Pietro Secchia

Memorie perché si sappia la verità

Lo scritto di Secchia, del gennaio 1958, fa parte del "Quaderno n.4" ed è pubblicato in "Archivio Pietro Secchia, 1945-1973", a cura di Enzo Collotti, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Annali, Anno XIX, 1978, pp. 410-430. Le note dove non è diversamente indicato sono di Enzo Collotti. Abbiamo omesso le pagine in cui Secchia riassume la relazione che presentò a Mosca nel dicembre 1947 in quanto da noi pubblicate nel settimo fascicolo dedicato al PCI [qui].


  Quando mi accadde la disavventura del 25 luglio 1954 e in conseguenza fui col­pito da una serie di giudizi negativi e di misure che mi tolsero prima dalla segreteria del partito comunista, dove occupavo il posto di vicesegretario, e due anni do­po, nel dicembre 1956 (VIII congresso) dalla direzione del PC, accettai tutti i prov­vedimenti senza difendermi, senza protestare, senza avanzare giustificazioni. Chi era responsabile di quei provvedimenti sapeva assai bene quali erano le mie giu­stificazioni, conosceva entro quali limiti ero responsabile e dove invece non lo ero e dove le responsabilità, se mai, erano collettive.

   Tacqui non perché acconsentissi, ma perché non c'era altra via, altra possibili­tà. Parlare, dire chiaramente come stavano le cose sarebbe parso voler giustificare degli errori che vi furono certamente (anche se le misure non furono prese in con­seguenza degli errori) e non sarebbe servito proprio a nulla. Coloro che mi diceva­no "avresti dovuto difenderti, dire chiaro come stavano le cose", sarebbero stati i primi a darmi addosso dicendo che volevo giustificare i miei errori. Dato il culto della personalità imperante, non c'era ragionamento mio che potesse essere accet­tato come valido. Quello che lui voleva sarebbe stato senz'altro comunque appro­vato. Le spiegazioni sarebbero servite soltanto ad aggravare la mia posizione; mes­so su quel terreno correvo il rischio di andare verso la rottura ed io intendevo re­stare un comunista attivo, militante nel PC.

   A questo scopo ho sopportato ogni umiliazione, ho accettato tutto; però poiché non sono immortale ritengo che in ogni evenienza si possa sapere da queste mie note come stanno i fatti.

   Qualcuno mi disse allora: perché non presenti un memoriale? (Non so se in­direttamente attraverso questo qualcuno c'era la richiesta del memoriale.) Per le ragioni anzidette ritenni inutile e inopportuno presentarlo; il memoriale mi li­mito a scriverlo; chissà, forse un giorno potrebbe essere utile farlo conoscere.

   Il tradimento di un amico che aveva verso di me non pochi motivi di ricono­scenza e nel quale avevo riposto, e per prove datemi in delicati e rischiosi compiti sin dalla guerra di liberazione e per la grande amicizia che mi dimostrava, e per una inspiegabile simpatia (non saprei oggi spiegare perché questo individuo era riuscito a conquistare così pienamente la mia fiducia), grande fiducia, mi pose im­provvisamente in serie difficoltà col partito e segnò la fine della mia vita politica.

   Ancora una volta veniva confermata la saggezza dell'antico adagio: dagli amici mi guardi Iddio. Senza dubbio nella confidenza che io diedi a tale essere, rivelatosi poi ignobile e amorale, dimostratosi privo di ogni sentimento umano, deciso a cal­pestare ogni legame di amicizia, vi fu grave errore, tuttavia non accetto la conside­razione che volgarmente viene fatta: "Come hai potuto avere fiducia in un essere così spregevole, in un animo così abietto che perfidamente tradiva?" È facile oggi, dopo il tradimento, porre la domanda: come hai potuto avere fi­ducia in un traditore; ma non si dovrebbe dimenticare che quando riponevo fidu­cia in lui non avevo il più piccolo elemento per pensare lo fosse o che avrebbe po­tuto diventarlo.

   Egli, è vero, già tradiva e accumulava materiale per il tradimento nel momen­to stesso in cui mi dimostrava un affetto fraterno, una devozione senza limiti, grande slancio nel lavoro ed anche spirito di sacrificio per la nostra causa. Avrei potuto pensare tutto di lui salvo che avrebbe tradito la fiducia e l'amicizia che di­mostrava verso di me. Se gli uomini si conoscessero in tempo non vi sarebbero tradimenti. Mentre invece la storia è piena di tradimenti e uomini ben più grandi e avveduti di me, conoscitori profondi dell'animo umano, ne sono rimasti vittime.

   Le conseguenze di certi tradimenti furono di incalcolabile gravità di fronte alla quale impallidisce l'azione di colui che pugnalandomi alla schiena recò danno so­prattutto alla mia persona.

   Il danno da lui arrecato al partito è trascurabile di fronte al danno arrecato da altri traditori. Arrecò un serio danno finanziario, è vero, ma questo non pose minimamente in difficoltà il partito, che da questo punto di vista non risentì alcu­na perdita e non fu costretto a prendere nessuna misura restrittiva. Si trattava di una riserva che non era considerata nel bilancio.

   Politicamente, dato il suo nessun peso politico, non arrecò alcun danno e per quel tanto che l' "Azione comunista" può dare fastidio lo avrebbe dato ugualmente con o senza di lui [1]. Né la sua personalità è tale da imprimere a quel movimento una forza particolare.

   Le conseguenze di certi tradimenti furono invece di incalcolabile gravità non soltanto per chi li subi direttamente, ma per molte persone e per lo sviluppo di tutto il movimento.

   Sarebbe sufficiente ricordare il tradimento di Malinovskij, colui che seppe ac­quistare la piena fiducia di Lenin, una cosi grande fiducia al punto che fu incluso nel CC del partito, non solo, ma che Lenin difese per ben quattro volte, rifiutan­dosi di aprire un'inchiesta su di lui anche quando vi era chi lo denunciava come traditore.

   Malinovskij godette per parecchi anni la piena fiducia dei bolscevichi e di Le­nin in particolare ed era una spia al servizio dell'Ochrana sin dal suo ingresso nel movimento operaio e nel partito bolscevico.

   Egli aveva fornito all'Ochrana notizie sulle più importanti riunioni clandestine dei bolscevichi, aveva rivelato l'identità dei capi bolscevichi muniti di passaporti falsi (i nomi falsi che portavano su questi passaporti), aveva fornito alla polizia l'indirizzo delle tipografie e delle sedi clandestine delle organizzazioni bolsceviche, aveva nel 1910 fatto arrestare il CC bolscevico.

   Aveva compilato dettagliati rapporti sull'attività del partito bolscevico, della "Pravda", del CC, aveva fornito all'Ochrana la lista dei finanziatori del partito bol­scevico. Aveva fatto arrestare Stalin e Sverdlov.

   "Malinovskij fece rovinare - scrisse Lenin - una infinità di persone" e provo­cò grande danno al partito.

   "L'affare Malinovskij - scrive Jaroslavskij nella sua storia del PC bolscevico - fu molto dannoso al partito. Tuttavia quell'affare dimostra a qual punto il nostro partito era forte già a quell'epoca. Una spia che sedeva alla direzione del partito non riusci a distruggere la nostra organizzazione" (Jaroslavskij, Histoire du PC de l'URSS, 1931, ediz. francese, p. 209). [2] "Lenin riteneva assolutamente impossibile che Malinovskij fosse stato un agen­te provocatore", scrive la Krupskaja. [3]

   Eppure, malgrado una fiducia cosi assoluta (è vero che le accuse contro Mali­novskij venivano da parte dei menscevichi, però anche dei bolscevichi avevano ma­nifestato a Lenin i loro sospetti, Bucharin fra gli altri), nessuno pensò mai di fare una colpa a Lenin per essersi lasciato ingannare da Malinovskij.

   E che dire del caso Asev? [4] E Trockij non perse forse la vita grazie ad un amico intimo, fra i pochissimi che egli (circondato da stretta vigilanza e pieno di precau­zioni) riceveva in casa e dal quale ebbe il cranio spaccato con un'accetta?

   Se c'è chi ha avuto fiducia piena in agenti della polizia, posso ben io, piccolo uomo di fronte ai grandi della storia, aver avuto fiducia in una canaglia che (per­lomeno sino a oggi) non risulta essere una spia della polizia, ma uno squilibrato, disonesto (forse il movente di tutta la storia è un volgare furto al quale cerca di dare una verniciatura politica), un mascalzone che stando a ciò che scrive "Azione comunista" sarebbe stato legato da tempo a quel gruppo e tradendomi avrebbe obbedito ad una disposizione di quella organizzazione.

   Ed anche sul dare confidenza ad un tipo come quello che, per quanto potesse ispirarmi fiducia, non era all'altezza di ricevere confidenze, per quanto riconosca di avere errato, osservo che tutti, anche gli uomini più riservati (ed io credo di es­sere stato e di essere tra questi) hanno almeno un amico nel quale ripongono fidu­cia, del quale si fidano. La differenza sta nel fatto che non tutti abusano della fidu­cia ed anche quando la politica porta a rotture e a contrasti, la maggior parte del­le persone non tradisce l'amicizia, la parola data. Nella vita non si segue quasi mai la massima machiavellica "agisci con gli amici come se domani dovessero esserti nemici". È impossibile seguire questa massima, non si potrebbe lavorare, avere un aiuto, dei collaboratori di fiducia.

   Anche durante la cospirazione, la lotta illegale, la guerra partigiana, quando si corre ogni giorno il pericolo dell'arresto, della tortura, della morte, non si può "non fidarsi di nessuno".

   Non fidarsi di nessuno significherebbe non operare, non agire.

   Tutto il problema sta nel saper scegliere; qui accade a tutti gli uomini d'azione, più o meno gravemente, di errare perché l'animo umano è piuttosto complicato; l'individuo sa anche dissimulare e simulare e poi tutti possono diventare pazzi, perdere la testa. Ancora oggi io non riesco a persuadermi che in colui vi sia sol­tanto l'animo malvagio, la mancanza di ogni senso morale; vi è senza dubbio a mio parere un qualche squilibrio che ha influito per la sua parte. Non ha più avuto freni inibitori. Ritengo sia un megalomane, uno schizofrenico forse. Ma è sempre stato cosi?

   Senza dubbio vi è stato un periodo in cui era ancora con me e già mi tradiva, vi è stato un periodo in cui fingeva, simulava l'attaccamento, l'affezione: però ha sempre simulato? Il suo spirito è sempre stato ambivalente, ha sempre avuto una coscienza duplice?

   No, sono piuttosto portato a pensare che sino a un certo periodo egli sia stato sincero. Quivi è il mio difetto, il mio errore, il non essermi accorto od essermi ac­corto troppo tardi e non aver preso rapide decisioni quando alcuni elementi doveva­no mettermi in sospetto sulla sua fedeltà. Qui vi è senza dubbio indice di indeboli­mento della mia personalità. Nella vita clandestina ho avuto spesso la percezione, quando venivo a contatto con certi individui, di trovarmi di fronte a un traditore, ad un nemico. Questa sensibilità istintiva altro non era che la capacità di intuire, affinata dall'esperienza, anche sulla base di superficiali impressioni.

   L'amico che ti ha dato tante prove di amicizia, che ha rischiato per te la vita, può domani, in preda ad una passione o alla "follia" tradirti e far tacere la sua coscienza con la giustificazione che ciò che egli ha fatto l'ha fatto per una causa superiore. Il fine giustifica i mezzi.

   È assolutamente falso che io sia stato messo sull'avviso e consigliato a diffida­re di lui. Falso anche se non smentii E.D. [5] quando, assai poco generosamente, per cercare di allontanare da sé ogni responsabilità, affermò che io ero stato avvertito. Egli mi chiese un giorno: "Tu ti fidi di Seniga?" Risposi: "Se non mi fidassi non gli farei fare quello che fa". Gli chiesi perché mi aveva fatto quella domanda. Mi rispo­se che Seniga durante la guerra partigiana aveva avuto contatti con McCaffery [6] e che stava conducendo un'inchiesta in proposito. Gli feci osservare che durante la guerra partigiana erano in molti ad avere avuto contatti e rapporti con gli "allea­ti". Ed egli non mi obiettò più nulla, né mi comunicò mai come era andata a fini­re la sua inchiesta. Seppi solo, e non da lui, E.D., ma dallo stesso Seniga, che egli negava di essersi incontrato con il McCaffery, pur ammettendo di aver avuto rap­porti per motivi partigiani con altri ufficiali inglesi.

   Tanto vero che nessuno mi mise sull'avviso, che ancora quando il Seniga tradì era viceresponsabile della commissione di vigilanza e a tale posto era stato nomi­nato dalla segreteria del partito, nessuno aveva mai pensato a toglierlo, né aveva avanzato proposte in tal senso.

  

   Coloro che giudicano dal di fuori, senza conoscere, prima di chiedere: come mai tanta amicizia, tanta fiducia? dovrebbero invece chiedersi quali attività svolge­vo io, di quali compiti ero incaricato, e dovrebbero chiedersi se mi era possibile assolvere da solo una determinata attività, senza collaboratori.

   Vi era tutta una serie di attività di cui io ero responsabile e che non potevano essere assolte soltanto da me. Per ogni branca di attività avevo dei collaboratori diretti e di fiducia. Ognuno di essi a sua volta ne aveva altri. L'amministratore del partito, ad esempio, era uno di questi. L'amministratore delegato dei quotidiani un altro. Il responsabile dell'attività commerciale un altro. Il dirigente dei servizi tecnici un altro. Il dirigente della vigilanza un altro. Nell'attività antititina avevo dei collaboratori e così via. Avevo dei segretari per le questioni di organizzazione, ma queste erano una parte minima della mia attività.

   Quell'individuo, per le mansioni di vigilanza che gli erano affidate, per pa­recchi anni fu colui che provvedeva a sistemare gli archivi del partito. Ha avuto la possibilità, se ha voluto, di copiare, fotografare tutto ciò che ha voluto. Ed ora alcune cose vere, condite largamente con i frutti della sua fantasia, gli servono per mettere in piedi i suoi romanzi. E che lui fosse il depositario degli archivi, il tra­sportatore delle valigie di documenti dalla sede ai diversi archivi non lo sapevo soltanto io. Egli e la sua compagna per anni furono incaricati di fare da corrieri soprattutto all'estero. Hanno avuto la possibilità di avere contatti internazionali e di prendere visione di tutto quanto hanno voluto [7].

   Infine quante cose non ha egli appreso in questi anni con i contatti che ha al­lacciato dopo l'espulsione dal partito con vari individui di ogni risma e corrente, italiani e stranieri.

   L. Valiani mi ha rivelato che Seniga andò da lui per essere messo a contatto con gli jugoslavi e che egli gli diede il mezzo per collegarsi con Vratuscia! [8]

   Egli si vanta ad esempio di essere venuto a conoscenza nel giugno-luglio 1954 delle intenzioni dei sovietici di ristabilire buoni rapporti con la Jugoslavia. Non si trattava di un segreto perché, a parte i molti che nei partiti comunisti sapevano, in Jugoslavia le lettere di approccio del PCUS erano state messe in discussione in tutte le cellule. Da un anno, e cioè dalla morte di Stalin, erano in corso d'altronde le trattative, la campagna antijugoslava era cessata e tutto questo faceva presu­mere molte cose. Ed è naturale che tra compagni si parlasse di questi problemi e del loro sviluppo.

  

   Quando si discusse della faccenda e dei miei errori, li riconobbi e non avan­zai le osservazioni e le giustificazioni alle quali ho accennato perché ogni spiega­zione sarebbe apparsa come il tentativo di voler giustificare i miei errori o di vo­lerli sottovalutare. L'aver riconosciuto gli errori commessi non significa che io ap­provi il modo come si è agito nei miei confronti, tutti i giudizi che sono stati dati e le misure che sono state prese.

   Sono convinto che le misure prese contro di me non sono state soltanto la conseguenza degli errori commessi nell'aver dato fiducia a quell'individuo. Tanto più che proprio in quel periodo su scala internazionale si venne a conoscenza di colpe ed errori gravissimi commessi da dirigenti di primo piano dei partiti comunisti per aver prestato fiducia a ignobili provocatori. A nessuno mai passò per la mente di chiedere conto a X [9] della fiducia da lui riposta in Tasca e in Silone e delle cose che costoro rivelarono quando se ne andarono dal partito (è vero che costoro era­no membri di organizzazioni dirigenti del partito, intanto ci sarebbe da discutere perché e come lo erano diventati e in ogni caso l'appartenere a organismi dirigen­ti non giustifica ancora certe conversazioni politiche). Nessuno chiese mai conto a X della fiducia riposta in Tasca, neppure quando si vantò di aver mandato Tasca a Mosca (a far parte del segretariato), perché lassù si liquidasse. A nessuno venne in mente di chiedere conto a X della fiducia riposta in Reale, di avergli affidato po­sti di tale responsabilità da farlo pervenire a conoscenza delle cose più delicate di carattere internazionale.

   X stesso nel 1956 andò a riverire e a rinnovare l'amicizia con Tito anche se que­sti (a parte tutto ciò di cui era stato ingiustamente accusato) aveva dopo la rottu­ra rivelato apertamente a tutto il mondo (vedi libro di Dedijer) conversazioni riser­vate avute con Stalin, questioni riservate, propalato giudizi su questo e quest'altro [10]. Mentre a me si fa carico di aver violato il segreto di partito perché avevo fatto al­cune confidenze ad un uomo che era un compagno ed un uomo di fiducia del par­tito, si va a complimentare ed a riverire Tito che violò i segreti di partito, non con­fidandosi con un compagno, ma pubblicando libri, rivelando a tutto il mondo, ami­ci e nemici, i segreti di partito.

   Questa è la politica. C'è chi pecca e non paga e c'è invece chi paga anche per gli errori degli altri. Ad aver confidato cose riservate non ci sono soltanto io, dissi allora a X. "Lo so - egli mi rispose - ma quando accadono certe cose vi deve es­sere uno che paga per tutti". Si trattava cioè di dare un esempio affinché servisse da insegnamento a tutti, un'esperienza di partito come si dice, ma l'esempio servì molto poco perché nella seconda metà del 1956 durante la discussione precongres­suale uscirono fuori e vennero pubblicate sulla stampa avversaria delle informa­zioni e indiscrezioni che soltanto chi era membro della segreteria del partito po­teva conoscere. Ma non ne nacque alcuno scandalo e nessuna conseguenza per nes­suno di coloro che erano membri di tale organismo.

   Per tutti questi motivi sono certo che le misure contro di me furono prese non soltanto e non tanto per quegli errori legati al tradimento di Seniga, ma furono prese soprattutto per le posizioni politiche che io avevo. Se così non fosse non si comprenderebbe nulla ed alla provocazione potrebbe essere troppo facile penetrare nei partiti comunisti e agire in modo da danneggiare e liquidare i suoi dirigenti. Per­ché nessuno impedisce ad un provocatore in vena di rivelazioni scandalistiche di rivelare, assieme a ciò che raccogliendo qua e là ha potuto apprendere, anche le sue fantasie, tanto per mettere i dirigenti di un partito gli uni contro gli altri. Rea­le ad esempio si è dato a queste esercitazioni, ma il gioco è troppo infantile perché un partito comunista vi debba cascare [11].

   Il traditore poteva rivelare ciò che voleva e tentare tutte le provocazioni imma­ginabili, ma non sarebbe minimamente riuscito nel suo gioco se non vi fosse stato un altro motivo per cui i dirigenti o alcuni dirigenti del partito avevano deciso di liquidarmi. Non arrivo a dire che senza quell'affare sarei stato colpito egualmente ma l'affare del 25 luglio non è stato che l'occasione, un ottimo motivo che ha facili­tato un processo che avrebbe avuto luogo ugualmente, forse con qualche ritardo, avrebbe impiegato più tempo, ma il processo avrebbe avuto luogo inesorabilmen­te. Sarei rimasto forse in segreteria sino all'VIII congresso, poi, giunta l'ora del rin­novamento, la mia sorte era segnata. Forse sarei rimasto in direzione, ma non lo so neppure. Perché se io non mi fossi trovato in condizioni di inferiorità, in un certo senso disarmato, messo in condizione di non poter agire in seguito all'affare Seni­ga, al momento del rinnovamento o prima avrei impegnato una lotta politica che non so come sarebbe finita. Quell'affare mi mise in situazione assai critica, perché da un lato non volevo fare nulla che potesse accreditare la calunnia che io fossi in qualche modo d'accordo con "Azione comunista" o ispiratore di idee che non con­dividevo assolutamente, d'altra parte non volevo rinunciare alle mie opinioni, né ad esprimerle nella forma e nei modi che mi erano consentiti con le norme di vita del partito.

   Se alle mie idee non avessi dato importanza alcuna, se vi avessi rinunciato, mi sarebbe stato facile riprendere quota anche dopo "l'affare" di cui ero rimasto vitti­ma, purché io mi facessi propagandista e sostenitore senza riserve di tutta la linea politica di Togliatti e di Amendola.

  

   Nella situazione in cui ero venuto a trovarmi in conseguenza del tradimento di Seniga non mi era possibile non accettare le misure nei miei confronti (vedi a parte gli appunti sulle mie dichiarazioni rese in direzione e lettere inviate). Un at­teggiamento di resistenza avrebbe rapidamente portato ad una condizione di rot­tura con conseguenze dannose per il partito, senza la più piccola utilità per il mo­vimento operaio. Ne avrebbero guadagnato soltanto i nostri avversari, i nostri ne­mici interni o stranieri. Non so se il Seniga fosse un uomo dell'avversario (o sem­plicemente uno squilibrato e un furfante), ma, lo fosse o no, la sua azione non po­teva che giovare al nemico al punto da far pensare che l'azione stessa fosse diretta e guidata dal nemico. Lo scopo evidente al quale in quel momento mirava il ne­mico era quello di provocare una divisione, una "crisi", ecc.

   Chiunque con i suoi atteggiamenti favorisce l'indebolimento della classe operaia e della sua avanguardia coscientemente o no aiuta il nemico. Ecco perché non po­tevo e non dovevo fare nulla che potesse indebolire l'unità del partito o essere co­munque di danno alla sua compattezza, alla sua capacità di lotta soprattutto nel momento in cui esso era oggetto di furiosi attacchi da parte delle forze reazionarie.

   Mi si può obiettare: ma, allora, con queste considerazioni si tace su ciò che utilmente dovrebbe essere detto nell'interesse stesso del partito e del movimento operaio? Quale funzione possono ancora avere la critica e l'autocritica quando si soffocano con certe pregiudiziali? Rispondo: vi sono momenti in cui bisogna avere il coraggio di tacere e di far tacere il proprio io. Alle volte il silenzio è senso di re­sponsabilità, soprattutto poi quando ciò che si vorrebbe dire è noto (anche se c'è chi finge di ignorare) perché già è stato detto a suo tempo.

   Comunque è rimasto chiaro, perché l'ho detto esplicitamente in direzione, che se non vuotavo il sacco era per ragioni superiori di interesse generale. Nessuno potrà rimproverarmi domani di aver taciuto o nascosto (in gennaio 1955) determi­nate mie posizioni politiche, perché chi è in buona fede quelle posizioni non ignora­va né poteva aver dimenticato ciò che avevo detto e scritto nelle diverse circostanze.

   Non ignorava ciò che pensavo Louis, che quando parlò con me alla fine 1954 o inizio del 1955 circa il nuovo lavoro che mi veniva affidato (segreteria regionale) ebbe a darmi alcuni consigli - egli mi consigliava di accettare piuttosto il lavoro delle cooperative - e mi disse esplicitamente: "Tanto, un dissenso col partito c'è ed è meglio perciò che tu non ti occupi direttamente di politica" [12]. Non ignoravano ciò che pensavo oltre a Louis, Vittorio e il Mago [13], ai quali anche in gennaio parlai del tutto francamente. Da tutti ebbi consigli di non sollevare in quel momento questioni politiche che non avrebbero potuto essere discusse "obiettivamente" per­ché la questione Seniga falsava tutta la situazione. Sollevare delle questioni poli­tiche nel momento in cui dovevo autocriticare i miei errori in rapporto all'affare Seniga sarebbe sembrato soltanto un diversivo.

   Non ignoravano ciò che pensavo i tre della piccola commissione (Velio-Bruno-Cele) [14] ai quali in gennaio raccontai parecchie cose a cominciare dal mio rapporto fatto a Mosca nel dicembre 1947.

   Non ignorava Giorgio, il quale ebbe a dirmi: "Che vi fosse una polemica im­plicita da tempo era noto, lo si sentiva dalle cose che dicevi, dai tuoi interventi ne­gli organismi dirigenti del partito; ciò che noi ti rimproveriamo è di non averla resa esplicita. Tu avevi il dovere di rendere esplicito il dissenso". (Naturalmente nel momento stesso in cui mi si rimprovera di non averlo reso esplicito si è pronti a saltarmi agli occhi se lo rendo esplicito) [15].

   Non ignorava ciò che pensavo Vittorio, il quale ebbe a dirmi: "Si sentiva da tempo nei tuoi interventi uno spirito diverso, ora egli ne approfitta per fartela pa­gare" [16]. Di proposito parlai con questi compagni per vedere quale atteggiamento avrebbero assunto nel caso io avessi sollevato questioni sulle quali sapevo bene ciò che pensavano anche loro, almeno alcuni di loro.

   La risposta fu chiara: mi sconsigliarono nettamente, il che voleva dire che mi avrebbero lasciato solo e avrebbero preso assieme a tutti gli altri posizione contro di me. Di proposito parlai con questi compagni perché ci fosse qualcuno che sa­pesse ed anche perché non mi ritengo il sale della terra: sono convinto che qua­lunque problema e quindi anche l'utilità e l'opportunità di determinati atteggia­menti può essere meglio giudicata da più uomini che non da uno solo.

   Sono avverso al culto della personalità, ma ancora più stupido sarebbe il culto di se stessi. Non ho mai avuto timore di assumere atteggiamenti di opposizione anche se si era in piccola minoranza e se andavo incontro a gravi sacrifici perso­nali, ogni volta che lo ritenni utile e necessario per il partito e per il movimento; ma ho sempre preferito essere almeno in due. Soprattutto quando l'azione da com­piere è tale da coinvolgere l'avvenire di altri uomini c'è da esitare molto a com­pierla da solo. La nascita stessa di un uomo avviene col concorso di un altro.

   In ogni occasione, pur sostenendo e difendendo il proprio pensiero, occorre te­ner conto del pensiero e dell'esperienza degli altri, soprattutto di uomini che si stimano.

  

   Quanto a X, egli aveva tutto l'interesse a non portare la questione sul terreno politico, a liquidarmi, per cosi dire, sul terreno "morale" delle sanzioni per gli er­rori commessi (violazioni del segreto di partito, eccessiva fiducia data a Seniga, essermi lasciato derubare, ecc.). Portare la questione sul terreno politico non si sa come potesse andare a finire, era sempre cosa che dava fastidio. Posta la questione sul terreno degli errori era più facile farmi "condannare", togliermi qualsiasi soli­darietà, almeno aperta.

   E' il suo metodo abituale, non inchiodare nessuno prima del tempo alla sua po­sizione, dare anzi la possibilità all'avversario di non impegnare la lotta politica.

   Il suo atteggiamento fu quello di fingere di ignorare esistesse qualsiasi dissen­so politico, anzi arrivò a dichiarare in piena direzione che io "non soltanto avevo condiviso la linea politica di questi anni, ma avevo anche dato un notevole contri­buto alla sua elaborazione". Egli in una conversazione personale che ebbe con me in ottobre 1954 arrivò a dirmi: "Ma io ignoravo tu avessi motivo di dissenso poli­tico o di malcontento; quando si ha un dissenso bisogna parlarne innanzitutto col nucleo fondamentale del partito (intendeva dire con la segreteria). Se tu l'avessi fatto avresti anche aiutato il partito". La solita ipocrisia: io avrei aiutato il par­tito se esponevo le mie opinioni politiche (che erano notissime) e mentre si dicono queste cose si sa molto bene che se l'avessi fatto mi si sarebbe subito colpito come deviazionista.

   In realtà egli sapeva, non ignorava, non poteva ignorare. Lui che legge tutto, forse che non leggeva gli articoli che egli mi chiedeva e pubblicava sulla sua rivista? Forse che non ascoltava i discorsi che io facevo in direzione e nel CC? Forse che leggeva soltanto i suoi discorsi? Ed i miei discorsi al Senato, che non sono sfuggiti a nessuno, non li leggeva? No, egli non ignorava, leggeva e seguiva più di ogni altro e in una certa misura teneva anche conto; però nella sicurezza di se stesso, di es­sere il padrone assoluto, e nella sottovalutazione, se non nel disprezzo, verso gli altri non dava molto peso alle opinioni degli altri. Lascia dire, lascia sfogare e fa ciò che vuoi: questa era la sua regola di condotta.

   Egli non ignorava ciò che pensavo, ma quando scoppiò l'affare gli era comodo fìngere di aver sempre ignorato, di non aver mai sentito e letto nulla. Ed anche que­sta volta perché in realtà egli voleva evitare una aperta discussione politica. Se l'avesse voluta, desiderata, ritenuta utile, gli era facile provocarla ponendo l'accen­to sulle questioni sulle quali egli sapeva esserci dissenso e non identità di vedute.

   Mi si può obiettare: sta bene, egli poteva avere interesse ad evitare una discus­sione politica, ma se tu eri in disaccordo su alcune parti della linea politica perché non hai manifestato in modo più aperto questo disaccordo, perché non hai preso tu l'iniziativa?

   Ho già detto che ciò che io pensavo era noto a chi voleva intendere, perché nei miei discorsi ho sempre detto ciò che pensavo, non ho mai detto cose alle quali non credevo. Si vadano a rileggere.

   È vero che il mio discorso coesisteva con l'altro col quale non vi era sempre ar­monia. È stato osservato giustamente: "Per un certo tempo coesistevano due linee politiche". Perché non ho preso l'iniziativa della lotta politica? E qui giungono tutti i discorsi sulla doppiezza, ecc. Questi rilievi sarebbero giusti se fossero esistite nel partito le condizioni per sostenere determinate posizioni politiche, sia pure soltanto in parte divergenti da quelle di X, senza avere la certezza di essere subito liquidati.

   Quando non esiste praticamente la possibilità di sostenere posizioni divergenti (e di sostenerle cercando beninteso di spiegarle e persuadere degli altri) in seno agli organismi dirigenti perché subito si pone la questione dell'appartenenza a que­sti organismi, allora è evidente che un compagno deve trovare il modo di far cir­colare determinate opinioni senza farsi subito sbaragliare e liquidare.

   A determinate condizioni di vita interna e di disciplina del partito si deve pure adeguare il modo di comportarsi. Se nel partito fosse possibile - in seno agli or­ganismi dirigenti - esprimere, sostenere determinate posizioni, pur restando mi­noranza e disciplinati, non si chiederebbe altro; chi rifuggirebbe dal prendere ogni volta che fosse necessario una posizione aperta? Sarebbe anzi un piacere dibattere apertamente, lealmente. Ma quando il fare questo comporta certamente, per espri­mersi con una frase abituale di Louis, "il rompersi la testa contro il muro" è na­turale che un compagno cerchi di trovare il modo di esprimere certe opinioni in forma e in modo tali da non rompersi subito la testa.

   C'è proprio bisogno cioè di dire a tutte lettere: "Io non condivido quella posi­zione" quando per farmi comprendere mi è sufficiente fare un discorso in cui so­stengo una proposta, una iniziativa, una tesi che in modo evidente non corrispon­dono a quella posizione?

  

   Seniga col suo tradimento mise a fuoco, mise in rilievo che c'era un dissenso (ma non è che prima non ci fosse o lo si ignorasse, si fingeva di ignorarlo). A che cosa mirò Seniga col suo tradimento e con le sue "rivelazioni", in gran parte inven­zioni e in parte grossolane esagerazioni di dissensi o posizioni politiche divergenti? Le mie posizioni esagerate in tal modo ne risultavano deformate e falsificate.

   Nego che il Seniga sia un uomo in buona fede. Tutto il suo modo di agire dimo­stra che vi è piena malafede. Senza dubbio è una canaglia, ma ripeto forse anche uno squilibrato. Tuttavia, buona o malafede che sia, nella misura e per quel tanto che ha agito con un obiettivo che non sia soltanto il furto, ritengo il suo obiettivo sia stato quello di "rivelare" cose in parte giuste, in gran parte deformate o inven­tate (in parte conosciute attraverso il lavoro, in parte lette dai documenti di cui aveva l'archivio, in parte conosciute da me e da altri di cui potrei fare i nomi) allo scopo di provocare da parte del partito delle misure nei miei confronti o delle reazioni mie. Egli cioè ha fatto di tutto per farmi cacciare dal partito, sperando che, una volta "liquidato", io mi sarei messo alla testa di una opposizione, di un nuovo partito.

   Piano assurdo, ingenuo e cretino, ma che in parte gli riuscì perché c'era chi aveva interesse, se non ad escludermi dal partito, a liquidarmi politicamente.

   Il piano era assurdo perché sono un comunista, perché i miei dissensi dalla li­nea politica non sono mai stati tali da esigere una rottura, una separazione. In ogni caso per quanto forti possano essere i dissensi di un comunista col suo par­tito io credo che questo comunista farà sempre centomila volte di più per il pro­letariato restando col partito e lottando assieme al partito comunista che non stac­candosi, isolandosi. Da solo non farà nulla. Il solitario non può essere una avan­guardia. Anche i gruppi e gruppetti tipo "Azione comunista" o altri consimili di dissidenti servono soltanto ad un'azione disgregatrice, disfattista, ma non assolvo­no alcuna funzione positiva.

   Un uomo d'azione, un rivoluzionario non può ritenersi pago di svolgere soltanto un'azione di critica contro il suo partito o comunque un'azione puramente critica. Il rivoluzionario vuole soprattutto mutare l'attuale stato di cose, portare un contri­buto al mutamento, all'azione delle masse, vuole partecipare alla lotta delle masse.

   Mai si sono superate delle situazioni difficili e di stagnazione soltanto con la critica. Si sono create delle sette, si possono creare dei cenacoli, ma questi non han­no mai suscitato un movimento reale, un movimento di massa. Le masse non en­trano in movimento per le elucubrazioni e le critiche dissolventi dei "settari" e dei cenacolisti, ma spinte dalla forza travolgente degli avvenimenti.


Ogni arte, sia che essa sia destinata all'uso domestico o a quello del mondo, se diven­ta una pura speculazione e non può essere applicata in pratica, dimostra con questo che è perduta, che non significa niente.
             (Lutero)


  Vi sono, è vero, degli altri partiti che non sono delle sette, che contano anch'es­si nel paese. Ma questi possono interessare coloro che non sono più dei comunisti. Io ritengo che nel nostro paese il partito più rivoluzionario, con tutti i difetti e le debolezze che può avere e che ha, è il partito comunista. È questo il mio partito, anche se in certi momenti vorrei che assumesse posizioni diverse, più combattive, ed anche se desidererei una sua vita interna più democratica. Ma a questo punto mi si pone la domanda: sei d'accordo con la linea politica del partito? Non vi è nulla di più facile che essere d'accordo con la linea politica. Il guaio è che molti di coloro che dovrebbero contribuire ad elaborarla la considerano già tracciata per opera di altri, o almeno di un altro, se non dello Spirito Santo.

   Il problema che mi sono sempre posto è innanzitutto quello di contribuire ad elaborare la linea politica, la quale non si traccia una volta per sempre, ma la si crea, la si modifica, la si adatta, la si perfeziona ogni giorno. E mi sono sempre proposto di dare il massimo contributo all'applicazione della linea politica, alla lotta, all'azione. Un'attività puramente "teorica", da tavolino, staccata dall'azione delle masse, non mi soddisfa, non mi ha mai soddisfatto; nel corso della mia atti­vità politica, negli anni della legalità e della clandestinità, in Italia o in esilio, al confino o in carcere, durante il fascismo, nella lotta partigiana e dopo la libera­zione sempre ho cercato di sviluppare un'attività che mi mettesse direttamente a contatto con l'azione e con le lotte delle masse lavoratrici. Quando affermo che la linea politica non si traccia una volta per sempre, ma la si crea, la si modifica, la si perfeziona ogni giorno, ne deriva come conseguenza che l'unità in ciò che è fon­damentale, sostanziale e decisivo di una linea politica non viene infranta, ma raffor­zata, resa sostanziale dalla differenziazione nei particolari (particolarità che posso­no essere determinate anche da situazioni obiettive delle regioni o province dove si lavora), dagli adattamenti nel corso del lavoro.

   Vi sono state, comunque determinate, delle differenziazioni tue dalla linea po­litica del partito, delle divergenze su questioni importanti da te espresse o ine­spresse?

   Si, vi sono state subito dopo la liberazione delle cose che non mi andavano, vi sono state questioni sulle quali ho espresso chiaramente il mio punto di vista, altre alle quali non ho dato immediatamente soverchia importanza, ma la cui importanza si è rivelata in seguito.

   Vi sono stati senza dubbio anche errori miei ed errori ai quali ho partecipato assieme a tutto il partito e dei quali sono più responsabile di altri per il posto di responsabilità che io occupavo.

   Alle volte ci si sente dire: ma tu non hai mai fatto delle riserve sulla politica del partito e ad un tratto si scopre che c'era un dissenso.

   Intanto non è vero che non si siano mai fatte delle riserve. La linea di che cosa è fatta? La linea non è quella che si traccia sulla carta una volta all'anno oppure ogni due anni in occasione dei congressi. La linea politica è ciò che si fa; consiste nell'azione di ogni giorno. Ora, ogni giorno o quasi negli organismi dirigenti si discute di questo o di quest'altro problema, dell'atteggiamento da assumere su delle questioni concrete, sugli avvenimenti di ogni giorno nazionali o internazionali.

   Si tratta oggi di organizzare una agitazione per i salari, domani la lotta per la giusta causa, dopodomani l'atteggiamento verso un governo, votare la sfiducia, lot­tare per rovesciarlo oppure no. Sostenere Parri o no. Votare l'art. 7 o no. Come condurre la lotta contro il piano Marshall. Come condurre la lotta per la pace. Co­me condurre la lotta contro la legge truffa e così via. Giorno per giorno si tratta di assumere un atteggiamento verso dei problemi concreti (e non verso una linea astratta) e giorno per giorno su ognuno dei problemi che si presentavano io ho sempre detto la mia opinione. Può darsi che in certi casi io non abbia insistito suf­ficientemente sulle mie proposte, che in certi casi mi sia associato a quelle di altri anche senza esserne troppo convinto. Non sempre si possono assumere atteggiamen­ti critici o di opposizione, dipende dall'importanza che si dà alla questione. Rico­nosco senz'altro che in certi casi avrei dovuto battermi di più, sostenere con mag­gior forza le mie opinioni in modo da farne uscire fuori, se c'era, il dissenso. Non c'è dubbio che in alcuni casi ho sottovalutato l'importanza di certe questioni e non mi sono battuto sufficientemente. Spesso si ha la sensazione, l'intuizione che un determinato atteggiamento è errato, ma la coscienza reale la si acquista in seguito con lo sviluppo degli avvenimenti. Talvolta si sottovaluta una determinata decisio­ne del partito, perché una rondine non fa primavera, ma poi si finisce per appro­vare (anche se non si è convinti del tutto) una cosa oggi, una cosa domani, pensan­do: ma si tratta di un fatto isolato, non vale la pena di battersi (di rompersi la te­sta, direbbe Louis), e poi dopo un certo tempo ci si accorge che modifica oggi una cosa, modificane un'altra domani, ci si trova di fronte ad un'altra politica.

   Il 5 giugno di quest'anno ho ascoltato un discorso di Togliatti alla Camera. Ha sostenuto tra l'altro che al regime clericale non ci si arriva di colpo, ma a poco a poco; oggi una misura, domani un'altra e alla fine ci si accorge che da un regime democratico siamo passati ad un regime clericale.

   Il ragionamento non faceva una grinza, ma è la stessa cosa per tutti i mutamen­ti, o quasi; non sempre il mutamento avviene con un salto, con una rottura. È la stessa cosa anche per le modificazioni della linea politica del partito. Oggi si modi­fica qualcosa, domani qualche altra cosa e alla fine ci si trova ad avere un'altra linea politica. Ed allora ci si sente dire: ma perché non l'hai detto subito, perché non l'hai detto prima, avresti aiutato il partito. A parte che su certi fatti si era assunto un atteggiamento ben preciso, ma, poiché si trattava dei casi del giorno, nessuno ci ha badato.

   Così è delle posizioni cedute senza sufficientemente lottare. Oggi si è ceduta una posizione, domani un'altra, dopodomani una terza e alla fine ci si trova ad ave­re perso posizioni importanti, a non essere più in grado, anche se si volesse, di lot­tare con successo.

   Evidentemente talvolta occorre anche cedere, arrivare al compro­messo; ecco perché in certi casi anch'io non mi sono opposto a che si cedesse o quanto meno non si lottasse a fondo. Però se volgo lo sguardo ai miei atteggiamenti in seno alla direzione del partito sono senza dubbio molte le occasioni in cui, di fronte a certi avvenimenti, io ho proposto lotte più forti, scioperi più vasti, generali, e molte so­no state le occasioni in cui Di Vittorio e altri erano decisamente contrari a lotte più impegnative; talvolta lo dicevano apertamente, talvolta non lo dicevano apertamen­te, ma nei fatti il loro atteggiamento era tale che la lotta non la si faceva.

   Comunque, a parte il più o il meno, l'atteggiamento assunto in questa o que­st'altra occasione, non c'è nessuno che in buona fede possa affermare di non cono­scere che cosa pensavo. Nessuno tra i dirigenti del partito beninteso (ché molte di­scussioni si sono limitate al chiuso dell'organismo dirigente), nessuno dei dirigen­ti del partito in buona fede può affermare che non conosceva il mio orientamento. Colombi, anche quando si discusse in direzione e nella piccola commissione la mia questione, disse apertamente che egli in passato aveva simpatizzato col mio orien­tamento; il che significa che era abbastanza evidente, che ne avevo uno e che non era un mistero.

   Negarville, che voleva cercare di minimizzare, disse: "Ma non si trattava di un dissenso di linea. E' evidente che tu ponevi l'accento su questo o su quest'altro tasto, ma questo è questione di temperamento".

   Comunque, a parte l'evidente malafede di coloro che hanno avuto interesse a fingere di non aver mai notato un disaccordo, in che cosa consisteva il mio orienta­mento? Sono in grado di precisare il mio disaccordo? La storia sarebbe troppo lun­ga da essere scritta, dovrei partire dal 1945 e non ho alcuna intenzione di scrivere dei quaderni. Ma chi avesse, domani, interesse a ricerche di questo genere si pren­da i verbali del CC, si legga i miei interventi e quelli di altri. Nel mio archivio non ho tutti, ma parecchi dei miei interventi, nell'archivio del partito vi sono quelli degli altri.

   In secondo luogo si prendano i miei discorsi parlamentari, i miei discorsi pub­blici, i miei rapporti o interventi ai congressi, alle conferenze di partito, ecc. Molti di questi discorsi li ho in casa, molti sono stampati.

   Infine si leggano tutte le note raccolte e sparse in questi quaderni e negli ap­punti tra le mie carte e si troverà tanto materiale da non avere alcuna difficoltà a comprendere, a capire ed a ricostruire.

   Posso per comodità riassumere qui alcune cose:

   Un certo disagio lo sentii immediatamente un mese dopo la liberazione (giu­gno 1945) quando da Milano mi trasferii a Roma. Trovai un ambiente completa­mente diverso. I nostri, inseriti già da tempo, quasi da un anno, nel lavoro parla­mentare e ministeriale, tutti volti ad altri problemi. Compresi che per la seconda volta eravamo rimasti fregati.

   Che cosa volevo? fare la rivoluzione? No, questa è la solita baggianata, la solita stolta accusa mossa da chi ha interesse a falsare le posizioni dell'avversario per poterle combattere, "liquidare".

   Non penso affatto che nel 1945 si potesse fare la rivoluzione. Il nostro paese era occupato dagli anglo-americani, ecc. Condivido pienamente l'analisi fatta dal par­tito in quel periodo e le conclusioni cui è giunto. Ma si trattava di difendere di più certe posizioni e di fare qualcosa di serio e di positivo quando eravamo al gover­no. Inoltre gli anglo-americani ad un certo momento se ne sono andati e noi avrem­mo dovuto puntare maggiormente i piedi. Comunque, a farla corta, si legga un documento che contiene l'analisi che io fa­cevo della situazione italiana nel dicembre 1947, documento che presentai a Mo­sca il 16 dicembre 1947...


[La sintesi che Secchia fa a questo punto del documento è qui omessa in quanto è stata da noi pubblicata nel fascicolo n.7 "La fine del governo di unità nazionale e l'avanzata del blocco reazionario attorno alla DC (1948-1953)" [qui], NdR]


... Il mio rapporto non era tutto frutto del mio sacco; le analisi della situazione economica, politica, caratteristiche dei diversi partiti, rapporti di forza erano quel­le che faceva il partito. Anche per quanto riguarda gli errori commessi si possono trovare quelle cose dette da Togliatti prima del VI congresso (in riunioni di direzione, di CC) e al VI congresso. Le sole cose mie erano quelle che riguardavano il che fare. A mio modo di vedere la situazione era tale che poteva ancora essere salvata, ma impegnando delle lotte più decise.

   Mia era l'insistenza che andando di quel passo e per quella strada non ci sa­remmo rafforzati, ma indeboliti.

   Questo documento, che ho riassunto, rispecchia fedelmente le mie posizioni, il mio dissenso. Non si trattava dunque di impostare la lotta insurrezionale o meno. Non ho mai sostenuto che nel 1945 (aprile) si dovesse fare la rivoluzione; so molto bene quali erano le condizioni allora. Non ho mai messo in discussione la politica di Salerno, anche se ritengo che si poteva concedere di meno e che soprattutto do­po la liberazione del Nord avremmo dovuto esigere di più. Noi abbiamo lamentato che nel Sud i CLN fossero qualcosa di diverso che nel Nord, che più forti fossero in essi le influenze reazionarie; però le eccessive concessioni insite nella politica di Salerno non erano fatte per rafforzare le nostre posizione nei CLN del Sud.

  

   Così pure non è vero ciò che alcuni credono e che altri lasciano credere e cioè che io al 14 luglio del 1948 fossi per l'insurrezione. Sarebbe stata una pazzia. Non esito ad affermare che io anzi in tale occasione esercitai un'influenza decisiva per­ché si tenessero i nervi a posto. Spedii Pellegrini a Venezia, Spano a Genova e altri regionali nelle loro regioni per impedire che accadessero cose che avrebbero pro­curato soltanto delle vittime, fornito pretesti alla provocazione senza alcuna pos­sibilità di successo (vedi mie note memorie sul 14 luglio 1948 e mio opuscolo).

   Ogni ragazzo di scuola sa che le insurrezioni non si improvvisano, ma si pre­parano. Non sono tre colpi di rivoltella e nemmeno la ferita mortale o no di To­gliatti o di altro dirigente che può di colpo rendere matura la situazione per l'in­surrezione vittoriosa. Tutti sappiamo che per l'insurrezione sono necessarie alcune condizioni essenziali, tra l'altro una larga influenza tra le forze armate, dei collega­menti saldi con una parte almeno dei loro comandi. A prescindere da tante altre condizioni. Al mattino alle ore 10 del 14 luglio 1948 non esisteva nulla di tutto que­sto. Mancavano assolutamente i legami con le forze armate, esercito, polizia, cara­binieri, ecc. e tanto più con i loro comandi. Ciò che mancava, le condizioni che mancavano alle ore 10 non potevano essersi create alle ore 12 soltanto perché To­gliatti giaceva in un ospedale. Se mai, nel caso una certa preparazione ci fosse stata e comunque se ci fosse stata una situazione nazionale ed internazionale che avesse consigliato di andare a fondo, avremmo dovuto allora agire immediatamen­te sin dalle prime ore; dopo sarebbe stato troppo tardi.

   Del tutto falso quindi che io pensassi possibile il 14 luglio andare a fondo. No, non lo ritenevo possibile ed agii di conseguenza [17].

   Gli altri orientamenti miei, oltre a quelli indicati nel documento citato, riguar­dano in genere le questioni sindacali. Ritengo che è specialmente nella politica sin­dacale e di mobilitazione delle larghe masse - specie dei grandi centri industriali - che si sarebbe potuto e dovuto fare di più. Può darsi che non saremmo riusciti ad ottenere di più; ma almeno ci saremmo battuti, avremmo dimostrato di aver fatto tutto il possibile. È mai possibile che dal 1948 non ci sia uno sciopero gene­rale in Italia? Perché ci sia uno sciopero generale deve essere attentato a Togliatti? Ma ciò è assurdo. Come può un'organizzazione sindacale dimostrare di fare gli in­teressi degli operai, dei lavoratori, quando da dieci anni non fa uno sciopero gene­rale, mentre giorno per giorno sono attaccati i salari degli operai, le loro conqui­ste, le commissioni interne, le libertà, mentre infieriscono le discriminazioni, i li­cenziamenti, ecc. Non si possono sempre impostare le agitazioni sulla base dello sciopero generale, ma neppure si può restare sempre sul piano della lotta azien­dale. Qualche volta si deve pur tentare di allargare la lotta.

   Così un certo dissenso si è verificato al momento della lotta contro la legge truffa. Non è vero ciò che dice Togliatti, che sul carattere da dare a quella lotta fossimo tutti d'accordo. C'era chi faceva di tutto per spingere al massimo, per farne una grande lotta (io ero di questi) e c'era invece chi tendeva a limitarla, preoccu­pato dall'impressione che poteva fare sull'opinione pubblica l'ostruzionismo, preoc­cupato che ci potesse far perdere voti (leggere il mio discorso al Senato sulla leg­ge truffa) [18].

   Giorgio riconobbe, me lo disse due volte, che in tale contingenza assolsi una funzione, la mia pressione si sentì nel partito.

   Senza gli incidenti al Senato lo sciopero generale non ci sarebbe stato perché non poteva venire proclamato così a freddo. Alla Camera le cose erano già termi­nate e abbastanza tranquillamente. E fu proprio il modo come impostammo le cose al Senato che ci permise poi di mobilitare il paese, di commuovere e smuove­re l'opinione pubblica. Ed i voti li raccogliemmo perché conducemmo nel paese una forte azione politica con scioperi, ecc. Ricordo quando andai da Togliatti a comu­nicargli quanto avvenuto in Senato e a dirgli: ormai il Senato non potrà riunirsi più, noi là dentro con quel presidente non ci potremo stare più, non permettere­mo che egli salga ancora a quel banco. Togliatti mi disse: "Ma un tale atteggiamen­to significa la guerra civile". Le solite parole grosse, esagerate, per spaventare, in modo da preparare il nostro adattamento, la nostra accettazione anche dell'umi­liazione Ruini [19]. Egli era preoccupato di una sola cosa: che l'opinione pubblica ci giudicasse delle persone per bene, delle persone d'ordine.

   La realtà è che il Senato rimase chiuso, e cioè fu sciolto perché capirono che con quel presidente non si sarebbe più potuto lavorare, e non ci fu nessuna insur­rezione. Non si vede perché la chiusura del Senato dovesse provocare l'insurrezione.

  

   Una certa posizione differente ci fu al momento dell'andata al governo di Pella. Leggere mio discorso al Senato. La mia posizione è chiara, non si può dire che io abbia nascosto o taciuto [20].

  

   Un certo dissenso si manifestò al CC dell' 11 aprile 1954 quando io feci il rappor­to sull'attività del partito all'esame dei congressi che venne pubblicato dal centro del partito in opuscolo, ma mi si disse, per "errore", si scrisse intervento invece di rapporto. Non credo che quel mio rapporto fosse piaciuto, comunque io dissi in quel mio discorso parecchie cose abbastanza chiaramente anche se nell'opuscolo sono un poco attenuate. Posi chiaramente il problema che non si poteva continua­re ad andare avanti con gli scioperi locali, aziendali e solo di protesta [21].

   Altro mio discorso al CC nel quale tocco certi temi in modo molto esplicito e se si vuole polemico, senza che nessuno vi abbia ribattuto, è quello al CC del lu­glio 1954 [22].

  

   Non parliamo poi di ciò che avvenne dopo il luglio 1954 perché dopo di allora nelle riunioni degli organismi dirigenti le mie tesi furono sempre assai chiare ed esplicite: vedere la raccolta dei miei interventi ed anche le note di questi quaderni.

  

  

   Un problema sul quale vi è senz'altro un certo disaccordo è l'importanza che io dò all'internazionalismo proletario. Per me tutto ciò che rafforza i legami interna­zionali tra i partiti comunisti è positivo, altri invece sono piuttosto orientati ad attenuare i legami internazionali. C'è chi mette forte l'accento sulla parola: com­pleta autonomia. Io invece intendo l'autonomia dei partiti comunisti nel quadro di una unità ideologica e politica del movimento comunista internazionale. Sono stato perciò contrario alla formula: policentrismo e ho sempre ritenuto insufficienti i rapporti bilaterali.

   Così pure sulla funzione dell'Unione Sovietica vi è con qualche compagno chia­ro dissenso in proposito. Essi ritengono che l'URSS debba essere al centro del mo­vimento comunista, io ritengo che debba essere alla testa, perché, ci piaccia o no, per la funzione che obiettivamente assolve l'Unione Sovietica è alla testa, all'avan­guardia del mondo socialista (vedere in proposito i miei discorsi al CC del giugno [23] e settembre 1956 [24], il mio discorso all'VIII congresso del partito, dicembre 1956 [25], e il mio discorso al CC del 19 novembre 1957 [26], mio intervento commissione del pro­gramma luglio 1956) [27].

  

   Non è vero che io sia sempre d'accordo con l'URSS. Ritengo anzi che in certi casi sia necessario dire ancora più chiaramente quello che pensiamo, sostenere più fermamente le nostre opinioni e posizioni. Però è evidente che non si può sottova­lutare la funzione che ha l'URSS nel mondo. Il negarlo è soltanto ipocrisia. Procla­mare: nessuno stato, nessun partito guida, significa soltanto dire una grossolana gesuitica sciocchezza perché significa negare una realtà obiettiva e nello stesso tem­po fare una affermazione alla quale non si crede. Nel momento che la si fa, già si sa che noi e tutti gli altri abbiamo bisogno dell'URSS.

   Sempre d'accordo con l'URSS? Affatto. La differenza sta soltanto in questo, che vi sono dei compagni che sono pienamente d'accordo con l'URSS quando sembra ad essi che essa sia orientata a non spingere le nostre lotte, mentre io mi trovo d'accordo con l'URSS soprattutto quando sviluppa una politica che mi sembra voler dare stimolo e più grande vigore alle nostre lotte.

   Infatti nella seconda metà del 1947 e 1948 parecchi degli attuali dirigenti masti­carono amaro quando si trattò di approvare le risoluzioni dell'Informbureau e di dare ad esse pratica attuazione. Chi è che allora si buttò con entusiasmo in una certa attività che oggi qualcuno sembra aver dimenticato? Longo, io e qualche al­tro. Oggi nessuno parla più di quelle posizioni dell'URSS e dell'Informbureau. Qualcuno le considera - anche se non lo dice - sbagliate. Oggi si scrivono le no­velle sulla caccia alle Antille nelle quali i partigiani vengono descritti come dei pirati; ma qualcuno si è dimenticato certe direttive impartite nell'aprile del 1948. Arrigo me le ricordava l'altra sera [28]! Adesso si cerca sotto sotto di far credere che quelle direttive erano opera di alcuni di noi soltanto. E no, amici cari, quelle di­rettive erano del partito, anche se forse a certuni non piacevano, anche se qualcu­no oggi non ama siano ricordate, come non si ama sia ricordato il VI congresso del nostro partito e l'autocritica che il nostro partito vi ha dovuto fare.

  

   Infine un problema sul quale c'è disaccordo è il regime di vita interna del par­tito, che io desidererei più democratico. Non si tratta di dare vita alle frazioni, ma di applicare sul serio il centralismo democratico, di instaurare dei metodi di dire­zione che permettano la circolazione delle idee. Oggi questo costume e questa men­talità non ci sono ancora.

   Vi è un articolo dello statuto che afferma: "La minoranza deve accettare e ap­plicare le decisioni della maggioranza". Giustissimo, ma oggi non si permette che in un organismo di partito vi sia una minoranza. Se una minoranza sorge essa vie­ne eliminata nel momento stesso in cui si è rivelata.

   Non si tratta di chiedere il diritto all'esistenza di "minoranze permanenti", ma piuttosto il diritto che coloro che hanno sostenuto determinate posizioni in seno ad un organismo non vengano immediatamente eliminati da quell'organismo sol­tanto perché quelle posizioni sono rimaste minoranza. Perché sino a quando sarà così, nessuno volendo correre il rischio di essere escluso dagli organismi dirigenti, eviterà di essere "minoranza" e cioè di esprimere una opinione diversa da quella del relatore in seno all'organismo di cui fa parte. Il relatore al CC è sempre, lo si sa, un compagno che esprime l'opinione della segreteria, della direzione del parti­to, quindi nel pronunciarsi d'accordo si è sicuri di non sbagliare, nel muovergli delle critiche si è certi invece di restare minoranza.

   Ecco una questione sulla quale i più mi attribuiscono idee che non ho, perché si ha l'abitudine di classificare i compagni con degli schemi già prefabbricati. La realtà è che io, che sono decisamente avverso alle opinioni e posizioni politiche dei "revisionisti", ho invece, per quanto riguarda il regime di vita interna di partito, posizioni che tendono a migliorare questa vita interna, a dare maggiori possibilità al dibattito; a tollerare di più che dei compagni possano anche non essere d'accor­do con una determinata posizione politica purché accettino le decisioni della mag­gioranza.

   Specialmente oggi che non ci poniamo delle prospettive di lotta violenta, che abbiamo la prospettiva dello sviluppo pacifico, che non ci troviamo a lavorare in condizioni di illegalità, non c'è alcuna ragione che giustifichi il persistere di un re­gime interno che impedisce di fatto il dibattito, quanto meno non lo favorisce, per­ché ognuno sa che iniziando un dibattito non può che essere minoranza e che es­sendo minoranza deve subito pagare il dazio, uscire da un organismo dirigente, da una commissione di lavoro e così via. Su questo problema vedere miei appunti di questi quaderni e gli emendamenti che io presentai in sede congressuale alla commissione per il programma.

   In una parola, mentre in genere sono per lo più orientato per una lotta più am­pia e decisa verso i nostri avversari e i nostri nemici, non ho affatto un atteggia­mento settario nel partito e anzi sono per una vita di partito che favorisca il dibat­tito, la circolazione delle idee e la possibilità di esprimere opinioni diverse senza che un compagno sia subito posto al bando o "liquidato". Queste all'incirca le cose essenziali che possono dare l'idea del mio "orienta­mento" [29].

Note

[1] Per la formazione del gruppo di "Azione comunista" cfr. in precedenza, Quaderno n.1, nota 75.
[2] La citazione esatta del passo riportato da Secchia è la seguente: "Malinovski était provocateur. Nous l'ignorions et ne faisions alors que le soupçonner de provocation. Les menchéviks affirmaient que nous savions que Malinovski était un provocateur et que nous le couvrions. Son affaire montre à quel point notre parti était fort déjà à cette epoque. Un provocateur siégeant à la direction ne réussit pas à détruire notre organisation"; E. Yaroslavski, Historie du Parti communiste de l'URSS (Parti bolchévik), Paris, 1931, p. 209 nota.
[3] Cfr. Nadezda Krupskaja, La mia vita con Lenin, Roma, 1956, pp. 238-239.
[4] "Asev era un membro del CC del partito socialrivoluzionario. Fu per molti anni a capo dell' 'organizzazione di lotta', che inscenò vari attentati terroristici sensazionali (contro il granduca Sergio, con­tro il ministro degli Interni Plehve e altri). In seguito fu smascherato come agente provocatore, al ser­vizio del dipartimento di polizia". Cosi Julij Martov-Fjodor Dan, Storia della socialdemocrazia russa, Milano, 1973, p. 75 nota. L'Ochrana era la polizia segreta zarista.
[5] Con tutta probabilità Edoardo D'Onofrio.
[6] John McCaffery comandava la centrale di Berna di uno degli organismi britannici deputati a mantenere i contatti con i movimenti di resistenza in Europa, lo Special Operations Executive (SOE); sui suoi contatti con la resistenza italiana si veda la documentazione raccolta da Pietro Secchia e Fi­lippo Frassati, La resistenza e gli alleati, 1962, passim.
[7] Vedi in proposito nota a p. 52 di questo quaderno e anche qua e là in altri quaderni [Nota di P. Secchia]
[8] Anton Vratuša, il quale più tardi avrebbe rivestito importanti incarichi ministeriali nella Repubblica federativa jugoslava, era stato uno degli esponenti del movimento partigiano jugoslavo che aveva meglio conosciuto la resistenza italiana e che- noto generalmente con lo pseudonimo di Urban- aveva mantenuto i rapporti al livello più alto con la resistenza italiana; testimonianze della sua attività in questo senso in Secchia, Il PCI.
[9] Così, qui e nelle pagine seguenti, viene designato Togliatti.
[10] Cfr. Vladimir Dedijer, Josip Broz Tito. Contributi per una biografia, Fiume, 1953; di questo libro esiste un'edizione ridotta pubblicata in Italia con il titolo Tito contro Mosca, Milano, 1953.
[11] Eugenio Reale si servì largamente in questo senso del settimanale "Corrispondenza socialista".
[12] Luigi Longo. Il comunicato della direzione del PCI a proposito dell'uscita di Secchia dalla segreteria e della sua destinazione alla segreteria regionale della Lombardia apparve in "l'Unità", 19 gennaio 1955, a. XXXII, n. 16.
[13] Vittorio Vidali e Antonio Cicalini.
[14] Velio Spano, Mauro Scoccimarro e Celeste Negarville.
[15] Giorgio Amendola.
[16] Vittorio Vidali.
[17] Anche su questo aspetto rinviamo al fascicolo n.7 citato, [qui] [NdR].
[18] Pietro Secchia, La nostra lotta per la libertà, la pace e la Costituzione. Discorso pronunciato al Senato il 13 marzo 1953, Roma, 1953.
[19] Meuccio Ruini, indipendente proveniente dal partito democratico del lavoro, presidente del Senato, si prestò alle manovre della democrazia cristiana per ottenere ad ogni costo l'approvazione della legge elettorale che prevedeva il cosiddetto premio di maggioranza contro l'ostruzionismo parlamentare praticato dalle sinistre. La stampa comunista denunciò violentemente l'operato di Ruini. Così aveva inizio ad esempio l'articolo di Mauro Scoccimarro, Colpo di forza al Senato, in "Rinascita", marzo 1953, a. X, n. 3, pp. 137-139: "Il 29 marzo 1953 è una data che non si può e non si deve dimenticare. In quel pomeriggio domenicale, nel Senato della Repubblica, è avvenuto un fatto senza precedenti nella storia parlamentare italiana. È avvenuto che il governo clericale, di fronte all'eventualità di subire uno scacco da parte dell'opposizione, cioè di non ottenere l'approvazione della nuova legge elettorale entro i termini di tempo da esso ritenuti più favorevoli per i suoi piani politici, non ha esitato ad attuare, con la complicità del presidente dell'Assemblea, un colpo di forza contro l'opposizione, violando ogni norma regolamentare e costituzionale, calpestando i diritti delle minoranze, imponendo brutalmente la propria volontà fino al punto di far simulare una grottesca votazione, e far proclamare approvata una legge che in realtà non è stata votata. Tutto ciò è avvenuto in breve volgere di tempo, con una successione di atti che rivelano un piano preordinato e organizzato in ogni sua parte, e realizzato con tale grossolana brutalità, da far sorgere in taluni persino il dubbio che si stesse attuando un vero e proprio colpo di stato".
[20] Cfr. "l'Unità", 23 agosto 1953, a. XXX, n. 200, ed anche P. Secchia, Le parole e i fatti del governo Pella, Roma, 1953.
[21] Su ciò si veda già Quaderno n.1, nota 14.
[22] Cfr. Quaderno n.1, nota 14.
[23] Cfr. Quaderno n. 1, nota 86 e Quaderno n. 2, nota10.
[24] Cfr. sul CC del 27-29 settembre 1956, che ebbe all'ordine del giorno la relazione di L. Longo sulla "Preparazione dell'VIII congresso del partito", "l'Unità", 28-29 settembre 1956, a. XXXIII, nn. 229-230, nell'ultimo dei quali breve riassunto dell'intervento di Secchia.
[25] Cfr. Quaderno n.2, nota 59.
[26] E' probabile che si tratti di un errore, poiché da "l'Unità" non risulta essersi tenuta a quella data alcuna riunione del CC; la riunione del CC ebbe luogo viceversa dal 9 all'11 dicembre 1957, a seguito della conferenza di Mosca dei partiti comunisti operai. Sui lavori di questa sessione del CC e sull'intervento di Secchia cfr. Quaderno 3, nota18.
[27]Cfr. Quaderno n.2, l'intervento non è presente nell'Archivio Secchia.
[28] Arrigo Boldrini, presidente dell'ANPI.
[29] Vedi p.92 [Nota di P.Secchia]