La Repubblica popolare cinese oggi:
Ben scavato vecchia talpa?

Premessa

Chi accentra l'attenzione sulla rivoluzione francese, non per la parte conclusa col Termidoro ma per quella successiva a Napoleone e alla Restaurazione, si rende conto che la ruota della storia non è tornata indietro e che l'89 (1789) ha prodotto effetti irreversibili. Anche l'89 di due secoli dopo, il 1989, seppure inquadrabile come abbiamo sostenuto in una fase controrivoluzionaria, non è riuscito a riportare le cose al punto di partenza, cioè a prima del 1917. Anzi. Non pensiamo naturalmente a un possibile ritorno dello zar, anche se in Bulgaria qualcosa di analogo è avvenuto, ma alla dinamica politica e sociale a livello planetario come effetto della rivoluzione russa.

Non lo diciamo per consolare gli orfani del comunismo (tra cui siamo anche noi), ma per questioni oggettive riscontrabili negli avvenimenti di questi ultimi decenni. All'inizio, cioè attorno agli anni '90, non potevamo certo valutare gli scenari futuri, ma oggi molte cose si sono chiarite. Su tre questioni va infatti centrata la riflessione di quei comunisti non affetti da reducismo e in grado di valutare le cose lucidamente dopo il crollo dell'URSS:

1) La crisi economica e militare del fronte imperialista, nonostante le sconfitte subite dal movimento comunista, è ormai divenuta sistemica e si complica continuamente.
2) La svolta putiniana in Russia ha bloccato un processo di disgregazione che dopo il crollo dell'URSS sembrava inevitabile, con tutto quello che avrebbe comportato nei rapporti di forza mondiali.
3) L'irrompere della 'questione cinese' negli equilibri mondiali, che ha sconvolto sia i parametri con cui si definivano i rapporti di forza fino agli anni'80 sia i modi con cui stanno procedendo alcune trasformazioni epocali dopo questa modifica.

Qui ci limitiamo ad affrontare il terzo punto che si riferisce direttamente alle questioni legate al movimento comunista e alla Cina dopo il 'rovesciamento dei verdetti'. A seconda di come si considera l'esito cinese dello scontro tra i fautori della rivoluzione culturale e gli esponenti del PCC che 'avevano imboccato la via capitalistica' si possono trarre conclusioni assai diverse.

E' singolare che quello che rimane del movimento comunista storico abbia evitato finora di misurarsi seriamente sulla valutazione dell'esperienza cinese da un punto di vista marxista. In molti di questi gruppi e partiti che si richiamano al comunismo ci si limita alle premesse, sul fattore geopolitico in particolare, senza dare risposte chiare a questioni che nei fatti sono collegate e soprattutto di farne i capisaldi teorici e di interpretazione storico-materialistica degli avvenimenti degli ultimi trenta anni.

Se consideriamo la cosa sul terreno strettamente geopolitico la risposta non è molto complicata. Chi può negare che la Cina sia diventata una grande realtà che condiziona l'intero pianeta? La grande crescita economica e il livello dello sviluppo tecnologico si stanno collegando a progetti come quello della Via della Seta che hanno l'ambizione di connettere, pianificandone lo sviluppo, buona parte del mondo. Si passa dunque dal clamoroso sviluppo economico a due cifre a qualcosa che investe più continenti cercando di pianificarne in definitiva anche lo sviluppo. Ai comunisti interessa però non solo riconoscere questo dato di fatto, ma anche valutarlo rispetto alle sue caratteristiche.

Intanto la questione del Partito comunista cinese. Questa è la prima valutazione da fare. E' indubbio che a partire dagli anni '60 in Cina si sono scontrate due linee politiche una delle quali era quella di Mao. Il primo scontro si è avuto con il grande balzo in avanti che ha segnato una prima difficoltà per il 'grande timoniere' nel procedere sulla via di una rapida trasformazione dei rapporti sociali ed economici.

Lo scontro, che successivamente si è espresso nella lotta contro la persona del presidente della Repubblica Liu Shao Chi, ha scavato un solco nel partito e convinto Mao, in rapporto anche agli avvenimenti sovietici dopo la morte di Stalin, che la Cina correva lo stesso pericolo dell'URSS e che bisognava aprire il fuoco sul quartier generale, contro i dirigenti che avevano imboccato la via capitalistica.

I fatti hanno dimostrato che questa linea non è passata e che già nel corso della rivoluzione culturale si era aperta una crisi, di cui la vicenda di Lin Piao è stato l'episodio più clamoroso assieme alla riabilitazione di Deng Hsiao Ping.

Con la morte di Mao e la rapida liquidazione del gruppo centrale della rivoluzione culturale, la storia ha preso un altro corso. Poteva sembrare che il copione fosse già stato scritto, ma gli avvenimenti di piazza Tienanmen, quando la rivolta arancione è stata stroncata, hanno dimostrato che il gruppo dirigente del PCC aveva un'ipotesi che era ben differente dalla pura e semplice liquidazione del socialismo come era avvenuto nell'URSS con Gorbaciov e Eltsin.

La nuova linea strategica del PCC si è basata su due presupposti: una sorta di 'compromesso storico' con l'imperialismo americano e la ridefinizione delle tappe di sviluppo del socialismo in Cina.

Del primo punto si parla poco, ma è indubbio che, ancora vivo Mao, il PCC ha rovesciato a 180 gradi la linea internazionale e quella che era la 'tigre di carta', che si poteva vincere con una lotta frontale, è diventata un alleato di fatto su molte questioni. Per la Cina ciò ha comportato la fine del blocco economico e un ingente afflusso di capitali che nelle metropoli imperialiste non trovavano più sufficienti condizioni di valorizzazione. L'indipendenza politica garantita dal PCC d'altra parte ha consentito di utilizzare l'afflusso di capitale estero - contrariamente alle aspettative degli strateghi della 'globalizzazione' - come volano di crescita dell'economia nazionale e non come veicolo di una nuova colonizzazione.

La condizione imposta dal compromesso era però che la Cina si defilasse di fronte alle scelte politiche e militari dell'impero a guida americana. Naturalmente da parte cinese è stato un rischio calcolato. Gli USA pensavano che il distacco della Cina dal blocco comunista legato all'URSS potesse modificare i rapporti di forza a loro vantaggio, ma alla fine hanno scoperto che i cinesi avevano non solo un progetto autonomo, ma anche una capacità di sviluppare un sistema economico avanzato e competitivo. A posteriori, quindi, è possibile dare una valutazione diversa di scelte che nel momento in cui sono state fatte apparivano molto discutibili e che, nell'immediato, indebolivano la linea antimperialista storicamente consolidata.

In realtà la questione non era solo tattica, (abbassare il tiro per prendere tempo e riorganizzarsi). Alla base delle scelte stava una nuova definizione teorica e strategica dello sviluppo del socialismo in Cina e anche del modo di interpretare il marxismo.

Difatti, la svolta internazionale della Cina partiva innanzitutto da una valutazione della fase in cui si trovava il paese dopo la presa del potere nel '49. La linea di Mao era stata quella dell'accelerazione dello sviluppo attraverso il grande balzo in avanti e la grande rivoluzione culturale. La 'revisione dei verdetti' aveva imposto una sterzata, di cui Deng era stato l'artefice principale, basata sulla definizione che la Cina si trovava in una fase iniziale della costruzione del socialismo e che solo un pieno sviluppo delle forze produttive poteva determinarne il successo. Ma il modello di questo percorso non era predeterminato e bisognava 'basarsi sui fatti', cioè trarre le indicazioni dall'esperienza. In questo modo ritornava il metodo maoista.

Contrariamente a quello che la vulgata trotskista tende a dimostrare, per il piacere della sinistra occidentale, la nuova linea del PCC non è basata su una revisione dei presupposti teorici del marxismo e del leninismo e neppure sulla sconfessione del maoismo. Pubblichiamo [qui] il Rapporto del segretario Jiang Zemin al 15° congresso del PCC, tenutosi nel settembre 1997, in cui la nuova posizione cinese viene esposta organicamente. Su questo anche l'attuale presidente, Xi Jinping, nel suo volume 'Governare la Cina' ribadisce la sua fedeltà. Ovviamente tutto ciò è fatto sulla base di un nuovo modo di applicare la teoria marxista ai processi reali. E' azzardata questa scelta o è addirittura una mistificazione di ciò che realmente i cinesi stanno facendo?

Certo, per noi talmudisti occidentali del marxismo-leninismo la linea del PCC esce da certi schemi ideologici e ci impone una riflessione seria che non sia comunque di esaltazione acritica di una nuova 'verità' (come invece sta avvenendo in ambienti orfani del libretto rosso) e di analizzare le cose con metodi scientifici, considerando i rischi che la scelta cinese comporta. E soprattutto calcolando i tempi storici che certi percorsi impongono.

Come la rivoluzione russa ha dovuto fare i conti, nel lungo periodo, con la situazione oggettiva, rispetto alla quale ha operato anche la controrivoluzione kruscioviana, così il PCC dovrà tener conto che l'attuale equilibrio si basa su numerose variabili che non sono solo il partito e le masse, ma anche le relazioni internazionali e l'economia privata, che ha un ruolo importante nelle prospettive della Cina e potrebbe rompere quell'armonia confuciana che i dirigenti cinesi esaltano nel definire la situazione.

Dobbiamo dunque verificare, non da giudici trotskisti, ma da comunisti e da materialisti, come si svilupperanno nel tempo gli avvenimenti. Nel volume che abbiamo citato, 'Governare la Cina', di Xi Jianping, sono contenuti due scritti che fanno capire in che modo il gruppo dirigente cinese intende procedere su questioni essenziali come lo sviluppo scientifico e tecnologico e la costruzione dello Stato di diritto. Non revisione dei principi, ma ipotesi concrete da sperimentare.

Gli scritti in questione si intitolano 'Accelerare la transizione da un modello di sviluppo basato sui fattori produttivi e investimenti verso un modello di sviluppo sostenuto dall'innovazione' [qui] e 'Perseverare nella costruzione di un tutt'uno organico avente come componenti uno Stato,un governo e una società fondati sul diritto' [qui].

Ci troviamo di fronte a due tesi che vanno oltre le quattro modernizzazioni di Deng che sono state la premessa alla trasformazione epocale della Cina. Per il PCC rimane essenziale oggi non solo lo sviluppo (non solo quantitativo) delle forze produttive e il riequilibrio della struttura sociale e della capacità di pianificazione continua dei risultati, ma anche la costruzione di un modello di organizzazione sociale fondato sullo stato di diritto. Uno stato di diritto che deve garantire, sotto il controllo del partito, che le regole del patto sociale oggi esistente in Cina vengano rispettate dai contraenti e ciascuno svolga il suo ruolo nel socialismo con 'caratteristiche cinesi'.

Sul 'socialismo con caratteristiche cinesi' riportiamo anche [qui] dal libro Il socialismo con caratteristiche cinesi, perchè funziona, di Zhang Boying, recentemente pubblicato in Italia dalle Edizioni Marx XXI, parte del capitolo V "L'economia di mercato deve funzionare per la Cina" in cui si ricostruiscono alcuni dei passaggi che hanno portato il PCC a criticare l'identificazione pura e semplice di socialismo e pianificazione centralizzata e a dar vita a un modello in cui pianificazione e mercato possono, anzi devono coesistere.

Alla vecchia e alle nuove generazioni di comunisti spetta ora il compito di interpretare correttamente il processo in corso e inserirlo nella grande epopea iniziata nell'ottobre 1917, senza escludere nuovi colpi di scena e soprattutto nuove variabili.