tradizioni del proprio paese, e quindi diventare elemento permanente dello sviluppo della lotta politica e della società.

   Non è necessario ripetere che in tutto il periodo storico successivo alla rivoluzione d'ottobre, e fino allo scoppio della guerra mondiale e anche dopo, le posizioni politiche del Partito comunista dell'Unione Sovietica, da esso affermate e difese, contro ogni sorta di nemici, hanno giustamente orientato, nelle cose essenziali, le avanguardie della classe operaia dell'Europa e del mondo intiero. Non sono venuti, in questo periodo storico, da nessun'altra parte, un insegnamento e una guida che potessero giustamente orientare le avanguardie della classe operaia e le avanguardie democratiche, come esse furono orientate da Lenin prima, e poi dalle realizzazioni del partito dei bolscevichi russi. Da Lenin e dalla rivoluzione russa venne la necessaria spinta alla radicale rottura con l'ideologia e con la pratica del riformismo, indispensabile per avere una base solida di sviluppo del movimento operaio e di avan­zata verso il socialismo. Dalla stessa fonte vennero le necessarie ispira­zioni per la creazione di quei partiti operai rivoluzionari, senza i quali un affermarsi progressivo della classe operaia come elemento dirigente delle grandi masse popolari e della vita nazionale non è possibile. E in seguito poi, quando l'Europa e il mondo intiero attraversarono per alcuni decenni un periodo di così profonde crisi, le posizioni assunte dai compagni che stavano alla testa del Partito comunista dell'Unione Sovietica orientarono giustamente non soltanto le avanguardie della clas­se operaia, ma tutto il movimento democratico e progressivo nell'Eu­ropa e nel mondo.

   Prendiamo ad esaminare, per esempio, il decennio che si colloca fra il 1930 e il 1940. Fu un periodo di tragica rottura e quasi di disfa­cimento dell'Europa. Doveva mettere capo, da un lato alla distruzione delle libertà democratiche nella maggior parte del continente europeo, al di fuori dell'Unione Sovietica, dall'altra parte allo scoppio della se­conda guerra mondiale. Il fascismo governava, era al potere in Italia dal 1922. Andò al potere in Germania. Dominava in tutti i paesi balca­nici. Un regime di tipo fascista esisteva nella Polonia. Il fascismo sca­tenò una guerra civile e una guerra vera e propria per riuscire a di­struggere il regime democratico e repubblicano nella Spagna. Giunse a conquistare, con le intimidazioni e con le armi, l'Austria e la Cecoslo­vacchia. Nei paesi di cosiddetta democrazia occidentale, prevaleva nella classe dominante la tendenza al compromesso con il fascismo, a mettersi d'accordo con hitleriani e fascisti per liquidare in un modo o nell'altro tutte le conquiste democratiche fatte dal popolo e instaurare regimi di aperta dittatura delle classi più reazionarie. È in questo periodo che si collocano le giuste ed efficaci azioni dell'Unione Sovietica e del partito che la dirigeva, per ispirare e guidare non soltanto la classe operaia, ma tutte le forze demo­cra­tiche e tutti i popoli dell'Europa a una conseguente difesa della demo­crazia, a unirsi per riuscire a battere il fascismo e allontanare il pericolo di un nuovo conflitto mondiale. Fu una lotta ostinata, lunga, paziente, che i dirigenti dell'Unione Sovie­tica condussero per riuscire a far prevalere quella linea di collabora­zione delle forze democratiche che avrebbe potuto salvare il mondo dagli orrori della seconda guerra mondiale.

   Oggi è facile dimenticare queste cose, e rappresentarci la realtà come se ci fossero stati nell'Unione Sovietica soltanto degli assassini e di qua degli agnelli che stessero in adorazione davanti agli ideali della democrazia! Questa rappresentazione non ha niente a che fare con la realtà. L'Unione Sovietica fu, in quel terribile decennio della storia d'Europa, il baluardo più forte, il difensore più conseguente dei principi della democrazia, della libertà e della pace. Per questo trascinò dietro a sé, con una politica giusta, le grandi masse popolari di tutto l'Occidente. È facile, oggi, negarlo, perché è sempre facile dire delle bugie. Noi sapevamo e tutti sapevano benissimo quali fossero allora le intenzioni delle classi dirigenti del cosiddetto Occidente democratico europeo, della Francia e anche dell'Inghilterra, in special modo. Preva­levano in esse coloro che intendevano, con l'aiuto del fascismo, prepa­rare lo strozzamento dei regimi democratici e scatenare l'attacco della barbarie fascista contro il paese del socialismo. Se non vi fosse stato, nel 1939, quel patto di non aggressione tra l'Unione Sovietica e la Germania, la sola prospettiva che con tutta probabilità sarebbe rimasta aperta era quella di un nuovo compromesso tra le grandi potenze occi­dentali e la Germania fascista, alle spalle, forse, del popolo polacco, ma con lo scopo principale di spingere Hitler ad attaccare il paese del socialismo e distruggere tutte le conquiste rivoluzionarie della classe operaia. Se vi furono in quel patto momenti che poterono allora sem­brare negativi, furono dovuti a chi aveva respinto quella politica di unità democratica e per la difesa della pace che da anni ed anni era stata proclamata e difesa dall'Unione Sovietica, di fronte alla resistenza, agli intrighi, alle calunnie dei dirigenti delle democrazie occidentali, oltre che del fascismo.

   Quale politica facemmo noi allora? Facemmo, dietro l'ispirazione che ci veniva dai comunisti sovietici, una grande politica democratica, socialista e di pace. Questo fu e rimane il nostro merito storico princi­pale e non soltanto, come ora si vorrebbe far credere, l'eroismo, che nessuno può negare, dei nostri militanti nella Resistenza e nella guerra. Correggemmo errori di valutazione, errori di strategia e di tattica che avevamo compiuto nel periodo precedente, e particolarmente alla vigilia dell'andata al potere del fascismo in Germania, ponemmo al centro del nostro lavoro e della nostra lotta l'azione delle masse operaie e lavoratrici di tutta l'Europa per impedire l'avanzata del fascismo e impe­dire lo scoppio della seconda guerra mondiale. Il fronte popolare, di cui oggi è moda parlare come di qualcosa di deteriore, fu il più grande tentativo fatto negli ultimi decenni per dare un nuovo corso alla poli­tica democratica nell'Europa e, direi, nel mondo intiero: per evitare che il fascismo dovesse essere liquidato attraverso gli orrori di una nuova guerra. Il fallimento di quel tentativo fu la premessa del crollo della democrazia e fu la premessa di quel disperato sforzo che i fascisti fecero per impadronirsi del mondo intiero con le loro armi e con la loro barbarie.

   Né io rievoco oggi queste cose per dare rilievo a meriti particolari del nostro partito o di suoi dirigenti, nell'elaborazione e nell'attuazione di quella politica. Le rievoco invece precisamente per ricordare la parte che ebbero l'Unione Sovietica e quel partito comunista nell'ispirare a tutti i comunisti e alla classe operaia di tutta l'Europa, quella grande politica democratica. Vero è che questo avveniva mentre nell'Unione Sovietica, ci dicono ora, aveva luogo un'ondata di azioni illegali, di violenze, di violazioni della legalità rivoluzionaria ai danni di dirigenti stessi del partito. Noi non lo potevamo né sapere né immaginare. La nostra fiducia e solidarietà operante con il Partito comunista dell'Unio­ne Sovietica derivava proprio dal fatto che sotto l'ispirazione e la guida di quel partito sviluppavamo quella grande politica e proprio per questo non potevamo nutrire dubbio alcuno circa le forme di sviluppo e attua­zione della democrazia nell'Unione Sovietica. Non fu proprio di quegli anni l'approvazione di quella Costituzione sovietica che cancellò i limiti alla democrazia che esistevano nelle precedenti Costituzioni?

   Ed è proprio allora che il movimento comunista incomincia ad avere una sua autonomia di sviluppo, se non in tutti, per lo meno in parecchi paesi, e si preparano quelle condizioni che in seguito imposero lo sciogli­mento dell'Internazionale comunista. Nel seno dell'Internazionale co­munista è menzogna che vi fosse soltanto un gruppo che comandava e dei comunisti non russi che ubbidissero. Anche queste cose ai compa­gni che non le conoscono per non averle vissute le dovremo ricordare. Nell'Internazionale comunista si ebbero per anni ed anni grandi dibat­titi, accompagnati, è vero, da una grande disciplina. Un grande dibattito accompagnò la liquidazione dei gruppi trotskisti e di destra, che nega­vano la possibilità stessa della costruzione di una società socialista. Seri dibattiti ebbero luogo quando, tra il 1928 e il 1931, prevalsero giudizi e orientamenti estremisti che noi ritenevamo sbagliati. Un grande dibat­tito ebbe luogo prima del VII Congresso dell'Internazionale comunista. Si fecero anche errori. Vi furono reciproche incomprensioni. Posso ricor­dare, per esempio, che il giudizio che venne dato al XVIII Congresso del partito bolscevico sul nostro partito, nel rapporto che venne fatto a quel congresso sulla situazione del movimento comunista mondiale, era un giudizio profondamente sbagliato, e anche cattivo. Si parlava del nostro partito come se fosse inesistente, mentre il nostro partito viveva e combatteva, in condizioni del tutto diverse da quelle in cui mai un partito avesse lavorato e si fosse sviluppato. Ma quel giudizio venne spazzato via e non se ne parlò più quando incominciò la guerra e il nostro partito cominciò a mostrare in modo aperto ciò che era e ciò che era capace di fare, alla testa degli operai e del popolo.

   In seguito, durante e dopo la guerra, e soprattutto là dove i partiti comunisti erano cresciuti, come partiti che avessero profonde radici nei loro paesi, l'autonomia di questi partiti divenne più grande, anche se - e questo dobbiamo dirlo, questo non possiamo in nessun modo lasciare che venga dimenticato - anche se in questo periodo ancora una volta dall'Unione Sovietica è venuta una ispirazione decisiva, per la resistenza e la lotta contro la politica cui gli imperialisti americani dettero inizio un paio d'anni dopo la fine della guerra, per tentare di imporre a tutto il mondo il loro dominio.

   La cosa più importante, però, è che in questo ultimo periodo il movimento comunista si è sviluppato con ampia autonomia. E i partiti che hanno saputo lavorare da sé e bene sono andati avanti per la loro strada.

   Ho visto che in una riunione di cellula un compagno ha detto di essersi sentito sbalordito a leggere che dal 1947 in poi noi non abbiamo mai discusso delle nostre questioni politiche e del nostro lavoro in un'assemblea internazionale. Ma questa è la pura verità. Credo inoltre che i compagni, i quali avessero seguito con una certa acutezza gli svi­luppi della nostra politica e dell'azione nostra in tutti i campi, si sareb­bero dovuti accorgere che così era e doveva essere, perché gli sviluppi della nostra politica sono stati così strettamente legati alle cose del nostro paese, che non poteva essere che ci venissero dettati dal di fuori o che dal di fuori si esercitasse su di noi non so quale controllo. Siamo cresciuti e ci siamo affermati come comunisti italiani, la cui condotta politica era dettata dalle condizioni del nostro paese e dalle necessità vitali del nostro popolo e da niente altro.

   Quando si formò l'Ufficio di informazione, non nego che ci fosse qualche dubbio tra di noi, per avere avvertito che quell'atto, in sostanza, fosse contrario alla linea di sviluppo del movimento comunista che era stata presa quando venne sciolta l'Internazionale comunista. Però senti­vamo il bisogno, in quella situazione, di una ripresa dei contatti tra i differenti settori del movimento comunista, appunto perché eravamo nel momento in cui si scatenava la grande offensiva della guerra fredda contro le forze comuniste, contro il socialismo, contro la democrazia e la pace.

   Non esito a richiamare alla memoria dei compagni che in alcuni casi vi furono differenze tra ciò che i comunisti sovietici dicevano su certe questioni e ciò che noi sostenevamo, ma ciò non ruppe mai la reciproca solidarietà e comprensione.

   Il contrasto più evidente e forse più grave - e lo ricordo perché ha una certa importanza in relazione con questioni che oggi si discu­tono - ebbe luogo soltanto nel gennaio del 1951. Allora io mi recai a Mosca per un periodo di convalescenza, dopo il grave incidente che mi era capitato e il successivo atto chirurgico, e mi trovai di fronte alla proposta del compagno Stalin che dovessi abbandonare il lavoro di segretario del Partito comunista italiano per assumere l'incarico di segretario generale dell'Ufficio di informazione. La mia posizione fu subito contraria, e per molti motivi. Ritenevo che un simile atto, poiché non poteva non significare, davanti all'opinione pubblica, un ritorno all'organizzazione dell'Internazionale comunista, non poteva non avere ripercussioni gravi e negative sullo sviluppo della situazione interna­zionale, in un momento che già era di estrema gravità. In secondo luogo ritenevo che non fosse giusto prendere quell'indirizzo per ciò che riguardava l'organizzazione del movimento comunista internaziona­le. Infine vi erano contrarie ragioni di ordine personale. Vi furono vivaci dibattiti, ma la cosa venne risolta bene, perché il compagno Stalin ritirò la sua proposta.

   Oggi le critiche che sono state fatte all'attività del compagno Sta­lin e la denuncia dei terribili errori da lui commessi hanno spinto e spingono a riesaminare tutta una serie di questioni e quindi anche quella dei rapporti reciproci tra i comunisti dell'Unione Sovietica e il movi­mento comunista degli altri paesi. Non so se qui verrà posto il pro­blema, che è stato sollevato in alcune discussioni di cellula e di sezione, del modo come il nostro partito è stato informato di queste critiche, e in particolare del contenuto preciso del rapporto fatto dal compagno Krusciov. Noi riconosciamo che il modo è stato cattivo, ma d'altra parte chiediamo si riconosca che la nostra responsabilità non vi è impe­gnata per nulla. Per ragioni di evidente correttezza verso i compagni sovietici, non potevamo agire se non come abbiamo agito. Nel nostro partito è anche stato espresso un certo malcontento critico per alcuni aspetti e per la forma del rapporto. Voglio ricordare ai compagni che non si può però considerare il rapporto come qualcosa di isolato. Biso­gna porlo in relazione con tutto quello che è stato detto al congresso e che ne fornisce l'inquadratura. A parte però che il rapporto, come documento isolato da tutto il resto, possa apparire per alcuni aspetti non felice, rimangono alcuni punti fondamentali su cui dobbiamo essere d'accordo, sui quali, anzi, non possiamo non essere d'accordo. Il primo è che il rapporto racconta dei fatti e questi fatti noi non li possiamo contestare. Non possiamo se non credere a coloro che ci espongono questi fatti, anche se nel passato questi fatti non li conoscevamo e non li potevamo nemmeno immaginare. La denuncia di questi fatti non poteva non essere compiuta davanti al partito. Circa il modo di com­pierla, non sta a noi esprimere un giudizio, perché ogni partito ha le sue norme e il suo costume di vita interna. Possiamo non essere contenti del modo come la denuncia è stata portata a conoscenza del movimento comunista nei paesi capitalistici, ma questo è un altro problema. Dob­biamo riconoscere che la denuncia degli errori e l'azione iniziata ed energicamente condotta per correggerli sono atti eminentemente posi­tivi. La correzione doveva essere fatta e deve essere salutata. Essa costi­tuisce una riaffermazione e avrà come conseguenza il rafforzamento del carattere democratico della società socialista. Essa restaura i principi e la pratica della democrazia nella vita interna del Partito comunista dell'Unione Sovietica, là dove questo carattere democratico era venuto meno. Questo doveva farsi e non potè avere che risultati favorevoli sullo sviluppo del partito comunista e della società socialista nell'Unione Sovietica, sullo sviluppo del movimento comunista nei paesi dove i comunisti già sono al potere, sullo sviluppo del movimento comunista nei paesi capitalistici e sullo sviluppo di tutto il movimento operaio e socialista nel mondo intiero.

   È evidente che dalle gravi denunce e critiche di oggi la persona di Stalin esce molto diversa da quella che ci eravamo rappresentata. Non esce però distrutta. Dovrà ricevere nuove dimensioni. Si presenta come una personalità profondamente contraddittoria nel suo interno e nella sua evoluzione. A un massimo di cose buone andava accoppiato in essa un massimo di cose cattive. Ma questo problema, oramai, è problema di storia. I compagni sovietici dovranno aiutarci, essi che conoscono le cose come noi non possiamo, a comprenderlo e risolverlo sempre meglio.

   Per quel che riguarda la nostra «corresponsabilità», di cui oggi tanto si parla dagli avversari ed è stata uno dei loro cavalli di battaglia nella lotta elettorale, essa ha un contenuto politico. Esiste perché noi abbiamo accettato, senza critica, una posizione fondamentalmente falsa circa l'inevitabile inasprimento della lotta di classe con il progresso della società socialista, teoria che era stata enunciata da Stalin e dalla quale derivarono terribili violazioni della legalità socialista. Esiste una nostra responsabilità anche di avere accettato, e introdotto nella nostra propaganda, il culto della persona di Stalin, anche se qui si debba rico­noscere che ci siamo guardati dal trasportare quel metodo all'interno del nostro partito. Il modo come ci siamo sforzati di organizzare il nostro partito, di orientarlo e dirigerlo nelle sue questioni e nella sua vita interna si può anche affermare che sia stato un tentativo per supe­rare di fatto molti tra i difetti che le critiche a Stalin mettono in evi­denza.

   Riconosciute tutte queste cose, rimangono però aperti molti pro­blemi. Il rapporto stesso non dà una risposta esauriente e soddisfa­cente a tutte le questioni che sorgono davanti a colui il quale lo esamini. Il dibattito e la critica debbono però a questo punto essere portati sul terreno politico, sul quale si muovono i marxisti quando intendono analizzare determinate situazioni e ricavare determinate conseguenze. Sorge la questione di ciò che ha reso possibili errori così gravi, e soprat­tutto il fatto che attorno ad essi si creasse un consenso e una connivenza, che giungono fino alla corresponsabilità di coloro che oggi li denun­ciano. Di qui discende la questione non soltanto delle necessarie corre­zioni, ma delle garanzie contro il ripetersi di errori simili.

   Le risposte che ho dato alle domande che mi sono state presentate sono un primo tentativo di affrontare alcune delle questioni che sorgono in relazione con questi problemi. Il mio scritto, che voi conoscete, prima della pubblicazione è stato visto dai compagni della segreteria del par­tito. Porta però la mia firma e impegna essenzialmente la mia responsa­bilità, perché riconosco che i temi trattati sono di tale portata che un singolo compagno non può pretendere che la sua posizione possa essere subito e fino all'ultimo giusta. Il dibattito oggi è aperto nel movimento comunista internazionale e in tutto il movimento socialista e democra­tico. Ad esso dovrà dare il proprio contributo ulteriore anche il nostro partito, nella preparazione del suo prossimo congresso.

   Avete letto come ho affrontato il tema delle cosiddette riforme istituzionali che, da parte di taluni, si afferma che dovrebbero compiersi nell'Unione Sovietica, essendo indispensabili per impedire il ripetersi di fatti così gravi come quelli denunciati nel rapporto del compagno Krusciov. La risposta che io ho data tende a sottolineare quello che per me rimane un fatto fondamentale, e cioè che la rivoluzione di otto­bre ha creato una società politica di un tipo nuovo, profondamente diverso dalle società democratiche dell'Occidente capitalistico. Corre­zioni dovranno essere fatte, misure dovranno essere prese, garanzie do­vranno essere date, ma la originalità di questa società, quale essa è uscita dalla rivoluzione e dall'opera di costruzione economica e politica di una nuova società socialista, io credo non possa non rimanere. Questa originalità sta nel sistema sovietico e nella direzione politica del partito comunista.

   In relazione con questa questione, viene sollevato il problema della dittatura del proletariato. Ci si chiede se gli atti così riprovevoli, che il rapporto di Krusciov denuncia e di cui la responsabilità prima risale al compagno Stalin e a determinati suoi collaboratori, non siano dovuti a quella forma di organizzazione della società che è la dittatura del proletariato. Anche questo tema è degno di essere affrontato e noi non dobbiamo avere il timore di affrontarlo, purché stiamo attenti a non semplificare le cose e a non cadere nelle banalità e volgarità so­cialdemocratiche.

   Alle volte, quando si affrontano problemi di dottrina, come questo, si nota la tendenza errata a cogliere un solo aspetto delle nostre dottrine, delle posizioni, per esempio, sostenute da Lenin e sviluppate dai classici del marxismo e dai dirigenti dell'Unione Sovietica a proposito del con­cetto stesso e delle forme della dittatura proletaria. Bisogna saper vedere sempre il complesso di queste posizioni. Nella elaborazione del concetto di dittatura proletaria, che è un concetto essenziale della dottrina marxi­sta, diversi punti sono stati messi in evidenza.

   Prima di tutto, fa parte della dottrina della dittatura del proleta­riato l'affermazione del carattere di classe dello Stato e di ogni Stato, tanto dello Stato diretto dalla borghesia quanto dello Stato diretto dalla classe operaia. «Ogni Stato è una dittatura» diceva Gramsci. Questa affer­ma­zio­ne è vera e rimane valida. La costruzione della società socia­lista costituisce un periodo transitorio tra la rivoluzione che abbatte il capi­ta­li­smo e il trionfo del socialismo e il passaggio al comunismo. In questo pe­riodo transitorio, la direzione della società appartiene alla classe operaia e ai suoi alleati, e il carattere democratico della dittatura prole­ta­ria deriva dal fatto che questa direzione si realizza nell'interesse della schiac­ciante maggioranza del popolo, contro i residui delle vecchie classi sfruttatrici. Si può discutere quanto debba e possa durare questo periodo transitorio, ed altrettanto evidente è che nel corso di esso ci possono essere diverse fasi, e quindi forme diverse di sviluppo demo­cratico. Nella Unione Sovietica diverse fasi ci sono state. Una cosa era la Costituzione del 1924; una cosa diversa è la Costituzione del 1936. Sulla base di questo esempio, non possiamo escludere, anzi, riteniamo del tutto vero­si­mi­le che nell'Unione Sovietica, pur restando la direzione politica nelle mani della classe operaia e dei suoi alleati, la democrazia possa e debba svi­lup­parsi in modo nuovo, conservando però le sue caratteristiche originarie.

   Ma questo non è tutto ciò che vi è nella dottrina della dittatura del proletariato. Prima Marx ed Engels e in seguito Lenin nello svi­luppare questa teoria affermano che l'apparato dello Stato borghese non può servire per costruire una società socialista. Questo apparato deve essere dalla classe operaia spezzato e distrutto, sostituito dall'appa­rato dello Stato proletario, cioè dello Stato diretto dalla classe operaia stessa. Questa non era la posizione originaria di Marx ed Engels: fu la posizione cui essi giunsero dopo la esperienza della Comune di Parigi e fu particolarmente sviluppata da Lenin. Questa posizione rimane pie­namente valida, oggi? Ecco un tema di discussione. Quando noi, infatti, affermiamo che è possibile una via di avanzata verso il socialismo non solo sul terreno democratico, ma anche utilizzando le forme parlamen­tari, è evidente che correggiamo qualche cosa in questa posizione, tenen­do conto delle trasformazioni che hanno avuto luogo e che si stanno ancora compiendo nel mondo.

   Il terzo punto sul quale si può concentrare l'attenzione è quello che riguarda le forme di esercizio del potere nel regime di dittatura del proletariato. Lenin disse chiaramente, all'inizio, che le forme di organizzazione che la dittatura del proletariato prendeva nella Russia non sarebbero state obbligatorie in tutti gli altri paesi. Possiamo noi oggi, sottolineando in modo particolare questa affermazione, dare ad essa una certa estensione, per giungere alla conclusione che anche per quanto riguarda l'esercizio del potere le affermazioni fatte da Lenin nei primi anni di esistenza della repubblica sovietica corrispondevano a quella situazione, a una situazione di rottura rivoluzionaria, di guerra civile, di sviluppo di un potere che doveva essere difeso con tutti i mezzi e ad ogni costo contro gli attacchi che venivano da ogni parte, ma possono non corrispondere a situazioni diverse? A me sembra evi­dente che, in situazioni diverse, quelle affermazioni non sono valide. E qui si presenta la questione della esistenza di diversi partiti in una società socialista e del contributo che diversi partiti possono dare alla marcia verso il socialismo. È inutile e persino sciocco ci vadano rican­tando che la nostra esaltazione della vittoria della rivoluzione di ottobre e la nostra solidarietà di decenni col Partito comunista dell'Unione So­vietica significhino che noi riteniamo che in tutto il mondo e in qualsiasi situazione debbano essere obbligatoriamente fatte le stesse cose che si son fatte in Russia. Ciò che si è fatto nell'Unione Sovietica non è il modello - e in questo campo in modo particolare - di ciò che potrà e dovrà essere fatto in altri paesi, a seconda delle condizioni ivi esistenti. Ammettiamo senza difficoltà che in una società dove si costruisce il socialismo possano esserci diversi partiti, di cui alcuni colla­borino a questa costruzione. Ammettiamo che la spinta a profonde tra­sformazioni di indole socialista possa venire da partiti diversi, i quali giungano a intendersi per poter attuare queste trasformazioni. Le pro­spettive che a questo proposito si aprono sono, senza dubbio, molteplici. Si può giungere (e, se non sbaglio, di questo si sta discutendo fra i dirigenti di un grande paese oggi diretto dai comunisti) a considerare la estinzione stessa dei partiti in conseguenza dell'affermarsi di una società socialista unitaria, come il risultato di un processo che investa ugualmente tanto il partito comunista quanto gli altri partiti che con esso collaborano. Si giungerebbe cosi, attraverso un processo di natura nuova, a creare una società di nuovo tipo, avente una sua struttura politica che corrisponda alla avanzata e in fine alla vittoria definitiva del socialismo.

   Ponendo queste questioni ci siamo gradualmente avvicinati ai temi che dovranno stare, e staranno senza dubbio al centro del nostro di­battito precongressuale, ai temi della linea politica del nostro partito e della sua applicazione, del modo come riteniamo che in Italia si pon­gano le questioni di trasformazione delle strutture economiche per la costruzione di una società socialista.

   Non credo sia compito del Comitato centrale, all'inizio di un dibat­tito precongressuale, affermare senz'altro che la linea seguita dal partito sia stata giusta o non sia stata giusta. Questo è il problema che dobbiamo oggi porre davanti al partito e alla discussione del quale il partito deve dare il suo contributo. A noi interessa che la discussione si svolga nel modo più libero possibile. A noi però incombe il compito di mettere bene in rilievo quali sono stati gli elementi della linea politica che abbiamo seguito, affinché il giudizio che si possa dare sulla sua giu­stezza sia un giudizio fondato e seriamente investa le questioni che debbono essere trattate.

   Quali sono dunque stati gli elementi fondamentali della nostra linea politica? Siamo partiti dalla analisi delle strutture economiche della società italiana e della sua struttura politica. Questa analisi ci ha portati a individuare le forze motrici di una rivoluzione democratica e socialista (e uso questi termini perché entrambi questi elementi hanno caratterizzato il nostro movimento) nella classe operaia e nelle masse contadine con le quali deve stabilirsi una alleanza di classe e politica per la lotta contro le vecchie classi dirigenti capitalistiche. Particolar­mente abbiamo individuato nelle condizioni di arretratezza del Mezzo­giorno condizioni oggettive, create dallo sviluppo storico del nostro pae­se, che danno un contenuto particolare a questa alleanza di classe e ne estendono l'ampiezza fino ad abbracciare in queste regioni più arre­trate ampi gruppi anche di piccola e media borghesia urbana. Il maggior contributo a questa analisi è stato dato dal compagno Gramsci e voi lo conoscete.

   Dopo la Resistenza, dopo la guerra e dopo il crollo del fascismo si sono create condizioni nuove. È stata fatta una nuova grande espe­rienza; atti nuovi sono stati compiuti; le forze di classe si sono mosse in modo diverso e da tutto questo sono derivate conseguenze particolari. Abbiamo quindi cercato, in relazione con lo sviluppo dei fatti, di arric­chire la nostra analisi sia della struttura della nostra società, sia dei compiti della classe operaia. La prima e la principale delle conseguenze che abbiamo ricavate da tutto ciò che avvenne sotto il fascismo e du­rante la guerra è stata la nuova affermazione della funzione nazionale della classe operaia e delle masse lavoratrici più vicine ad essa, nel momento in cui le classi dirigenti capitalistiche rinunciavano alla loro posizione dirigente, e con la loro politica portavano la nazione alla cata­strofe. Tutta la nostra politica, in tutti i suoi atti, è sempre stata ispi­rata dal proposito di realizzare questa funzione nazionale della classe operaia, di renderla evidente, di dare una coerenza nazionale agli atti politici che il partito compiva in tutti i campi della sua attività.

   Caduto il fascismo, si pose il problema di costruire una società nuova e, per la parte stessa che in quella caduta ebbero la classe operaia e le forze democratiche, poterono essere conquistate alcune posizioni di valore fondamentale, punti di arrivo di un grande processo di rinno­vamento che ad un certo momento venne arrestato, ma punti di partenza per la nostra azione successiva. Queste posizioni sono, essenzialmente, la Costituzione democratica e repubblicana dello Stato, i principi in essa affermati e quindi l'organizzazione di una democrazia la quale, se dovesse effettivamente corrispondere a ciò che la Costituzione dice, già sarebbe una democrazia di tipo nuovo, diverso non solo da tutto ciò che vi era in Italia prima del fascismo, ma diverso dalle democrazie capitalistiche di tipo tradizionale. Di qui noi abbiamo derivato l'orien­tamento generale della nostra lotta politica, che è stata una lotta demo­cratica per l'applicazione della Costituzione repubblicana nei suoi prin­cipi politici e nei suoi principi economici, per l'attuazione cioè, di quelle riforme che, in modo più o meno esplicito, essa indica. Linea politica, quindi, di conseguente sviluppo democratico e di sviluppo nella dire­zione del socialismo attraverso l'attuazione di riforme di struttura pre­viste dalla Costituzione stessa.

   Naturalmente, il seguire una linea di sviluppo democratico non poteva dire e non ha mai voluto dire, per noi, affermazione vuota della necessità di determinate riforme. Ha voluto dire lotta delle masse per le loro rivendicazioni immediate e per delle grandi riforme sociali; ha voluto dire lotta per la unità delle masse lavoratrici, e prima di tutto della classe operaia; ha voluto dire grande e continuo sforzo dei partiti della classe operaia per stringere sempre più ampie alleanze con tutti quegli strati della popolazione lavoratrice che possono e debbono essere interessati a una trasformazione profonda delle strutture della società.

   Di qui è venuto il carattere positivo, costruttivo della nostra poli­tica. Di qui il fatto che l'azione del nostro partito ha cercato di giungere sempre alla formulazione di obiettivi, vicini o lontani, che dovevano essere raggiunti attraverso il movimento e la lotta delle masse sul ter­reno democratico e utilizzando tutti gli istituti della nostra democrazia. Questo abbiamo cercato di fare per quello che si riferisce agli interessi, alle rivendicazioni e ai compiti della classe operaia, delle classi contadine e di certe categorie del ceto medio. Questo abbiamo cercato di fare ponendo in modo nuovo - anche se il partito non ha sempre compreso bene tutto ciò che lo si invitava a fare - determinati problemi, come per esempio quello della emancipazione delle masse femminili, strumen­to importante per una conseguente trasformazione democratica della società italiana. Lo stesso per ciò che si riferisce ai problemi giovanili, della cultura e così via.

   Se ci avviciniamo al campo specifico della organizzazione del par­tito, ci sono state nell'attività nostra cose nuove? Credo che cose nuove ci sono state, per lo meno nel proposito degli organi dirigenti del par­tito. Prima di tutto vi è stato il proposito di costruire un partito che per la propria composizione, per il numero dei suoi aderenti, per la propria struttura e per il suo modo di funzionare fosse in grado di adempiere a una funzione positiva costruttiva; fosse in grado non sol­tanto di fare della propaganda, della agitazione, di predicare i grandi principi, ma di dirigere giorno per giorno la classe operaia, le masse lavoratrici e la maggioranza della popolazione a comprendere e difendere i loro interessi e princi­palmente a difendere e consolidare il regime democratico e svilupparlo nella direzione di profonde riforme sociali.

   A queste novità nella organizzazione del partito, su cui non mi soffermo ma che potrebbero essere ampiamente illustrate, doveva unir­si un regime interno esso pure di carattere particolare, accentuatamente democratico, perché un partito il quale sia chiuso in se stesso, buro­cratizzato, nel quale prevalga la tendenza non a pensare, ma soltanto a comandare o a obbedire, non è in grado di stabilire un largo collega­mento con le masse, quel collegamento che noi abbiamo sempre voluto che il partito stabilisse e che deve essere la caratteristica essenziale del nostro partito. Di qui una lotta continua per una democrazia interna del partito, per una forte attività e vivacità interna delle nostre orga­nizzazioni, il che non può e non deve contraddire né alla disciplina, né al metodo del centralismo democratico.

   Arrivati a questo punto, però, bisogna dire che gli elementi co­struttivi di una politica in coloro che l'hanno impostata e diretta non sono ancora la politica di un partito. Bisogna vedere come queste cose sono state attuate, come si sono realizzate, come il partito è stato gui­dato a realizzarle. La linea di cui ho esposto i capisaldi e che venne fissata e confermata ripetute volte nelle riunioni nazionali del partito, è stata compresa e realizzata così come avrebbe dovuto? Il partito se ne è impadronito pienamente, giustamente e a tempo? Credo se ne sia impadronito a poco a poco e soltanto in parte. Vi sono state, per lunghi periodi, larghe incomprensioni, riserve, lacune nella nostra atti­vità. Vi sono state resistenze ad attuare gli indirizzi che venivano dati. La più grave di queste incomprensioni e riserve credo fosse quella che consisteva - e non so se consista tuttora - nel considerare che la nostra affermazione del carattere democratico della nostra lotta per la trasformazione della società italiana, fosse una specie di trucco, qualcosa che noi adoperavamo per ingannare il nemico o superare difficoltà, per non esporci a determinati colpi e non fosse invece l'anima vera di una politica la quale discendeva dalle grandi vittorie che la classe operaia già aveva ottenuto e, partendo da quelle vittorie, voleva e vuole spingere avanti tutta la società.

   Di qui sono derivate parecchie difficoltà allo sviluppo del nostro partito, oltre che, naturalmente, dalla resistenza e dagli attacchi del­l'avversario e dallo sviluppo stesso delle cose. Bisogna dire che il nostro partito ha acquistato una grande capacità di superare queste difficoltà con un grande lavoro pratico di organizzazione. Questo lavoro pratico di organizzazione non deve essere né disprezzato né svalutato. È ele­mento essenziale dell'attività di un grande partito comunista. Ricordia­moci di ciò che diceva Lenin e cioè che l'organizzazione è il «solo» strumento che la classe operaia ha nelle sue mani per poter battere l'avversario. Non si può però con un lavoro pratico di organizzazione sostituire una politica. Alla fine, se ci si riduce a un lavoro di organizza­zione staccato da sempre nuove e ricche iniziative politiche, ci si trova di fronte a deficienze e insuccessi, non si riesce ad andare avanti come le condizioni oggettive renderebbero possibile.

   Nel dibattito sul primo punto all'ordine del giorno è stata concen­trata l'attenzione particolarmente su deficienze che vi sarebbero state nella politica e nella attività del partito nell'ultimo periodo, dopo le elezioni del 1953. Ciò è in parte vero. Vi fu senza dubbio qualche incertezza politica all'inizio, nel periodo del governo Pella. Affiorarono allora due posizioni diverse, da un lato la posizione di chi diceva che si trattava di un grossolano tentativo fatto dal partito dominante per cercare una strada nuova; d'altro lato la posizione di chi diceva che non vi era niente di nuovo, se non il fatto che i nostri nemici ungevano la corda con la quale ci avrebbero voluto impiccare. Queste due posi­zioni non si sono però apertamente affrontate, e questo fu male. Però non dimentichiamo che dopo quel breve periodo vi fu un anno e mezzo di governo Scelba, che fu il governo più reazionario che ci sia stato in Italia dopo la liberazione. Quel governo scatenò contro di noi una offensiva spietata, che arrivò fino al maccartismo aperto, a proclamare in un comunicato del consiglio dei ministri come linea di principio per tutta l'attività governativa la discriminazione fra i cittadini a secon­da che appartenessero o no al movimento avanzato della classe operaia. Dovemmo far fronte a questa offensiva e resistere. Le nostre capacità di organizzazione e di lavoro pratico dettero un contributo decisivo a questa resistenza e al suo successo. Se questa resistenza non ci fosse stata, altro che parlare di apertura a sinistra! Non sarebbe mai stata posta nessuna delle condizioni di quel nuovo sviluppo politico di cui oggi qualche cosa, anche se non molto, si sta delineando. Riconosco che, successivamente, delle timidezze e debolezze possono esservi state. Bisognerà vedere in che misura sono da riferire, anch'esse, a ciò che dicevo prima e cioè alla difficoltà che il nostro partito tuttora trova a passare da una resistenza e da una affermazione di se stesso ottenute col metodo dell'organizzazione e della lotta immediata, a una attività costruttiva, a proposte di contenuto nuovo e più ampio, alla organizza­zione di una spinta permanente che parta dalle masse popolari e riesca, strappando una conquista dopo l'altra, a far progredire tutto il movi­mento. In questo campo il nostro partito non ha ancora una capacità adeguata alla situazione. Dopo il grande successo ottenuto nel 1953 - che segnò, in sostanza, il fallimento della linea seguita fino allora da De Gasperi - e dopo la vittoriosa resistenza al governo maccartista di Scelba, queste deficienze diventarono più evidenti e non escludo che abbiano avuto manifestazioni anche nell'attività degli organi diri­genti.

   Per quello che si riferisce al regime interno, riceviamo oggi buone risoluzioni di nostre organizzazioni che criticano difetti di burocrati­smo, di caporalismo, assenza di vita democratica nelle formazioni di base e così via. Le affermazioni più chiare a questo proposito, di critica del partito e di indicazione dei suoi compiti, si trovano però, sino ad ora, in documenti di organi dirigenti del partito. Leggete le relazioni e i documenti dell'ultimo congresso e della conferenza nazionale del­l'anno passato e troverete queste cose dette meglio di quanto non ab­biano potuto essere dette nella lettera del compagno Durante a Rina­scita, che tutti certo conoscete. Ma non ci si può contentare di questo. Anche qui si è di fronte a un distacco fra le affermazioni generali, le indicazioni, i consigli, le direttive e la realtà della vita del partito. Ci si trova di fronte al grande difetto che le richieste di sviluppo della democrazia interna e quindi di un accrescimento della vivacità del par­tito non sempre sono state legate a una lotta per determinati obiettivi politici e per rendere il partito consapevole della necessità di lavorare nel modo necessario per raggiungerli. La lotta per un giusto regime interno non è stata collegata a un dibattito su temi politici attuali e urgenti. Di qui è anche venuta la scarsa efficacia di questa lotta, sono venuti i limiti alla democrazia interna del partito, la tendenza a restrin­gere questa democrazia, il caporalismo, e infine anche il mancato svi­luppo della nostra azione politica.

   Spetta ora a tutto il partito giudicare questo complesso di cose, i grandi momenti della nostra linea politica e il modo come è stata compresa e applicata per giungere alle necessarie conseguenze, indicare le correzioni che dovranno essere fatte e impegnare tutto il partito in questa direzione.

   Come dobbiamo ulteriormente sviluppare la linea del nostro par­tito? Dobbiamo continuare nella ricerca e attuazione di una via nostra, di una via italiana di sviluppo verso il socialismo. Ma vorrei correggere quei compagni i quali hanno detto - come se fosse senz'altro cosa pacifica - che via italiana di sviluppo verso il socialismo vuol dire via parlamentare e nulla più. Questo non è vero. Chi ha detto che «via italiana» voglia dire via parlamentare? Via italiana è una via di sviluppo verso il socialismo che tiene conto delle condizioni già rea­lizzate e delle vittorie già conseguite. Siccome queste vittorie hanno creato una larga base di sviluppo democratico, la via italiana è una via la quale prevede uno sviluppo sul terreno democratico, di rafforza­mento della democrazia e di sua evoluzione verso determinate, profonde riforme sociali. Se non si pone la questione in questo modo, se si fa una sommaria identificazione esteriore fra «via italiana» e «via parla­mentare» si possono creare da un lato illusioni pericolose, mentre dal­l'altro si possono avere anche gravi delusioni. Il compagno che lavora nelle fabbriche, che sa quale è il peso del potere del padrone, il cittadino il quale è giunto a conoscere quale è la natura e quale il peso del potere delle classi dirigenti capitalistiche nella attuale società e dall'altra parte vede che cosa è oggi il nostro parlamento, può arrivare alla con­clusione che per questa strada non si arriverà mai a un rivolgimento radicale. Bisogna dunque porre giustamente la questione.

   La via seguita finora da noi è stata una via conseguentemente democratica. Nel lavorare e lottare su questa via abbiamo però incon­trato aspre resistenze. Abbiamo dovuto combattere a denti stretti per difendere gli interessi dei lavoratori, la loro libertà e la loro vita, per strappare qualche miglioramento e qualche piccola riforma. In certi momenti si è persino posta la questione di dover combattere per salvare la legalità del nostro grande movimento, che qualcuno credeva di poter minacciare. Sapevamo che quelle erano vane illusioni di reazionari, ma erano vane illusioni perché eravamo forti e resistevamo e attorno a noi, nella lotta e anche nel sacrificio, si raccoglieva la grande massa dei lavoratori. La utilizzazione del parlamento è una delle possibilità di sviluppo di un'azio­ne conseguentemente democratica per ottenere delle profonde riforme di struttura. Perché questa possibilità possa rea­lizzarsi occorrono però deter­mi­nate condizioni. Occorre un parlamento che sia veramente specchio del paese, occorre un parlamento che fun­zioni e occorre un grande mo­vi­men­to popolare che faccia sorgere dal paese quelle esigenze che poi possano essere soddisfatte da un parla­mento in cui le forze popolari abbiano ottenuto una rappresentanza abbastanza forte. Né è sufficiente, perché il parlamento sia specchio del paese, che ci sia una rappresentanza proporzionale. È necessario venga spezzato, e ampiamente spezzato, tutto quel sistema di costrizioni, di coercizioni, di intimidazioni, di 'terrorismo spirituale, cui si ricorre in Italia in misura sempre più larga per impedire che il voto parlamen­tare corrisponda alla coscienza e alle necessità delle masse lavoratrici che votano. Dobbiamo tener presente quello che diceva Lenin circa il carattere illusorio della democrazia borghese. Noi pos­siamo oggi met­tere fine, in parte e anche in gran parte, a questo carattere illusorio, possiamo cioè creare un terreno veramente democratico sul quale si possa vittoriosamente svolgere la lotta per il socialismo, così come pre­vedevano i classici del marxismo. Ma perché si crei questo terreno, perché questo terreno esista e sia ampio, anche per questo è necessaria una forte lotta delle masse, una larga azione nel paese.

   Dobbiamo poi riconoscere che il funzionamento del parlamento italiano, soprattutto da qualche anno in qua, è deficiente, limitato, tale che impedisce al parlamento di adempiere le funzioni che gli spettano. Il parlamento oggi non adempie quasi in nessun modo la funzione di controllo sugli atti del potere esecutivo. Questo vuol dire che .anche di questo problema del funzionamento del parlamento dobbiamo fare oggetto di dibattito, di azione e di lotta nel paese. Infine, per la efficace utilizzazione delle possibilità parlamentari ai fini di un rinnovamento democratico e socialista si richiede un grande movimento popolare di massa da cui escano forti gruppi parlamentari, legati alle masse lavora­trici, capaci di esigere dal parlamento la soddisfazione delle richieste e rivendicazioni popolari.

   Vorrei poi anche ricordare che, quando si tratta la questione di una via italiana verso il socialismo, bisogna evitare di credere che si tratti di un tema da risolversi a tavolino, attraverso la elaborazione di formule più o meno nuove, dovute all'acutezza e originalità dell'uno o dell'altro diri­gen­te. Quel tanto che finora ci siamo aperto di «via italiana» è dovuto prima di tutto alla lotta delle masse popolari e quello che riusciremo ancora a conquistarci sarà il risultato di altre lotte e delle esperienze che faremo nel corso di esse. L'impegno demo­cratico del partito è una premessa, così come è una inderogabile pre­messa il suo impegno di essere sempre più strettamente legato alle condizioni e tradizioni del paese e del nostro movimento operaio.

   Ma che cosa è particolarmente importante, oggi, per la determina­zione della nostra linea politica? È importante la ricerca delle cose nuove, di quello che è cambiato, del modo come è cambiato e della situazione che si è creata in conseguenza di questi cambiamenti. Salu­tiamo tutte le ricerche del nuovo, pur mettendo in guardia contro gli schematismi e le astrattezze che alle volte si incontrano in questo campo. Non basta dire, per esempio, a un gruppo di compagni, che si sono perdute le elezioni nella tale fabbrica perché non si comprende che è in corso la seconda rivoluzione industriale. Siffatta affermazione gene­rica non aiuta il compagno a capire. Davanti ad essa il compagno si ritira in se stesso, non riesce alle volte nemmeno a comprendere quello di cui si parla e soprattutto quello che egli deve fare.

   La ricerca del nuovo deve essere sempre collegata con l'esame degli aspetti concreti e pratici del movimento delle classi, del movimento operaio e del nostro lavoro. Riconosco che, negli ultimi anni, lo studio dei problemi economici è stato trascurato dal centro del partito e in tutto il partito. Bisognerà recuperare ciò che si è perduto. Nel passato, quando si trattò, per esempio, di analizzare a fondo le basi oggettive, economiche, del regime fascista e l'influenza degli sviluppi economici sulle trasformazioni della politica fascista, riuscimmo a dare contributi di estrema importanza. Oggi dobbiamo studiare meglio la struttura eco­nomica del paese. Essa rimane una struttura capitalistica, ma di un tipo particolare. Vi sono da un lato zone di grande sviluppo e di ascesa, non sempre indipendenti da un aiuto dato dallo Stato e cioè da una protezione doganale, che grava su tutto il paese. Accanto a queste ci sono zone di man­cato sviluppo e di decadenza, come hanno dimostrato le grandi in­chie­ste sulla disoccupazione e sulla miseria. Lo sviluppo economico è andato nella direzione di dare una prevalenza alle strutture mono­po­li­sti­che, sia nelle città che nelle campagne, e la prevalenza di queste strutture ha creato contraddizioni di un tipo nuovo, ha dato origine a squilibri cre­scenti, non ha portato il paese a uno sviluppo armonico delle sue facoltà e possibilità, non gli ha permesso di avanzare verso la soluzione dei pro­blemi essenziali, che sono quelli del lavoro e del benessere dei cittadini, degli squilibri storici fra il nord e il sud e così via. Non bisogna dunque chiudere gli occhi davanti ai progressi che hanno luogo, ma guai, in pari tempo, se chiudessimo gli occhi da­vanti alla arretratezza di intiere regio­ni, che continua ad essere la carat­teristica più pesante del nostro paese.

   Per quello che si riferisce alle strutture politiche, non possiamo dire che esse corrispondano al quadro che è tracciato nella Costituzione, e per due motivi. Prima di tutto per la persistente inadempienza costi­tuzionale. I principi politici costituzionali sono tuttora largamente vio­lati. Le riforme della struttura politica previste dalla Costituzione - come la creazione delle regioni e l'affermazione delle autonomie locali - non sono realizzate. La discriminazione tra i cittadini, che è una degenerazione del regime democratico, continua ad essere norma di condotta delle classi dirigenti e anche delle autorità governative.

   Oltre a questo, si deve apertamente affermare che assistiamo oggi a un nuovo tipo di degenerazione del nostro regime democratico, preci­samente per i nuovi rapporti che si stabiliscono fra lo Stato e la Chiesa. Ci hanno criticati per l'approvazione dell'articolo 7; ma i rapporti fra lo Stato e la Chiesa che sono fissati dall'art. 7, sono assai più pro­grediti di quelli che oggi esistono e che vennero istituiti attraverso i cinque anni e più di governo De Gasperi e gli anni successivi di governi clericali. Si sono stabiliti in questo campo rapporti tali per cui le reciproche responsabilità e sfere di potere non sono più chiara­mente definibili. Le organizzazioni ecclesiastiche intervengono in modo massiccio, violando precise norme di legge, per determinare la preva­lenza del partito cattolico nelle consultazioni elettorali. E naturalmente il partito cattolico, giunto alla direzione del potere attraverso questo intervento, paga il debito cedendo all'autorità ecclesiastica una parte di quelle che sono le prerogative dello Stato. Questo avviene nel campo dell'assistenza, della scuola, dell'organizzazione del collocamento, ecc. e in campi che sono essenziali per la costruzione di una società demo­cratica. Commette­remmo un grave sbaglio se queste cose non le dices­simo, se non ponessimo davanti alla classe operaia e a tutti i demo­cratici italiani la necessità di lottare per porre freno e termine a questa degenerazione, per ritornare a un vero e solido regime democratico riconducendo i rapporti fra Stato e Chiesa ai termini fissati dalla Co­stituzione.

   Quali sono gli obiettiva che oggi ci dobbiamo proporre? Inten­diamo sviluppare, sul terreno democratico, l'azione e la lotta delle masse operaie e lavoratrici per modificare profondamente le strutture econo­miche della società italiana. Intendiamo cioè orientare la società italiana verso una economia la quale sia fondata sulla garanzia del maggior benessere dei lavoratori, sulla eliminazione della disoccupazione, sulla lotta contro la miseria, per far scomparire gli squilibri storici e regionali, ecc. Per ottenere questo è necessario un forte progresso delle tecniche e di tutta la economia nazionale. Vogliamo questo progresso e denun­ciamo il capitalismo monopolistico perché esso, se qua e là garantisce qualche isola di progresso, e ne trae i relativi grandi vantaggi, non garantisce il progresso generale di tutta la nazione, tanto tecnico, quanto economico e sociale. Alla lotta per nuovi indirizzi della economia nazio­nale si collegano le rivendicazioni economiche, i problemi sindacali e quelle rivendicazioni che eravamo soliti chiamare una volta di natura transitoria e oggi si indicano col termine generale di riforma di struttura.

   Per quello che si riferisce alle campagne, credo non ci siano discus­sioni: riconosciamo indispensabile una riforma agraria generale fondata sui principi sanciti dalla Costituzione, cioè attraverso un limite generale della proprietà per giungere a dare la terra a chi la lavora.

   Nel campo dell'industria, cioè per quello che riguarda gli aspetti principali della economia capitalistica, si pongono questioni che deb­bono essere oggetto di dibattito. Sono le questioni delle nazionalizza­zioni, dell'intervento dello Stato nel regolare la vita economica, della lotta contro i monopoli. Esiste la tendenza a respingere e criticare qual­siasi posizione positiva del partito comunista rispetto a tutto ciò che possa farsi in queste direzioni, con l'affermazione che è solo il potere che decide. Le nazionalizzazioni sarebbero efficaci solo se attuate da un potere operaio socialista, e così gli interventi dello Stato nella eco­nomia, la lotta contro i monopoli attraverso misure legislative, ecc. Queste affermazioni sono vere, ma sono vere solo in astratto perché, nei rapporti concreti, nelle condizioni che oggi esistono nel mondo e che esistono anche nel nostro paese, il potere concreto è qualche cosa il cui atteggiamento può cambiare, e può essere fatto cambiare con movimenti e lotte efficaci della classe operaia e delle masse lavoratrici. Quindi le questioni delle nazionalizzazioni, dell'intervento dello Stato nella vita economica ecc., debbono essere poste e risolte in relazione con lo sviluppo di tutto il movimento e in particolare della lotta delle masse su questo terreno. Se si pongono in questo modo, non si può non concludere che una negazione aprioristica delle possibilità che l'avanguardia della classe operaia abbia o appoggi rivendicazioni e mi­sure positive in questo campo, è una negazione errata. Qui in Italia oggi si presenta il grosso problema del piano Vanoni, che senza dubbio è stato ed è per i più un espediente atto a dare l'illusione di una nuova politica economica, ma nello stesso tempo può servire come punto di riferimento e di appiglio per una lotta efficace allo scopo di iniziare davvero una trasformazione delle strutture della economia italiana.

   Altre questioni che hanno per noi una importanza assai grande sono quelle della introduzione di un sistema generale di sicurezza sociale per superare l'arretratezza del nostro paese anche in confronto di altri paesi capitalistici, e della posizione che è fatta ai lavoratori nei luoghi della produzione.

   Si parla sempre più di frequente, oggi, della introduzione nelle fabbriche di relazioni umane. Si pensa e si dice che si tratti di una forma della lotta contro di noi. Può darsi che sia così nella intenzione di qualcuno; a noi però spetta dire apertamente che la introduzione di relazioni umane nelle fabbriche è nostra parola d'ordine e nostro obiettivo di lotta. Noi vogliamo ci siano relazioni umane nelle fabbrichi e in tutti i luoghi di lavoro, ma diciamo che le relazioni umane inco­minciano dal rispetto dei diritti democratici dei lavoratori e dei loro diritti sindacali, quindi dalla liquidazione di qualsiasi discriminazione e dal riconoscimento del diritto che hanno i lavoratori di discutere col padrone, o con l'organizzazione padronale, di tutta la loro retribu­zione e di non essere invece assoggettati al regime dei premi concessi a libito del padrone. Anche qui ci troviamo di fronte al pericolo di una degenerazione dei rapporti fra il padronato, fra il grande industriale soprattutto e le maestranze, appunto per la estensione del sistema dei premi concessi a volontà e ad arbitrio dei padroni e con criterio di discriminazione.

   Si può anche comprendere che sia utile fissare una parte della retribuzione in base al rendimento complessivo del lavoro, ma allora si pone un altro problema, che la nostra Costituzione prevede, ed è quello dei consigli di gestione; si pone la questione dei poteri delle commissioni interne e dei sindacati per regolare il ritmo del lavoro, l'intensità dello sfruttamento e, in relazione con ciò, tutta la questione del salario, dei cottimi e dei premi.

   Un movimento che noi riusciamo a orientare e dirigere nella dire­zione di queste rivendicazioni e di queste riforme, è senza dubbio un movimento verso il socialismo. Ma ci si può muovere con successo in questa direzione, oggi, nel nostro paese? Noi lo crediamo, perché esistono condizioni oggettive e soggettive favorevoli. Esse derivano dal complesso delle cose che stanno accadendo nel mondo e nel nostro paese stesso, dal modo come matura la coscienza degli operai e delle masse lavoratrici italiane. Non basta però constatare queste condizioni oggettive e soggettive favorevoli e trarre alla leggera la conseguenza che andremo avanti di sicuro, approvando ora una piccola leggina, poi un'altra, stringendo un piccolo accordo e poi un altro accordo, fino ad avere cambiato la struttura della nostra società. Questo modo di considerare le cose lascia da parte la valutazione degli ostacoli, delle difficoltà. È risultato di una visione storica e politica unilaterale, e quindi sbagliata e pericolosa. Tanto per ciò che si riferisce alla difesa e al consolidamento della nostra democrazia, quanto per ciò che si rife­risce alla coscienza democratica esistente nelle masse lavoratrici italiane, quanto per ciò che si riferisce alla adesione all'idea del socialismo delle masse italiane, vi sono tuttora limiti che devono essere superati. Non abbiamo ancora conquistato al socialismo la maggioranza del popolo italiano.

   E poi ricordiamoci che rimane il nemico di classe, rimangono i capitalisti e gli agrari, i grandi industriali monopolisti che oggi hanno nelle loro mani il potere e se ne servono, e se ne servono bene. Dalla società italiana è sorto una volta il fascismo e non è certo sorto né dalla pazzia di un uomo né dalla ignavia di altri, ma dallo sviluppo economico della società italiana, da contraddizioni e lotte che avevano le loro radici nell'economia del paese. Si constata oggi che i partiti di destra hanno subito una sconfitta nelle ultime elezioni. Sta bene, ricor­diamoci però che il maccartismo scelbiano cova ancora sotto le ceneri. La questione di impedire un ritorno a quelle, o anche ad altre più gravi, forme di reazione, non è ancora definitivamente risolta. Per accor­gersene, basta sfogliare le pagine dei grandi quotidiani di informazione, che la grande borghesia orienta in modo più diretto.

   Lo sviluppo democratico quindi si deve compiere e il terreno della lotta democratica si garantisce solo con una vigilanza, un'azione e una lotta continua la quale, attraverso il rafforzamento continuo delle forze democratiche e delle forze socialiste e della loro unità riesca a contenere, restringere, limitare e impedire l'azione dei nemici di classe. Le forme dell'avanzata verso il socialismo non dipendono soltanto da noi: dipen­dono da noi e da ciò che fa l'avversario. Sino ad ora, in Italia, soltanto le classi dirigenti sono scese sul terreno della violenza per impedire le trasformazioni politiche ed economiche che erano rivendicate dalle masse popolari. Così esse fecero nel primo dopoguerra e tentarono di fare anche in altri momenti. Questo deriva dalla natura stessa di queste forze di classe e del capitalismo italiano, a cui ripugnano persino quelle concessioni di tipo riformistico che in altri paesi sono state fatte. Il grande capitale monopolistico tiene stretta nelle sue mani una rete di interessi, di posizioni economiche e di posizioni politiche attraverso la quale esercita il suo potere e domina la situazione. In una delle recenti riunioni del Comitato centrale del partito socialista il compagno Riccardo Lombardi poneva il problema di quali sono le forme di azione democratica che possono riuscire a spezzare questo potere del grande capitale monopolistico. È una questione che realmente si pone e noi dobbiamo dirlo, perché inganneremmo le masse operaie e lavoratrici se non lo dicessimo, se non dicessimo che occorre una grande lotta sul terreno democratico per riuscire ad andare avanti, a strappare quelle trasformazioni di struttura che sono necessarie nella direzione del so­cialismo. Occorre che il fronte delle forze operaie e lavoratrici si esten­da, si organizzi, sia unito nel suo interno, sia forte ed abbia ben chiari davanti a sé gli obiettivi che vuole raggiungere.

   È oggi alquanto diffuso il riformismo sociale ed è diffuso in due tipi diversi. Vi è il tradizionale riformismo democratico e vi è il riformismo sociale cattolico. Essi hanno punti di contatto e differenze. Il riformismo socialdemocratico tradizionale tende a poggiare su una ari­stocrazia operaia, a staccarla dal resto della classe e servirsi dell'apparato dello Stato borghese non già per delle trasformazioni delle strutture, ma per rendere permanente questa scissione, facendo così il giuoco delle classi dirigenti. Per questa strada giunge a collaborare con le forze più reazionarie. In Italia ha collaborato prima con De Gasperi e poi con Scelba, in una politica di restaurazione capitalistica e di aperta reazione. Il riformismo cattolico ha caratteristiche diverse. Non respinge l'appog­gio di determinati gruppi di aristocrazia operaia, ma in pari tempo tende a crearsi una base tra le masse che vivono in condizioni più disagiate, usando per i suoi scopi, da un lato il paternalismo e dall'altro il clericalismo, cioè utilizzando la pressione ideologica e l'intimidazione spirituale per mantenere legate le masse lavoratrici e impedire la loro unità e il loro movimento.

   In questa situazione noi dobbiamo vedere chiaro che non si tratta soltanto di proclamare che muovendoci sul terreno democratico pos­siamo andare avanti verso il socialismo, ma si tratta di vedere le cose che dob­bia­mo fare per riuscire ad andare avanti verso il socialismo. È necessario che le trasformazioni economiche, politiche e sociali che noi riven­di­chia­mo, si traducano sempre in qualche cosa di chiaro, di sem­pli­ce, di preciso per le masse. È necessario che noi rivendichiamo, dicendolo in tutte lettere, quelle modificazioni dell'indirizzo politico che sono indi­spen­sa­bili per aprire la strada alle trasformazioni della struttura econo­mi­ca. Non basta parlare di apertura a sinistra. Bisogna che a questa parola d'ordine facciamo corrispondere un contenuto con­creto. Bisogna che facciamo comprendere che apertura a sinistra non vuol dire che si diano dei voti a favore di questo o quel ministro e poi ci si rallegri di questo fatto come di un grande avvenimento. Aper­tura a sinistra deve voler dire almeno un inizio di cambiamento degli orientamenti politici oggi prevalenti. Deve voler dire almeno un inizio di cambiamento degli orientamenti della direzione economica del paese. Questo ci permette di sviluppare una lotta delle masse con carattere unitario; e dobbiamo lavorare perché abbia un carattere unitario, sia nel campo sindacale, che negli altri campi.

   Oltre a questa prima esigenza fondamentale ritengo necessario che la classe operaia e i partiti che stanno alla sua testa sappiano accostarsi a masse lavoratrici nuove. Dovremo quindi discutere se non vi sia da modificare qualche cosa nella nostra concezione degli alleati della classe operaia in Italia, se non dobbiamo estendere questo concetto non più soltanto alle masse contadine del Mezzogiorno e del resto d'Italia, ma alle masse del ceto medio lavoratore e produttore delle città. In questa direzione non si tratta di dire delle parole, ma di fare una ricerca attenta e presentare soluzioni programmatiche che siano in grado di disperdere il timore che queste masse possono avere per una alleanza col partito che rivendica il socialismo, per far loro comprendere che nel nostro paese, data la sua struttura, il ceto medio lavoratore delle città può e deve dare il suo contributo alla edificazione della società socialista, non sarà in alcun modo la vittima della costruzione di questa società socialista, ma collaborerà alla sua direzione.

   Le lotte delle masse devono essere anche accompagnate da un pro­gresso della coscienza socialista, e questa non si sviluppa spontanea­mente, non si forma da sé. Lenin ce lo ha insegnato e quell'insegna­mento rimane. La coscienza socialista si sviluppa nelle masse attraverso l'esperienza delle lotte condotte e attraverso l'azione del partito di avan­guardia. Questo deve saper suscitare e educare nelle masse la coscienza socialista; deve essere capace di trarre le necessarie conseguenze da ogni lotta combattuta, da ogni successo e da ogni sconfitta e fare così acquistare a tutti i lavoratori nuove capacità di comprendere le cose, e quindi di muoversi, di unirsi, di andare avanti.

   Infine è necessario, per adempiere ai propri compiti, che la classe operaia abbia alla sua testa un partito rivoluzionario, un partito ispirato da una dottrina rivoluzionaria, che sappia l'ampiezza del compito che gli sta davanti, e come ci si deve muovere per adempirlo. Vi possono essere, date le stesse condizioni storiche in cui il movimento si è svi­luppato, partiti diversi dal nostro che si richiamino come noi alla classe operaia, che come noi affermino gli ideali del socialismo e vogliano essere, come noi, un partito rivoluzionario. Anche il partito socialde­mocratico ha determinate basi nella classe operaia e dice di richiamarsi agli ideali del socialismo. Sorge così il problema dell'unità, che è da porsi e risolversi, come già ho accennato, partendo dalla reciproca com­prensione per giungere alla reciproca fiducia, all'intesa, agli accordi pra­tici.

   Abbiamo raggiunto, col partito socialista, un grado molto elevato di unità, stabilendo in accordo con esso quella unità di azione che rima­ne una conquista fondamentale della classe operaia e delle masse lavora­trici italiane. A questa conquista noi attribuiamo un valore di principio. Sono d'accordo col compagno Nenni nel dire che questo valore non sta tanto nei documenti scritti, quanto nell'azione, nell'orientamento generale e nell'effettiva cooperazione per raggiungere determinati obiet­tivi. Tutto il movimento verso il socialismo, però, soffrirebbe profonda­mente se questa unità d'azione dovesse, non dico essere perduta, ma subire attenuazioni o indebolimenti. Lavoriamo perché ciò non accada.

   Come deve essere il partito capace di applicare una politica come quella di cui ho cercato, a grandissimi tratti, di tracciare il contenuto? Nel corso della discussione che si apre, sarà necessario, a questo pro­posito, che vengano approfondite, precisate, corrette se occorre, le cose che già sono state dette, dal 1946 ad oggi, per definire il carattere del nostro partito, la forma della sua organizzazione e le forme del suo lavoro. Lo scopo che l'organizzazione deve raggiungere è di dare al partito il massimo grado di capacità di collegamento con tutti gli strati della popolazione lavoratrice. Perciò l'organizzazione deve essere tale che renda possibile e stimoli l'attività di tutti i membri del partito, per stabilire legami sempre nuovi con i gruppi della popolazione. Ma perché questo si possa avere è necessario un rinnovato studio delle strutture del partito e una migliore definizione e gestione del suo regime interno, come regime di democrazia e di continua partecipazione attiva di tutti i compagni alla soluzione di tutte le questioni.

   Per ciò che si riferisce alle strutture, credo che nella preparazione del congresso sarà necessario esaminare seriamente la questione dei no­stri contatti e legami con la classe operaia nelle fabbriche, del modo di mantenere questi legami, senza rimanere per forza ancorati a vecchie forme organizzative, ma correggendole, se occorre, per tenere conto del modo come oggi si organizza la vita degli operai nella fabbrica e fuori della fabbrica. L'essenziale è che dalla classe operaia possa conti­nuamente venire al partito un flusso di forze nuove e noi possiamo dare alla classe operaia quell'orientamento ideale e politico e quella direzione di cui essa ha bisogno.

   Per quello che si riferisce al regime interno, ripeto che molte cose giuste vengono dette oggi nei dibattiti che già si svolgono, ma vengono anche dette cose che sono del tutto esagerate per ciò che si riferisce a giudizi sul passato. A noi interessa sottolineare le cose giuste soprat­tutto perché, sia ai dirigenti del partito che a tutti i compagni, deve sempre far piacere che si rivendichi nel partito una maggiore democrazia e una maggiore libertà di critica e discussione. Maggiore democrazia e libertà significa e deve significare sempre maggiore attività degli iscrit­ti al partito non solo per obbedire e non solo per discutere, ma per lavorare seriamente, con slancio e iniziativa, alla attuazione della politica del partito in tutti i campi.

   Ho letto i verbali di quella riunione di intellettuali che si è tenuta a Roma e di cui qui si è parlato. Non vi ho trovato nulla né di terribile né di scandaloso. Qua e là si sente più lo sfogo che la discussione ordinata, ma nonostante ciò questo episodio della nostra vita di partito deve essere considerato positivo e salutato, soprattutto perché spero esso significhi che questo gruppo di compagni d'ora in avanti darà al partito maggiore attività e parteciperà di più alla vita delle sue orga­nizzazioni, essendo questo il solo mezzo col quale si può contribuire ad accrescere nel partito la vita democratica, a combattere il burocra­tismo, il caporalismo e la stagnazione.


Nota

[1] Si tratta della Intervista a «Nuovi argomenti».