Il ruolo del Partito comunista nella storia d'Italia

9
La crisi del togliattismo e la liquidazione del PCI

Premessa

  Lo schema seguito da Togliatti fino al 1956, come si è detto nel capitolo precedente, aveva una sua logica all'interno della strategia internazionale del movimento comunista. Non che esso non presentasse contraddizioni interne, ma per comprenderle bisognava tener presente il contesto reale in cui esse si manifestavano.

   Avevano carattere principale queste contraddizioni o erano differenze tattiche? Per comprendere questa questione nei suoi termini reali e storici rimandiamo ai testi di Pietro Secchia che abbiamo riportato.

   Per dare invece un giudizio storico sintetico e essenziale ribadiamo qui i concetti principali sui risultati conseguiti dal PCI nel periodo 1943-53 e che sono stati alla base della sua crescita come forza di classe e popolare: direzione della lotta armata antifascista, fondazione della Repubblica, approvazione della Carta costituzionale, tenuta del movi­mento comunista di fronte all'offensiva reazionaria della DC fino alla sconfitta della 'legge truffa' del 1953.

   Perchè evidenziare questi risultati che precedono l'inizio della crisi del 1956? Perchè sappiamo che essi vengono negati da quelle tendenze trotskiste (a cui si sono associati dopo il 1956 gruppi emmellisti) che ripetono, su scala italiana, quello che è avvenuto con l'Unione Sovietica nel periodo di Stalin. Ricordiamoci 'La rivoluzione tradita' di Trotski e noteremo la somiglianza di stile con 'Proletari senza rivoluzione' di Del Carria, uno che si definiva emme-elle. Non dividere nettamente le due fasi dell'esistenza del PCI, prima e dopo il '56, non permette di capirne la storia e darne una interpretazione corretta.

   Si dirà: ma poi come è finito il PCI di Togliatti e perchè? A questo bisogna rispondere con un'altra domanda: perchè si è dissolta l'URSS di Stalin? Non ci si è accorti di questo parallelismo che investe la questione della crisi del movimento comunista internazionale e le sue conseguenze? Da qui bisogna partire per capirne le vicende.

   Rimanendo sul terreno delle ragioni della crisi e della dissoluzione del PCI bisogna partire quindi dagli effetti devastanti del XX congresso, in seguito al quale Togliatti e il gruppo dirigente del partito hanno imboccato una strada che ha portato alla mutazione genetica del partito che non è stata ovviamente immediata ma è durata più di trenta anni, proprio come l'URSS da Kruscev a Gorbaciov. Una coincidenza temporale non priva di significato.

   In che cosa consisteva questa mutazione genetica? In primo luogo nella enfatizzazione della 'via italiana al socialismo' che, sganciata da una strategia internazionale del movimento comunista portava oggettivamente, nonostante i distinguo, alla socialdemocratizzazione del Partito comunista con l'affermazione di un gradualismo riformistico tipico di queste forze politiche. Questo processo di socialdemocratizza­zione si è andato poi via via accelerando in rapporto allo sviluppo della crisi del movimento comunista internazionale nell'Est europeo e in URSS.

   Partiamo prima da Togliatti per poi capire la questione della via italiana al socialismo e le sue implicazioni strategiche.

   Togliatti muore nel 1964 mentre si trovava a Yalta in attesa dell'incon­tro, improbabile, con Kruscev e lì prepara il famoso memoriale [1] in cui in maniera abbastanza organica viene definita la linea del PCI dopo il XX congresso.

   In questo memoriale si ribadisce l'appoggio al processo di 'democratizzazione' in atto in URSS e nei paesi socialisti, si esprime il desiderio che nelle conferenze internazionali dei comunisti si eviti ogni condanna dei comunisti cinesi pur evidenziandone le differenze, che ogni partito comunista mantenga la sua autonomia seppur in un ambito di collaborazione stabile. Alla morte di Togliatti, dunque, a fronte di una tempesta controrivoluzionaria che si annuncia, il PCI si mantiene in mezzo al guado, in attesa dell'altra tempesta, quella interna, che investirà il partito negli anni successivi e lo porterà alla dissoluzione.

   Ma con Yalta non siamo ancora ad un capovolgimento strategico della linea del PCI, siamo solo alle premesse. E queste premesse riguardavano la teorizzazione di una via italiana al socialismo che avrebbe dovuto risolvere le contraddizioni che si andavano drammaticamente aprendo nel movimento comunista. In realtà la questione non riguardava l'ovvia considerazione che ogni trasformazione sociale parte dalle condizioni specifiche di ogni paese. La particolarità della nuova posizione prendeva invece in considerazione la teoria di uno sviluppo non dialettico della trasformazione socialista, riaffermando di fatto una tesi gradualistica e riformistica. Difatti, una cosa è muoversi in termini tattici in un quadro di democrazia borghese per conseguire risultati che vadano nell'interesse delle classi sfruttate, un'altra è pensare a un percorso complessivo che modifichi qualitativamente i rapporti politici e sociali in senso socialista. Certo, c'erano state le esperienze della guerra di liberazione e della Costituente, che davano l'idea che la lotta di classe si andasse sviluppando in un quadro di democrazia sostanzialmente borghese seppure definita progressiva, ma questo era un obiettivo storico di fase, mentre la questione della prospettiva socialista implicava un salto qualitativo e con modificate condizioni storiche. E' su queste ambiguità invece, come vedremo più avanti, che si sviluppa nel PCI la trasformazione genetica basata sull'idea che tra democrazia (borghese) e socialismo non ci sia soluzione di continuità.

   Su questo assioma e per molti anni successivi, fino al rovesciamento strategico berlingueriano, insistono i teorici del PCI che all'epoca hanno abbracciato la via italiana al socialismo come cardine strategico.

   Uno di questi, che all'epoca andava per la maggiore, Luciano Gruppi, dal 13 marzo al 3 maggio 1974 tenne una serie di lezioni all'Istituto Gramsci di Roma, raccolte poi in un volumetto dal titolo 'Togliatti e la via italiana al socialismo' ( Editori Riuniti, ottobre 1974 ). Nella sesta lezione [qui], dedicata a 'il XX Congresso e il problema dello stalinismo', si riassumono le questioni che furono poste all'VIII Congresso, ma qui ampliate con un accentuato antistalinismo.

   In particolare Gruppi evidenzia ciò che era accaduto nel giugno del 1956 in apertura del consiglio nazionale del PCI che si era riunito in previsione delle elezioni amministrative. In quella occasione,Togliatti viene percepito dai delegati come reticente sulle questioni dello stalinismo e Luciano Gruppi scrive che "dopo il rapporto ... serpeggiava nel consiglio uno stato d'animo di delusione e di disagio". A togliere dall'imbarazzo i presenti era stato Giorgio Amendola: "Egli espresse tutta l'emozione e il dolore dei compagni per le rivelazioni ricevute, ma sottolineò come, attraverso quel dolore, si compiva una nuova maturazione del partito. Erano infatti state tolte dal XX, egli disse, pesanti 'ipoteche' che frenavano la (nostra) ricerca di una via originale di sviluppo della rivoluzione socialista in Italia". Una via, è il caso di dire, tanto originale che portò alla Bolognina.

   Nel rappresentare gli orientamenti nel dibattito interno al PCI, Luciano Gruppi fa anche riferimento alla riunione del Comitato Centrale che si svolse l'11 novembre 1961 dopo il XXII Congresso del PCUS, in cui Kruscev aveva rincarato la dose ed era anche stata presa la decisione di cambiare nome alla città di Stalingrado e di togliere la salma di Stalin dal mausoleo in cui era collocata assieme a Lenin.

   Le perplessità di Togliatti su queste scelte plateali furono molte ed è per questo che la riunione del CC fu assai contrastata, egli fu accusato di non poter ignorare ciò che avveniva a Mosca all'epoca di Stalin. Peraltro la riunione si chiuse senza un accordo, al punto che Togliatti rinunciò a fare le tradizionali conclusioni.

   Indicativo è il clima della discussione che si coglie negli interventi di Chiaromonte e di Amendola. Il primo nel suo intervento dice che aderisce pienamente, a scanso di equivoci, alle tesi del XX e del XXII congresso, e aggiunge che non è affatto scontato che tutto il partito sia conquistato alla linea della via italiana al socialismo. Egli ritiene in sostanza, in polemica con Togliatti, che la ripresa della critica a Stalin sia necessaria per modificare gli orientamenti di una parte recalcitrante del partito. Mentre Amendola nel suo intervento dice: "Il mutamento del nome della città di Stalingrado può provocare turbamenti, ma dobbiamo accettarlo come espressione di volontà di distruzione di un mito che ha pesato sulla vita dell'Unione Sovietica". 'Quindi, per togliere ogni dubbio, si stabiliva un nesso diretto tra destalinizzazione e via italiana al socialismo.

   Nell'ultima delle lezioni svolte da Luciano Gruppi all'Istituto Gramsci di Roma, l'ottava, dedicata al tema 'Democrazia, riforme e problema del potere' [qui] si entra nel vivo delle nuove teorizzazioni strategiche. Qui Gruppi cita il Togliatti dell'VIII Congresso il quale afferma: "Questa posizione (sullo Stato come dittatura di classe) rimane pienamente valida oggi? Ecco un tema di discussione. Quando noi infatti affermiamo che è possibile una via di avanzata verso il socialismo non solo sul terreno democratico, ma anche utilizzando forme parlamentari, è evidente che correggiamo qualche cosa di questa posizione, tenendo conto delle trasformazioni che hanno avuto luogo e che si stanno compiendo nel mondo". Parte dunque da Togliatti l'indicazione su cui poi si svilupperanno le teorizzazioni sulla 'specificità' del caso italiano. E sulla base di queste considerazioni, Gruppi si spinge a trarre conclusioni di questo tipo:

   "Se è vero che sia Marx che Lenin avevano affermata la necessità che la classe operaia partecipasse al suffragio elettorale, alla via parlamentare ... ambedue non avevano visto nel parlamento altro che un organo di dominio della borghesia sui lavoratori... Le cose mutano ora che la classe operaia non ha nel parlamento solo alcuni rappresentanti,... ma ha in questa assemblea rappresentanze a volte determinanti".

   Da qui ad arrivare a uno stravolgimento del giudizio sulle dinamiche della democrazia borghese e come si attua attraverso di esse il dominio di classe il passaggio è diretto e un vero salto di qualità viene fatto da Enrico Berlinguer negli anni successivi. E' sua infatti la responsabilità (o il merito secondo la nuova vulgata) di aver fatto uscire il PCI dalle nebbie delle teorizzazioni astratte del rapporto tra democrazia e socialismo e di aver posto il vero problema della trasformazione del PCI da partito comunista a partito istituzionale dentro il sistema politico occidentale.

   Enrico Berlinguer, nonostante la retorica sulla sua morte sul palco di un comizio a Padova nel giugno 1984 e sulla questione morale come dimostrazione dell'estremo rigore del personaggio, va ricordato invece per ben altre cose che ebbero un effetto decisivo e letale sulla trasformazione genetica del PCI. Queste cose portano il nome di accettazione della protezione NATO come ambito in cui si deve svolgere l'azione del partito comunista, di affermazione che la democrazia è un valore assoluto, aldilà del suo concetto di classe, e di proposta di compromesso, definito storico, per mascherare l'accordo con le vecchie classi dirigenti italiane che facevano capo alla DC. E, inoltre, egli teorizza la fine della 'spinta propulsiva' della rivoluzione d'ottobre confondendo il giudizio sulla fase storica con il peso oggettivo che il blocco socialista aveva nei rapporti di forza con l'imperialismo. A chiarire il concetto sarebbero venute le guerre infinite di Bush e dell'occidente capitalistico dopo il crollo dell'URSS.

   Per chiarire, invece, il destino e il ruolo che avrebbe avuto il PCI sulla via del compromesso storico, che andava sostituendo nei fatti tutte le congetture sulla via italiana al socialismo, riportiamo [qui] la cronaca degli incontri segreti di Berlinguer con Aldo Moro dal 1971 al 1978 scritta da un testimone di eccezione, Luciano Barca, che a quegli incontri aveva preso parte.

   Secondo la descrizione di Barca, negli incontri si andava profilando un accordo tra DC, PSI, PRI e PCI per 'salvare' il paese da una crisi economica e politica che solo quell'accordo permetteva di superare. In altri termini Moro chiedeva al PCI di garantire la stabilità politica in Italia rinunciando ad ogni velleità di trasformazione sociale.

   Il 16 febbraio del 1978 si tiene l'ultimo incontro tra Berlinguer e Moro nel corso del quale questi annuncia che sarebbe sceso direttamente in campo per la formazione di un governo di unità nazionale e che avrebbe fatto questa proposta ai gruppi parlamentari della DC. Gli ultimi particolari vennero messi a punto il 15 marzo 1978, da Barca e da un collaboratore di Aldo Moro, Tullio Ancora.

   Il giorno dopo Moro fu rapito e la sua scorta uccisa.

   Gli americani e gli israeliani manifestavano in questo modo la loro disapprovazione di una operazione politica che non era prevista, nonostante le promesse rassicuranti del PCI, e che metteva in discussione equilibri consolidati nell'area mediterranea.

   Berlinguer aveva da tempo dichiarato che sotto l'ombrello della NATO si sentiva più sicuro che nel Patto di Varsavia. Ma ciò non era evidentemente sufficiente, ci doveva essere una resa senza condizioni e continuare a chiamarsi comunisti, anche se geneticamente modificati, era inaccettabile. Eppure certe cose erano state chiarite negli scritti di Berlinguer sul compromesso storico. Si tratta di tre articoli apparsi sulla rivista Rinascita il 28 settembre e il 5 e 9 ottobre 1973 subito dopo il colpo di stato in Cile. Il nucleo centrale degli articoli stava nella affermazione che "il PCI persegue una alternativa democratica e non una alternativa di sinistra" [qui]. Se ricordiamo ciò che era avvenuto nel 1964 col primo centro sinistra, con Antonio Segni presidente della Repubblica e il generale De Lorenzo (autore del Piano Solo) comandante dei carabinieri e Moro presidente del Consiglio costretto a dimettersi, possiamo immaginare dove sarebbe andato a parare il discorso sul ruolo essenziale dei democristiani nel progetto berlingueriano di compromesso.

   La morte di Moro cambia di nuovo le coordinate in cui il PCI si stava muovendo fino a quel momento, che si trasformarono in politica di unità nazionale attorno al governo Andreotti identificando in questo modo il partito comunista con lo stato delle stragi e di coloro che avevano voluto la morte del leader della DC.

   Quando si verificarono i gravi avvenimenti degli anni '90 che videro non solo il crollo del muro di Berlino, ma anche dell'URSS e dei paesi socialisti dell'Europa dell'Est, il PCI in quanto partito comunista era dunque ben bollito. Si trattava di utilizzarne la carcassa e venderla sul mercato della politica.

   Ad Achille Occhetto, leader di scuola ingraiana, cioè uomo 'di sinistra', toccò il compito di esecutore testamentario della liquidazione del PCI.

   La questione si decise nel Comitato centrale che si tenne, con grande tempestività rispetto al corso degli avvenimenti, dal 20 al 24 novembre 1989. Il CC decise di convocare il congresso straordinario del partito con la proposta di trasformare il PCI in una 'cosa' (così fu effettivamente chiamata) diversa; per i comunisti era dunque un rompete le righe che trovò peraltro poche e confuse risposte come le vicende della 'Rifondazione' comunista stanno a dimostrare.

   Il congresso staordinario, il XXI e ultimo congresso del PCI, viene convocato dal 7 al 10 marzo 1990 a Bologna. Il nome e cognome dei becchini è consegnato all'elenco dei firmatari della mozione di maggioranza [qui] che contiene tutto il Gotha dei dirigenti del vecchio partito che si riversano in massa sulla nuova ipotesi occhettiana.

   La mozione di minoranza, la terza, quella presentata da Armando Cossutta, porta l'adesione di appena dieci persone [2] a dimostrazione che la trasformazione genetica del PCI era andata negli anni in profondità e ne aveva determinato la fine come partito dei comunisti.

   La mozione di maggioranza, quella che ha stravinto al congresso di Bologna, era intitolata: "Dare vita alla fase costituente di una nuova formazione politica" [qui]. Il centro del ragionamento era questo:

   "Esiste oggi una sinistra sommersa, un potenziale riformatore che taglia trasversalmente la società civile... La stessa esperienza della Sinistra indipendente ha rappresentato un modo per dare voce a personalità e gruppi di diversa ispirazione democratica e progressista... Noi stessi avvertiamo l'esigenza di andare oltre questa esperienza verso un rapporto organico nella formazione delle decisioni e delle scelte politiche e programmatiche. C'è, come si è detto, un movimento cattolico progressista che sta attraversando una fase di profondo e fecondo rinnovamento. C'è il movimento dei verdi, che ha il merito di aver posto al centro la grande questione ecologica, che come noi dà priorità ai programmi sugli schieramenti, e intuisce la collocazione trasversale delle forze riformatrici... C'è un movimento radicale che con le sue battaglie ha sollecitato l'esigenza di una riforma della politica, di nuove libertà civili, di nuove regole democratiche". Quindi sulla base di questa logica si poteva transitare dal PCI al PD e senza soluzione di continuità.

   P.S.
  Sono passati 34 anni dal 1956 al congresso di scioglimento del PCI, gli stessi anni che sono trascorsi dal XX congresso del PCUS alla fine dell'Unione Sovietica. I due itinerari hanno viaggiato assieme e dentro questo percorso le tendenze controrivoluzionarie hanno agito in parallelo. Per i comunisti, prendere posizione è doveroso, ma bisogna dire anche che l'interpretazione delle vicende storiche che hanno portato allo scioglimento del PCI è stata confusa finora dai proclami emmellisti e dall'agitarsi dei libretti rossi, mentre la controrivoluzione ha alimentato a 'sinistra' le interpretazioni neotrotskiste sul fallimento del socialismo 'staliniano'. Per noi tutto ciò è però fuorviante e sta al di fuori di una visione materialistica dei processi storici. Sulle questioni poste nel corso di questo nostro lavoro c'è bisogno invece di un'analisi e di un dibattito seri. Il nostro è solo un contributo militante per iniziarli.


Note


[1] Il testo è stato da noi riprodotto nel fascicolo intitolato "La via occidentale al socialismo", primo della serie "La divisione del movimento comunista internazionale: le spinte oggettive", alle pagine 24-36 ed è scaricabile, con l'intero fascicolo, [qui] o isolatamente [qui]
[2] Renato Albertini, Giovanni Bacciardi, Catia Belillo, Guido Cappelloni, Vea Carpi, Gian Mario Cazzaniga, Armando Cossutta, Gianni Favaro, Fausto Monfalcon, Luigi Pestalozza.